“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 09 September 2019 00:00

Oltre il sensazionalismo: l’arte di Francesca Alinovi

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Quando sul finire degli anni Ottanta ho messo piede al DAMS di Bologna, la tragica fine della giovane ricercatrice Francesca Alinovi, avvenuta all’inizio del medesimo decennio, faceva ancora a tutti gli effetti parte della “mitologia damsiana”: doveva essere chiaro a chi si apprestava a frequentare tali ambienti l’universo maledetto che lo attendeva. Insomma, se nel migliore dei casi, a detta di non pochi bempensanti consiglieri non richiesti, la giovane matricola se la sarebbe cavata col buttare il proprio tempo in inutili dionisiache lezioni in cui “si canta, si balla e si dipinge sui muri anziché studiare davvero”, non era però da escludere una sua possibile discesa negli abissi più spaventosi.

Se da un lato l’uccisione di Francesca Alinovi non mancava di essere, più o meno esplicitamente, rievocata da menti semplici e penne facili come ammonimento, esempio della degenerazione dell’ambiente artistico-damsiano bolognese, dall’altro la sua figura di giovane ricercatrice borderline, in bilico tra istituzione accademica e ambiente underground, era entrata, più o meno velatamente, nell’immaginario di quanti, nonostante tutto e tutti, non avevano optato per una scelta universitaria dal chiaro e rassicurante sbocco professionale.
Al di là della fastidiosa mitologia cresciuta, suo malgrado, attorno alla prematura scomparsa di Francesca Alinovi, varrebbe la pena esaminare il suo contributo alla scena artistica a cavallo tra anni Settanta e primissimi anni Ottanta e a tale scopo viene in aiuto il recente volume Francesca Alinovi (Postmedia Books, 2019), curato dal giornalista e critico d’arte Matteo Bergamini insieme alla scrittrice, regista e critica d’arte Veronica Santi. Non si tratta di un libro su Francesca Alinovi, ma di un libro che le lascia, finalmente, la parola attraverso una raccolta di suoi articoli, interviste, saggi e recensioni, in buona parte pubblicati originariamente su giornali, riviste e cataloghi dalla metà degli anni Settanta sino al 1983, anno della sua scomparsa. Una parte di questi testi è apparsa in L’arte mia (Il Mulino, 1984, ristampato nel 2001), ma nel volume edito da Postmedia Books, non mancano, insieme a fotografie dell’epoca, alcuni inediti, a volte in stato di bozza, scansionati e riprodotti tali e quali.
La raccolta, introdotta, oltre che curata, da Bergamini e Santi, è suddivisa in due parti: nella prima, Arte Mia, viene riportata prevalentemente la ricerca di Alinovi relativa agli autori italiani, nella seconda, Arte di Frontiera, vengono invece presentati i suoi studi sul panorama artistico newyorkese, oltre che alcuni scritti sull’Enfatismo, fenomeno artistico sviluppatosi e consumatosi nei primi anni Ottanta attorno alla sua figura di critico militante.
Francesca Alinovi, dopo essersi laureata in Lettere con Francesco Arcangeli all’Università di Bologna e aver conseguito la specializzazione in Arte Contemporanea con Renato Barilli, è restata nel medesimo ateneo in veste di ricercatrice al DAMS, occupandosi soprattutto della produzione di artisti come Lucio Fontana e Piero Manzoni, delle poetiche spazialiste e dadaiste, oltre che di fotografia. Attiva nell’ambito della critica d’arte militante, affrontando e frequentando tanto l’ambito nazionale, quanto la scena newyokese, Alinovi ha lavorato – a volte in autonomia, altre collaborando con Roberto Daolio o Renato Barilli – all’organizzazione di numerose mostre. Per quanto riguarda le pubblicazioni della studiosa, oltre ai tanti interventi su cataloghi e riviste specializzate come Bolaffi Arte, Domus e Flash Art, vanno segnalate anche prove editoriali incentrate su Piero Manzoni, l’esperienza Dada, la fotografia, il paesaggio metropolitano e la questione postmoderna.
Si può dire, con Veronica Santi, che i due accadimenti che, nel corso del 1977, hanno segnato il percorso della studiosa sono stati il suo esordio nell’attività organizzativa nell’ambito della Settimana internazionale della performance a Bologna – ove, grazie a critici come Francesca Alinovi, Renato Barilli, Roberto Daolio e Marilena Pasquali, la città si è aperta alle novità espressive portate da performer come Marina Abramović, Ulay, Hermann Nitsch, Luigi Ontani, Vito Acconci, Laurie Anderson ecc. – e il viaggio a New York che l’ha messa a contatto con la Pattern Painting, con l’ambiente New Wave e con artisti come Keith Haring e Kenny Scharf.
Così ha preso il via un’attività critica militante che si interromperà  nel 1983, anno in cui pubblicherà quello che può essere considerato il Manifesto dell’Enfatismo sulla rivista Flash Art. Tracce di quel movimento hanno in realtà fatto capolino già qualche anno prima, a ridosso della mostra Ora! da lei curata presso lo Studio Cesare Manzo di Pescara. “Ora è una mostra che deve esserci ora, o mai più [...]. Ora, gli artisti giovanissimi ventenni anni Sessanta presenti in questa mostra vogliono semplicemente essere presenti, ora, nell’istante segnato da un attimo di presenza che passato non ha, né futuro vuole avere. Né citazione né progettazione, ma semplice coestensione col tempo nell’opera che ora c’è, ma che potrà anche non esserci più [...]. Questa è la now wave: l’onda dell’attimo che si infrange, che non ci tiene a durare nemmeno un secondo di più”. Dunque, l’attacco senza appello agli obitoriali: “Ci sono artisti, della generazione dei nuovi-nuovi o della transavanguardia, che hanno fatto delle opere già pensando alla loro collocazione nel museo. Opere giustamente obitoriali, che facevano un’archeologia del contemporaneo e dell’attualità. Questi artisti fanno, invece, una attualità antiarcheologica ed extramuseale: non c’è nulla da conservare perché non c’è più quasi nulla da fare: esiste solo il fare nulla, o fare qualcosa che è men che nulla, e che solo per un attimo starà lì; e poi non ci sarà più”. E ancora: “Fare quello che al momento riesce congeniale; e non farlo come opera d’arte mestiere impiegatizio redditizio a mensile assicurato, ma farlo perché, come si vive, così è necessario buttare fuori la propria sensibilità e condensarla in frammenti materiali visibili esterni, per guardarsi e contemplarsi meglio in specchi di alterità misteriose [...]. Essere liberi da tutte le collocazioni spaziali possibili: parete, spazio, iperspazio. Quadro, installazione, performance. Sperimentazione e massificazione. Aperto e chiuso. Dentro e fuori. Qui e Ora, solo Ora. Ho appeso le opere di questi artisti nella mia stanza e sono uscita a passeggiare nella città”.
È con queste premesse che si giungerà alla stesura del Manifesto dell’Enfatismo di Flash Art: “Enfarte, il pianeta dell’enfasi che si fa arte: l’enfasi dell’estasi, l’estasi di mettersi in mostra. L’Enfatia è come una malattia, è l’enfasi dell’estasi, è l’estasi del mettersi in mostra. È mostrarsi allo scoperto con l’enfisema sotto la pelle [...]. Gli Enfatisti sono degli enfanomani, megalomani dell’enfasi e malati di elefantismo, del gigantismo di sé, coi piedi grossi da elefante e il telefono innestato nel cervello per sintonizzarsi sulle onde telelefantiche, le onde della telepatia dell’enfasi [...]. L’Enfatismo è una parodia dell’esistenzialismo, una stilizzazione dell’esistenza, un’enfasi maniacale della quotidianità più accesa”. Ed ecco i giovani enfartisti radunatisi attorno a Francesca Alinovi: Francesco Ciancabilla che “fa pulsare in bianco e nero con tensione mozza fiato, immagini di sé e immagini altruiste (altrui) rapinate tra gli amici e i trofei di carne gonfiata, enfiatica, esibiti dalle riviste porno”; Ivo Bonacorsi che “si autocelebra in autoritratti di sopravvivenza postatomica e si lascia invaghire da vaghezze belliche medievali, incontri tra cavalieri drappeggiati e armati di lance che sparano missili boccheggianti come pesci”; Gino Gianuizzi, Valeria Medica e Maurizio Vetrugno, del gruppo e della Galleria Neon che ha ospitato alcune serate enfatiste; il gruppo dei tre teatranti, Emanuela Ligabue, Andrea Taddei e Claudio Bacilieri “già molte volte in scena sulle scene della nuova spettacolarità italiana”; i fotografi Lucio Angeletti e Beppe Blasi, autori di opere “di preziosità macroscopica, di bellezza dilatata, di decoro ingigantito. Sempre per questa enfatista smania di grandezza”.
Non è difficile scorgere in queste righe il disagio di una generazione che, uscita dagli anni Settanta, si stava apprestando a vivere gli Ottanta camminando sulla fune, sospesa tra disincanto e desiderio di non addormentarsi davanti alla tv accesa, bisogno di ridefinire la propria identità e narcisismo individualista, resistenza all’omologazione e rappel à l’ordre dietro l’angolo.
“Non sono io che ho raccolto queste opere, comunque, sono loro che sono venute a precipitare addosso a me”. Così Francesca Alinovi ha descritto la sua abilità nel captare, a volte anche prima di altri, i cambiamenti in atto nella loro essenza e nella loro portata. “A me premeva dimostrare che non c’era nessuna scuola, solo spontanee convergenze su un comune clima di sensibilità. E io mi sono considerata come uno strumento catalizzatore di queste esperienze. Io mi sono comportata come un radar, pronta a captare quanto mi accadeva intorno [...]. Ho scelto questo mestiere perché non andava verso il senso comune. Ecco, a me piace non aver buon senso” (A proposito di Italian Wave, 1980). E ancora, scriveva Alinovi in apertura degli anni Ottanta: “Mentre la spettacolarizzazione e traduzione di immagini della società ha appiattito irreversibilmente la profondità del reale, distendendolo, come una pellicola superficiale, sugli schermi delle nostre relazioni percettive, filmiche, televisive e fotografiche, la contemporanea computerizzazione del cervello ha aperto alla nostra mente le dimensioni sconfinate di un sovraccarico di sapere: un eccesso di conoscenza che, se da un lato sembra trascendersi, dall’altro, ancora come nel mito platonico della caverna, sembra ingenerare in noi una pericolosa smania suicida di oblio, una volontà autodistruttiva di obnubilazione” (Natura impossibile del postmoderno, 1982).
Quando quell’estate del 1983 è stata assassinata, tutto il suo lavoro in ambito artistico è passato in secondo piano fino quasi a scomparire. “Lei teorica dell’Enfatismo, del narcisismo e della spettacolarità espansi anche nel sistema dell’arte”, ricorda Veronica Santi, “si ritrova (suo malgrado) a essere la protagonista degli scandali e del sensazionalismo tipico della cronaca nera, per la quale un’esistenza può essere ricondotta a meri fatti di superficie. Incolori”.







Matteo Bergamini e Veronica Santi
(a cura di)
Francesca Alinovi
Postmedia Books, Milano, 2019
pp. 320

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