“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 07 September 2019 00:00

Fondamenti del Teatro: Che attore è Carlo Cecchi?

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"Quando vidi recitare per la prima volta Carlo Cecchi in una parte da protagonista (nel Borghese gentiluomo) provai una serie di sensazioni diverse.

La prima fu per la disarticolazione dei movimenti; meglio, la scoordinazione. Cecchi mi parve simile a uno straordinario e involontario Pinocchio; era Pinocchio anche nel naso, nell'obiquità inattesa delle pose e nella loro improvvisa e irreparabile stanchezza, ma soprattutto nella nudità, nella purezza, in quella miracolosa combinazione di vitalità e di mancanza di sesso che è solo di Pinocchio. Quest'impressione venne subito corretta dalla presenza di un'oscurità, di una drammaticità, di una sofferenza tesa e accigliata da domatore dentro la gabbia: col che l'immagine di Pinocchio spariva, per cedere il posto a una sensazione di allarme e di pericolo. Con mia grande sorpresa vedevo alle spalle di Cecchi, e sotto i passi di Cecchi, aprirsi un precipizio e crescere tra gli attori una tensione imprecisabile, come se la finzione fosse sempre sul punto di rompersi; l'insicurezza, l'imprevedibilità di Cecchi era tale da diventare assoluta dominatrice e da far convergere su di sé ogni attenzione; la sua azione di attore si trasformava, per la sua vulnerabilità, in un'acrobazia oscura, misteriosa, come uno che fronteggi e schivi i colpi di un nemico invisibile e sconosciuto. Così il palcoscenico spadroneggiava su di lui agitandolo, sballottandolo qua e là senza che si riuscisse a capire se si trattava di una scelta tecnica o di uno stato di sofferenza e tortura. La capacità di mantenere, sull'orlo della dissociazione, il controllo degli attori e la padronanza della scena, il gesto imperscrutabile di comando e il carisma nel momento in cui la crisi di annientamento era più manifesta, erano uno spettacolo travolgente.
Che attore era questo?
Riconoscevo antichi spettri: la presenza, l'incubo, il bisogno di realtà.
La realtà. Essa era a pochi centimetri dalla recitazione, vicinissima; era la realtà, anche se invisibile, a sollevare il vento e a lasciarlo cadere impetuoso, agitando sul palco improvvisato gli attori impavidi come maschere o eroici come marionette. Si apriva uno spazio teatrale più antico di quello del Novecento; si poteva misurare lo spessore della recitazione, penetrarne il grado di scandalo carnale, sentirne il fiato; più o meno come si doveva avvenire alle origini del teatro moderno. Questa disponibilità della finzione a lasciarsi percorrere dalla realtà (questo cambiare del vento) mi stupì ancora più ancora di certi silenzi, di certe pause che Cecchi ha imparato da Eduardo: momenti inattesi, svianti di concentrazione che rompono l'unità illusiva dello spettacolo e fanno cadere, in teatro, un'inspiegabile malinconia".



"Come tutti gli attori la cui recitazione cristallizza in fatto culturale Cecchi è essenzialmente un capocomico. Al centro di una compagnia, gli altri attori lo guardano come uno di loro e, nello stesso tempo, lo riconoscono come il portatore, dentro il teatro, di una diversità. Questa diversità è la consapevolezza, ma anche una ferita, una sofferenza. Ciò che fa il carisma di un attore − e lo fa diventare il punto di riferimento obbligato, la guida, la coscienza di altri attori − non è un'overdose di talento: è il sospetto di una disappartenenza al teatro, la misteriosa capacità, da parte di un attore, di trascendere il teatro proprio nel momento in cui egli ne è il testimone assoluto. Ciò che gli attori di Eduardo (o di Cecchi) spiano sul volto del loro capo carismatico, mentr'egli sta recitando in mezzo a loro, è il dolore perché si è compiuto qualcosa di irreparabile, è qualcosa di simile a una nostalgia. Si può usare una metafora. Se la professione d'attore è simile a una dannazione e a un esilio, l'attore/capo è colui che porta su di sé tutto il castigo, il peso del delitto e del sacrificio; è il re pharmakòs, colui al quale si guarda con sacro rispetto perché è giunto là dove non si può fare ritorno; là dove ha origine la misteriosa corrente di verità da cui siamo partiti. Se per un attore il teatro è una totalità, per l'attore/capo il teatro è una totalità che non dà più gioia, una totalità mutilata, sanguinante.
La recitazione insolita di Cecchi, insolita perché si tratta di un gioco che è una tortura (la recitazione viene perseguita come uno strumento di autodistruzione, non come un'espressione ma come una perdita di vita) presenta un aspetto singolare. Di solito la recitazione di un attore/capo tende ad espandersi, a trionfare, a liberarsi con un rapporto di prepotente voracità nei confronti dell'oscuro popolo di comprimari. Il caso di Cecchi è esattamente inverso. Cecchi tende a nascondersi, a mettersi in ombra, a sparire negli angoli; a rattrappirsi; e là, nei suoi angoli, lascia che ondate sadomasochistiche si scatenino rovesciandosi con una violenza che si esercita e si abbatte contro di lui. Ho visto cecchi ingobbirsi, curvarsi sotto i colpi di sferze inesistenti; e l'ho visto perfino impegnato, al centro del palcoscenico, nello sforzo meno appropriato per un attore: lo sforzo di rendersi immateriale".



"Cecchi non recita se stesso ma s'impossessa di un testo − Molière, Brecht, Pinter, Čechov − prelevandolo dalla tradizione e gettandolo nel teatro; culturalmente, il testo non viene dotato di alcun significato prima della sua fusione; esso è solo l'articolazione necessaria all'espandersi del corpo del teatro. "Vediamo cosa succede" prendendo Molière o prendendo Čechov; vediamo "cosa ne fa" (che cosa è) il teatro. Non si tratta di una verifica, perché non si sa di che cosa si parla e che cos'è in gioco: il teatro non si è ancora rivelato. Per rivelarsi esso ha bisogno che in gioco entri ciò che lo fa essere: l'ipocrisia, l'emozione dell'ipocrisia. È su questa emozione che lavora Cecchi.
Nulla è più sciocco, si sa, della presunzione registica di spiegare a un attore (dal di fuori!) il retroscena culturale e drammaturgico di una battuta o di un'azione, come se la propria parte, per un attore, fosse una fetta di copione da leggere o un codice da decifrare. Un attore agisce per metafora: nel pronunciare la battuta dà due cose e non una, o meglio, "dà una cosa per un'altra"; egli è letteralmente l'ipocrita e, nel momento in cui si sta chiedendo se è meglio essere o non essere, sta verosimilmente parlando d'altro. Al messaggio, al significato di un gesto o di una battuta, un attore giunge percorrendo una strada abusiva, confondendo rigorosamente il reale con l'immaginario. Che cosa sta dicendo un attore a un attore? L'ipocrisia di un attore viene prima dell'attore, perché la vita (non il teatro) è ipocrisia (il teatro ne è solo la rivelazione). Dunque ciò che è meno necessario − per recitare un testo secondo "realtà" − è andare a caccia della sua verità storica, critica, culturale; più necessario è che un gruppo di attori, gettati dentro un sistema relativo, dato uno schema di rapporto, si parli attraverso le parole di quello schema: è necessario, cioè, che l'istituzione dell'ipocrisia sia ipocrisia reale".



"Sono passati diversi anni e continuo a credere che Cecchi rappresenti una macroscopica eccezione. Che un attore persegua una verità scandalosa e la raggiunga, è in fondo comprensibile; è questa la gioia, l'esultanza del teatro; il fuoco della recitazione, al punto che un attore mediocre sarà sempre portato a inseguire la sincerità enfatizzando l'istrionismo. ma il caso di cecchi è unico. La gioia di recitare, in Cecchi, è mentale, non fisica; il suo narcisismo è immaginario; e la sua azione in scena non ha nulla di trionfale. I sensi di colpa che portano un attore a sfidare l'ipocrisia, a usarla come strumento di verità, prendono in Cecchi la direzione contraria: e se c'è uno scandalo, nella sua recitazione, o una verità misteriosa, essa risiede nella generosità con cui si regala a un supplizio".






Fondamenti del Teatro

Cesare Garboli
L'attore
in Falbalas
Milano, Garzanti, 1990
pp. 244; pp. 134-141

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