“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 03 September 2019 00:00

“Trasparenze” e la sua utopia in movimento

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Arrivo, come spesso m’accade, buon ultimo a scrivere di Trasparenze, festival organizzato dal Teatro dei Venti di Modena e giunto alla sua settima edizione. Partiamo dalla fine, da quel che doveva essere e non è stato: prevedeva, quest’edizione del festival, di concludersi spostandosi sull’Appennino modenese, precisamente a Gombola, frazione di Polinago, dove avrebbero dovuto aver luogo gli ultimi spettacoli di domenica 5 maggio; così non è stato: meteo inclemente, un sussulto tardivo d’inverno con tanto di neve a interrompere la viabilità e così, l’ultimo giorno di festival che doveva sancire un “passaggio” metaforico, ha finito per cozzare contro l’imponderabile che si travestiva da irrealizzabile.

Eppure...
Eppure partiamo dalla fine proprio perché in questo “non fatto” – che è stato tuttavia incapace di inficiare il valore essenziale di questo festival – risiede uno degli aspetti che ti fa venir via da Modena consapevole di un’idea: che l’utopia, anche quando non si realizza, rimane possibile, soprattutto quando è capace di mostrarti un pezzo di strada abbondantemente percorso, il cui senso pregno è stato già palesato, a prescindere dall’epilogo mancato – o meglio diverso da come programmato. L’Appennino su cui ci si doveva inerpicare aveva una forte valenza simbolica, volendo segnare per Trasparenze una fase di passaggio, come si fosse all’apice di uno scollinamento fra un prima e un dopo; l’impressione è che questo passaggio sia avvenuto comunque, ad onta delle difficoltà che gli dèi appenninici hanno deciso di frapporre, perché questo festival si lascia dietro una scia di vitalità artistica e culturale del tutto meritoria.
Innanzitutto perché si discosta dalla idea e dalla concezione tradizionalmente vetrinistica delle rassegne festivaliere che affollano i cartelloni nostrani da primavera inoltrata al far dell’autunno. Trasparenze ha vocazione “altra”, che affonda le proprie radici nel lavoro sul territorio – e segnatamente nelle carceri, sia di Modena che di Castelfranco Emilia – portato avanti dal Teatro dei Venti e dalla comunità che vi ruota attorno.
Sembrerebbe ambizioso il progetto scandito dal motto di questa edizione, “Muovere utopie”, eppure, visto da vicino, Trasparenze sembra proprio un’utopia che si muove, simbolicamente e programmaticamente incarnata dalla macchina scenica del Moby Dick che ha coronato quest’edizione, un mastodontico corpo scenico che si muove trascinato a forza di braccia, sfidando le leggi della fisica, come quel calabrone che non sa che, in virtù del suo stesso peso, eccedente la forza cinetica generata delle proprie ali, non potrebbe tecnicamente volare. E intanto vola...
Un festival che ti “costringe” ad affrancarti dalla logica binaria (e semplificatoria) del ‘mi piace’ o ‘non mi piace’ per suggerirti un’angolazione differente. Trasparenze è soprattutto il modo attraverso cui il Teatro dei Venti offre uno spaccato della propria attività a ampio raggio e la mette in relazione con la realtà teatrale italiana, nel cui panorama questo evento s’accomoda facendo mostra della propria specificità. Una specificità che vede il gruppo – modenese per residenza e adozione, ma geograficamente plurale (cosmopolita direi) per composizione – che anima lo spazio del Teatro dei Venti impegnato in una attività ultradecennale nelle carceri, dapprima presso la Casa Circondariale di Castelfranco Emilia (dove lavorano dal 2006) e poi anche all’interno del carcere di Modena (dal 2014); una progettualità a ampio raggio, che prevede non solo il lavoro coi detenuti all’interno delle rispettive strutture, ma anche la possibilità di farli coabitare nello spazio neutro del Teatro dei Venti – e quindi di uscire dal perimetro detentivo – per svolgere in una dimensione di sostanziale “normalità” l’attività teatrale.
Ma non c’è solo questo: Trasparenze è anche altro; è ad esempio la sinergia con Periferico, un altro festival che, sempre a Modena, riceve il passaggio del testimone nei giorni immediatamente successivi a Trasparenze, addirittura sovrapponendo alcune iniziative messe in condivisione tra le due rassegne (come la performance vocale Elementare del Collettivo Amigdala, che abita uno spazio teatrale per un’intera notte); è Trasparenze anche una serie di laboratori con i bambini, con gli ospiti di una casa protetta, con i membri di una compagnia formata all’interno di un centro di salute mentale, progetti per ciascuno dei quali viene mostrato un esito aperto al pubblico; ed è Trasparenze il Progetto Cantieri, in cui si offre – sia pure per un tempo circoscritto a pochi giorni di residenza – a delle compagnie uno spazio in cui lavorare a un proprio progetto, al cui processo in fieri è dato di assistere dapprima in estemporanee incursioni al Teatro Cajka, infine vedendo in scena una sintesi di quel processo in fase di gestazione; Trasparenze è poi la Konsulta, ovvero un consesso di ragazzi e ragazze che si incontrano, discutono, scelgono e propongono alcuni dei progetti che comporranno il cartellone del festival. È infine Trasparenze una finestra su momenti spettacolari particolari, che sono in fase di abbrivio, ma è anche l’occasione per ammirare la rappresentazione della produzione di casa, un Moby Dick – sul quale torneremo più avanti – che vibra d’un che di epocale, sa di impresa titanica al pari dell’avventura in cui s’imbarca il Pequod e che, oltre a essere inscenato (e la messinscena sembra avere ogni volta i crismi epici dell’impresa), viene raccontato nella sua fase preparatoria dalla proiezione di un illuminante documentario firmato da Raffaele Manco – Moby Dick o il Teatro dei Venti – che già nel titolo preconizza quest’identificazione fra lo spettacolo e gli artefici della creazione e che ripercorre rendendole vivide e pulsanti tutte le emozioni condivise di un progetto immane per proporzioni, aleatorio nelle sue problematiche possibilità di riuscita, sfida pari a quella di Achab al Leviatano degli oceani. “Impresa” che racconta molto dell’essenza del Teatro dei Venti: come l’opera di Melville è uno di quegli esempi di libro-mondo, così lo spettacolo firmato da Stefano Tè sembra racchiudere non solo un nucleo poetico emblematico di un’idea di messa in scena, ma un’idea complessiva di teatro intesa come sfida a un proprio limite, individuato e affrontato.


Nelle carceri

Due sono le incursioni che compiamo tra le mura che recludono la libertà; la prima è a Castelfranco Emilia, nella Casa di Reclusione che accoglie non solo detenuti, ma anche “internati”, ovvero uomini che, terminata la pena detentiva, non hanno dove andare e con chi stare e trasformano il carcere in dimora (mi torna in mente Brubaker e il vecchio Abraham, il detenuto di colore interpretato da Richard Ward, che persiste in carcere mentre la sua pena detentiva è scaduta da tempo). Qui, sotto la guida di Nicola Borghesi della compagnia Kepler 452, gli ospiti della Circondariale inscenano una rappresentazione che prende le mosse da Albert Camus. Dopo l’accesso filtrato veniamo condotti in un giardino con le siepi a labirinto, cortile interno della struttura carceraria di Castelfranco; ci accomodiamo sulle panche poste nel vialetto centrale, prima di una serie di platee in cui saremo spettatori itineranti; è un pomeriggio assolato, discretamente caldo, che digraderà verso l’imbrunire col compiersi dello spettacolo (che chiamiamo così per convenzione, ma che merita definizione più congrua di “rappresentazione”). Punto di partenza Lo straniero di Camus, tra memoria e fantasia: “Io potrei stare cento anni in carcere dopo essere stato un solo giorno fuori, perché ho imparato a ricordare” è una frase che risuona come programmatica; è l’uso della memoria a essere centrale in questo esito di laboratorio con gli abitanti della casa circondariale.
Il decano di tutti loro (per tutti semplicemente “Sartori”) suona una campana che sancisce l’ingresso nel labirinto di siepi dei dodici interpreti, che si dislocano asimmetricamente e ci danno il benvenuto nelle patrie galere, declinate nei vari nomi con cui si possono definire, gergali e dialettali compresi. “Noi siamo detenuti”, lo dichiarano come a rivendicare una loro autenticità che non smette né si sospende durante lo stare su quella scena allestita all’aperto, eppure non è del carcere che vogliono parlare, ce lo dicono, ce lo fanno capire, ci raccontano che “Antonio dice che piuttosto che parlare del carcere, lui il teatro non lo fa”.
“Noi qui evadiamo tutti i giorni” (urlano), “solo, SOLO che nessuno se ne accorge”. Suggerisce, questo loro agire, questo loro dire, un’immediata analogia tra gabbia e labirinto, un’intersezione di senso fra il luogo fisico in cui ci si trova e il luogo mentale che si costruisce nei meandri dei loro pensieri. Carcere luogo fisico di detenzione, labirinto luogo mentale di dispersione.
Ciascuno di loro racconta frammenti del proprio vissuto e la storia di uno finisce per essere la storia di tutti, si fa memoria condivisa di qualcosa che è in bilico tra il vero e il verosimile (e nemmeno ci deve importare più di tanto il fondo di verità che permea il vissuto di ciò che si narra). Memoria in costruzione, memoria in costrizione, questo appare Tecniche di evasione, uno spaccato che rimescola i vissuti personali, fatti di ricordi semplici quali possono essere il matrimonio di una sorella, una trottola ricevuta in dono o le chiavi di un’abitazione, le prime ricevute per entrare nel primo luogo che si sia potuto legittimamente chiamare casa; o ancora il ricordo di una giornata al mare, un tramonto condiviso, la mano nella mano di un’innamorata. Ricordi di figli ora lontani e vagheggiamenti di figli mai avuti, l’esercizio della memoria trascolora nell’universo parallelo del possibile e del non realizzato, del vagheggiato e non (ancora) avuto, dei padri che non si è avuto, dei padri che si sarebbe voluto essere.
Rivendicano il benessere vivificante di questo loro “fare teatro”, che conferisce loro un’altra dimensione del tempo (“è passato, è presente, è futuro”), per chi del proprio tempo è costretto a perderne potestà; nel loro “facciamo che”– che guarda caso s’esplicita in un’area giochi – s’evoca quel meccanismo del teatro in cui c’è tutto il desiderio – anche fanciullesco – di gioco e di vita non scissi.
Recita itinerante, che si conclude sul palco della sala teatrale della struttura, rievocando una foto di gruppo, come quelle che si fanno a scuola, con ognuno di loro chiamato a fare coreografia di un momento, di un ricordo, di una memoria condivisa, che è sì individuale, ma che in fondo è di ciascuno di loro, appartenendo a un sostrato comune.
In questa comunione, in questa vicinanza, in questo abituarsi a ricalibrare un proprio permanere, districandosi in quel labirinto che imprigiona la mente, sta tutto il senso di un lavoro onesto e rispettoso.
Da un giorno all’altro, da un carcere all’altro: è a Modena la seconda incursione in un istituto di pena prevista dal festival: Carcere di Sant’Anna, dove, dopo il consueto iter che filtra l’accesso, i detenuti ci accolgono in una sala per presentarsi, mostrandoci, declamando qualche brandello di testo, disposti alla rinfusa, sparsi frontalmente in una sala, nella quale – dopo un iniziale momento a metà fra la sospensione e l’imbarazzo – ci distribuiamo, ci mescoliamo fra loro, qualcuno fra noi gli si avvicina, li scruta, gli tende una mano... resto discosto e penso che il loro breve benvenuto, inscenato sotto la guida di Simone Bevilacqua di Teatro Ebasko, sia più nobile dell’indugiare curioso dei nostri sguardi in mezzo ai loro volti. Ci accompagnano poi alla sala teatrale, nella quale Danio Manfredini va in scena col suo Divine, ispirato da quel testo di Genet – Nostra signora dei fiori – che per Manfredini è una sorta di ricorrente e dolce ossessione (basti pensare a Cinema Cielo), idea di un film mai girato che, nella sala teatrale del Carcere di Sant’Anna, assume la forma di un reading, che però s’arricchisce di paesaggi sonori e visuali, fatti di musiche che accompagnano il testo e di acquerelli in proiezione (opera dello stesso Danio) che scorrono su uno schermo in fondo e che corroborano la virtù evocativa di Manfredini, del suo racconto, delle figure che lo animano e che concorrono a costruire una narrazione che sa farsi vivida, commistione multidimensionale di elementi votati a un unico senso, quello di una storia di (de)formazione, che pulsa in un sottobosco umano di reiezione verso cui il sentimento guida è improntato a una tenerezza compassionevole, come se nei tenui colori che accompagnano la parola si trasfondessero le sfumature multisfaccettate di sensazioni contrastanti, che contemperano il tenero e il sordido, senza che fra questi ambiti di senso si crei manichea distinzione, ma anzi densità di senso che conduce a sintesi quella polivalenza connaturata all’umano per cui il basso e l’alto – di più, l’infimo e l’eccelso – riescono ad apparire come affezioni di una medesima sostanza. Umana, umanissima.


Danza e danze, musiche e suoni
Nell’attenzione che Trasparenze dedica ai linguaggi della scena, uno spazio consistente è dedicato alla danza, sia a progetti ancora nella fase embrionale di studio che a lavori compiuti, in ogni caso un panorama concentrato e allo stesso tempo vario che mette lo spettatore in relazione con uno spaccato significativo del settore; a cominciare da Pragma, di Teatro Akropolis, che inscena uno studio sul mito di Demetra concentrandone la storia – con tutto il suo portato semiologico e metaforico – nella sintesi evocativa di una partitura coreografica in cui si susseguono, illuminate da tagli di luce diagonali che vanno a formare un rettangolo sbilenco, le sequenze essenziali e cruente di un archetipo mitico costruito attorno al concetto di fertilità, legame tra corpo e terra, ciclicità delle stagioni e dei ritmi sempiterni tra vita, morte e rinascita, scanditi dall’evocazione di un rituale arcaico che sulla scena assume la forma di corpi che si stringono veementi, fino alla consunzione, abbeverandosi di veleno, propagando infertilità e infine rigenerando nuova vita.
È un lavoro strutturato e curato nei dettagli Pragma, capace di far parlare la voce archetipa del mito col linguaggio corporeo del contemporaneo grazie alla pregnanza del gesto, per quanto, a una piena intelligibilità di quanto accade in scena sia necessaria e propedeutica una conoscenza dell’oggetto della rappresentazione. Di buon livello è anche Ohhhh di Simona Bertozzi, che nel medesimo spazio si muove in solo; il suo corpo vibra e si contorce, seguendo linee guida tracciate da solchi di parole che sembrano orientarne il percorso e scandirne il respiro. Pulita nell’esecuzione, i suoi “appunti per una nuova danza” si distribuiscono in assito con la chiarezza espressiva data dalla sintesi di parole e movimento, disegnando una sorta di tragitto simbolico ed esistenziale.
Ma è poi con Concerto fisico di Michela Lucenti che ogni discorso sulla danza e sul performativo viene a essere declinato in una forma di livello superiore; questo perché la padronanza del corpo e del gesto della Lucenti s’irradiano dal palco con un nitore abbagliante, in una partitura fisica e musicale che dipinge con pennellate divertite e divertenti un affresco di vita artistica, all’interno del quale le movenze della coreografa – accompagnata da Gianluca Pezzino alla consolle su un lato del palco – senza rinunciare a mostrare tutta la splendida armonia di ogni sua evoluzione si fanno veicolo di una narrazione a tratti surreale, in generale godibilissima, giostrata su più livelli – testuale, coreografico, musicale, canoro – e votata a fare del corpo scenico dell’artista cassa armonica in cui risuonano gli echi di un percorso umano e professionale stratificato, del quale non si fa cronaca ma velata allusione, come se corpo voce e suoni fossero una pellicola da scrutare in filigrana per scorgervi un’idea di fondo che permea la visione artistica (ma non solo) della Lucenti.
Un discorso a parte merita Un.habitans, il progetto di Caterina Moroni che ci vede di buon mattino attraversare il Cimitero di San Cataldo, all’esterno del quale ciascuno di noi viene dotato di un paio di cuffie e d’una mappa e fornito d’un fiore o d’un ortaggio, prima di cominciare un piccolo viaggio guidato tra le suggestioni dell’impermanente, come isolati in un limbo sospeso tra la nostra cognizione di vivi e la percezione diretta di ciò che è finito e giace sotto terra. Un modo per essere messi a confronto con l’incognita del dopo, che ci risuona nelle orecchie sotto forma di un confuso vociare, prima che le nostre istruzioni ci portino in cospetto ciascuno di un sepolcro, davanti al quale siamo indotti a entrare in relazione: leggo dei nomi, delle date, “conosco” una coppia antica di quasi un secolo, accanto a loro la tomba di quello che deduco essere stato il loro unico figlio; le suggestioni si accavallano, vengo indotto dalla voce registrata a prendermi cura di quel sepolcro, poi a distendermici accanto o sopra, infine a sfrenarmi in una danza; assecondo ogni indicazione e progressivamente entro in relazione con una dimensione sospesa, intrisa delle incognite eterne che atavicamente sono angustiante rovello sul senso della nostra permanenza nel consesso dei vivi prima di tornare ad appartenere alla terra, lasciando di noi una traccia e un simulacro. La questione non si risolve, non può essere risolta – né questo “spettacolo” ne ha la pretesa – ma, lavorando a livello suggestivo, Un.habitans conduce coloro che prendono parte a questa “visita guidata” alle soglie degli inferi all’imbocco di una dimensione di confine, lungo il cui ciglio, volenti o nolenti danziamo in bilico tutti; e si limita, con la delicatezza di un sussurro, a suggerirci di entrare in contatto con la terra da cui veniamo e a cui ritorneremo e, nel frattempo, a prendercene cura, di essa e di noi stessi, del mondo e degli affetti, prima che – come ci suggerisce l’ultima emblematica scena in allontanamento prospettico e progressivo lungo un corridoio di colonne – scada il comodato d’uso del nostro corpo mortale.
Spostandosi dall’ambito tersicoreo e spettacolare a quello eminentemente musicale, appuntamento sui generis è quello con Elementare del Collettivo Amigdala, performance vocale della durata di una intera notte che crea una suggestiva idea di comunione facendo di uno spazio chiuso un ricetto, in cui adagiarsi in terra, fra materassi e cuscini e lasciarsi cullare dalle evoluzioni vocali che si distenderanno per l’intera notte, divenendo fondanti di un clima di empatica partecipazione, come se, all’interno de La Torre si creasse un piccolo consesso di uguali affratelati in rarefatta contiguità. Momento in condivisione tra Trasparenze e Periferico, Elementare suggerisce il senso e il valore programmatico di una sinergia proficua.


Laboratori e residenze
Come s’anticipava, laboratori e residenze costituiscono elementi organici a Trasparenze, sui quali è doveroso soffermarsi. Oltre a quanto sopra raccontato circa i progetti realizzati nelle carceri, assistiamo agli esiti di due laboratori in residenza, quello di TeatrInGestAzione con gli ospiti di una Casa Protetta e a quello di Quotidiana.com con i membri del Gruppo l’Albatro, compagnia teatrale del Centro di Salute Mentale. Ciò che vediamo è relativamente significativo, anzi per lo più lascia anche qualche perplessità irrisolta sul senso e sul valore di quanto esposto, mentre resta – sebbene un po’ sottotraccia – la sensazione della proficuità di partecipare a un piccolo percorso per i membri delle due comunità: il senso, ancora una volta è nel percorso più che nella resa scenica. Resta però un dubbio che non si risolve, e che riguarda l’uso del teatro come fosse una terapia da somministrare e non una opportunità da praticare, ma è argomento alquanto scivoloso, meritevole di più ampie riflessioni e che mi lascia un dubbio sospeso fra senso e dissenso.
Diverso il discorso che si può fare per i laboratori che si svolgono al Teatro Cajka e ai quali c’è dato di assistere, prim’ancora di vederne un abbrivio di sintesi l’ultimo giorno. Avatāra, Cremaschi/Francabandera/Zanoli, Sara De Santis/Emanuel Andel lavorano a tre diversi progetti dei quali ciò che ci viene mostrato è parzialmente indicativo. Ma quel che più conta, com’è ovvio che sia, è la possibilità che ci viene data di seguire i processi in quel loro sia pur frammentato e conciso divenire concentrato nei pochi giorni di festival. Certo una durata maggiore e uno sguardo più assiduo sarebbero migliore e più funzionale opportunità, però la facoltà di sbirciare diversi linguaggi che prendono forma mentre sono ancora in fase embrionale rappresenta comunque uno di quegli aspetti della nostra attività di spettatori privilegiati che più ci sta a cuore, perché ci consente di stabilire un tipo di relazione più illuminante e esplicativa sulle modalità compositive e sui prodromi della creazione artistica, dandoci modo di veder sbozzare ciò che in quel momento è solo un accenno d’idea, così aggiungendo qualche tassello in più alle nostre chiavi di decodifica.


Moby Dick
E veniamo infine a Moby Dick, fulcro spettacolare di questa edizione di Trasparenze; diretta da Stefano Tè, la produzione di casa, come accennato dianzi, somiglia a un manifesto programmatico dell’essenza stessa del Teatro dei Venti, di un modo precipuo di concepire e intendere il teatro, fatto di partecipazione e coinvolgimento dei luoghi e dei tessuti urbani.
La chiave di lettura proposta del capolavoro di Melville si appoggia a una interpretazione eminentemente politica del testo, suggerita dalla consulenza drammaturgica di Giulio Sonno; se il Moby Dick di Herman Melville, nel suo impianto dalle profonde ascendenze omeriche, bibliche, shakespeariane, si dipana poi come viaggio nei meandri dell’ambiguità del reale, come epopea di un eroe tragico e dolente quale Achab, la cui ossessione si connota di significati simbolici, spettri ancestrali, fantasmi da inseguire e a cui si contrappunta l’antieroe Ishmael, in questa visione scenico-filosofica si mettono in evidenza tematiche altrettanto ancestrali che pure sono in nuce nell'opera, che fanno riferimento a Emerson e a Goethe e che fanno di Achab un novello Faust, la cui vita s’immola in un tentativo d’espiazione che vorrebbe passare attraverso la distruzione del Male incarnato dal cetaceo. Allargando in senso prospettico questa visione, la chiave “politica” risiede in una concezione che fa della balena bianca la massificazione dell’individuo contro cui si scaglia l’eroe rivoluzionario e dolente incarnato da Achab, la cui epopea tragica lascerà traccia di sé nella testimonianza di Ishmael.
È un libro-mondo Moby Dick, e di questo libro-mondo si fa riduzione che scarnifica il testo, lo scinde parcellizzando le parole e dilatando in immagini e suoni un’idea che ha le forme del molteplice; è un viaggio quello che compiamo a bordo del Pequod che si presta a una serqua di declinazioni possibili; spettacolo polimorfo, questo Moby Dick del Teatro dei Venti, offre a ciascuno di noi che ci si ritrovi imbarcato, la possibilità di scegliersi un’angolazione dalla quale guardare, ciascuno di noi può scegliersi il proprio viaggio da inventare, abbandonandosi a una miriade di suggestioni possibili. Il mio viaggio prende le mosse da una suggestione e da una analogia cinematografica: Leviathan di Andrey Zvyagintsev, un film che nella sua visione cinica e disincantata della vita e del mondo sembra attagliarsi in pieno a questa lotta inesausta inscenata, a questo tentativo di esplorare i limiti dell’umano superando le colonne d’Ercole che conducono verso le brume di un altrove nebuloso e inconoscibile, a questo cercare un nemico senza riuscire a trovare se stessi, un viaggio improntato a una ricerca che di fatto si trasforma in perdita.
Tutto ciò si traduce in un linguaggio scenico di grande impatto visuale, una costruzione per immagini e suoni che s’imprime negli occhi in un crescendo spettacolare che s’apre con una marea di bambini in cerata gialla che paiono incarnare un’infanzia cosmica, precedente a ogni corruzione; entra poi la grande macchina scenica, il microcosmo Pequod, trascinato a braccia da nerboruti uomini a torso nudo (i detenuti delle carceri modenesi) e “spinta” emotivamente dal capitano di quest’impresa, Stefano Tè, che ne accompagna fisicamente l’ingresso in scena, come a voler aggiungere alla forza delle braccia altrui tutta l’energia dei propri impulsi.
Assistiamo progressivamente alla costruzione della nave e del viaggio che intraprende, un viaggio che ha la forma di coreografie cadenzate dal suono di botti percosse, danzando su trampoli la cui acrobazia parrebbe suggerirci la precarietà di gambe monche, tra schizzi d’acqua e colpi di ramazza, costruzione di sartiame e movimenti continui che sfruttano l’intero spazio scenico definito e conchiuso in un battello ebbro di senso; il lavoro acrobatico – mirabile – degli attori avviene instaurando una relazione fisica, quasi carnale, con la macchina teatrale, elemento scenico in divenire, la cui chiglia, nel climax spettacolare, si trasformerà, issandosi, nello scheletro di una balena, sollevata in alto a livello dell’albero maestro e ruotando su se stessa di centottanta gradi per fronteggiare l’Achab stagliatosi fiero nella sua eroica posa di sfidante votato al compimento tragico di una missione etica e eroica. Una missione che si compie col compiersi dello spettacolo, una senso di sospensione da mozzare il respiro pervade l’atmosfera tutt’intorno, mentre Achab si consegna e s’immola, mentre il disegno, scenico e cosmico, appieno si realizza.


Epilogo
Si chiude il giorno dopo Trasparenze, il viaggio del Pequod è una suggestione che rimane, una follia realizzata, un’utopia che si è mossa. La neve ci lascia privi della visione di Roberto Latini e di Roberto Abbiati, rimasti confinati nelle brume lattiginose di Gombola, ma riusciamo a recuperare in extremis i canti tradizionali africani di Mario Biagini e del suo gruppo; risuona l’Africa, con un’allegria malinconica che accompagna all’epilogo, celebrando un senso di comunità che s’effonde rarefatto e soffuso: l’utopia è in movimento, lungo la rotta tracciata dal Pequod, che ha ormai scarnificato l’ombra del leviatano, di quel grande fantasma incappucciato, e può continuare il suo corso, può fieramente issarsi sulla tolda e urlare al simulacro del nemico: “Spalanca la tua bocca Moby Dick. Parlami, e se non ne sei capace prova a stringermi nella morsa del tuo mistero. Vengo a te”. L’utopia si compie muovendole incontro, sfidando la morte e sopravvivendole in ogni caso, pur se inghiottiti dall’abisso.





Trasparenze Festival
Modena/Castelfranco Emilia (MO)/Gombola (MO), dal 2 al 5 maggio 2019
direzione artistica Stefano Tè
consulenza alla direzione artistica Giulio Sonno
progetto ideato da Teatro dei Venti
e dalla Konsulta
organizzato in collaborazione con ATER – Circuito Regionale Multidisciplinare, Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, Teatro Ebasko
con il contributo di Comune di Modena, Cassa di Risparmio di Modena
con il patrocinio di Comune di Polinago
foto di scena Chiara Ferrin

Tecniche di evasione
esito laboratorio di Nicola Borghesi / Kepler 452
liberamente tratto da Lo straniero
di Albert Camus
regia Nicola Borghesi
con i detenuti della casa Circondariale di Castelfranco Emilia
lingua italiano
durata 1h 20’
Castelfranco Emilia (MO), Casa Circondariale, 2 maggio 2019
in scena 2 maggio 2019 (data unica)

Pragma – Studio sul mito di Demetra
regia Clemente Tafuri, David Beronio
con Domenico Carnovale, Luca Donatiello, Aurora Persico, Alessandro Romi
produzione Teatro Akropolis
durata 40’
Modena, La Torre, 2 maggio 2019
in scena 2 maggio 2019 (data unica)

Esito laboratorio con gli attori del Carcere di Modena
a cura di Teatro Ebasko
regia Simone Bevilacqua
con i detenuti del Carcere Sant’Anna
lingua italiano
durata 10’
Modena, Carcere Sant’Anna, 3 maggio 2019
in scena 3 maggio 2019 (data unica)

Divine
liberamente ispirato a Nostra signora dei fiori
di Jean Genet
di e con Danio Manfredini
lingua italiano
durata 1h
Modena, Carcere Sant’Anna, 3 maggio 2019
in scena 3 maggio 2019 (data unica)

Ohhhh – Appunti per una nuova danza
di e con Simona Bertozzi
lingua italiano
durata
30’
Modena, La Torre, 3 maggio 2019
in scena 3 maggio 2019 (data unica)

Concerto fisico
ideazione Michel Lucenti
con Michela Lucenti, Gianluca Pezzino
assistente alla creazione Maurizio Camilli
drammaturgia del suono Tiziano Scali
disegno luci Stefano Mazzanti
produzione Balletto Civile
lingua italiano
durata 1h
Modena, Teatro dei Segni, 3 maggio 2019
in scena 3 maggio 2019 (data unica)

Elementare
performance vocale della durata di una notte
un progetto e un’idea di Collettivo Amigdala (Meike Clarelli, Sara Garagnani, Federica Rocchi, Gabriele Dalla Barba, Silvia Tagliazucchi)
musiche originali Meike Clarelli
drammaturgia sonora Davide Fasulo, Meike Clarelli
conduzione coro Davide Fasulo
con le voci di Meike Clarelli, Elisabetta Dallargine, Vincenzo Destradis, Davide Fasulo, Fulvia Gasparini, Antonio Tavoni
durata 6h
Modena, La Torre, 4 maggio 2019
in scena 4 maggio 2019 (data unica)

Un.habitans – Per fare spazio a noi
ideazione Caterina Moroni
voci Aïcha El Beloui, Iris Keller, Caterina Moroni, Alessandra Serra Bernardt, Sophie Ulive Unwin
suoni Claudio Raggi
produzione Caterina Moroni, Mare culturale urbano,associazione Culturale Sarabanda
lingua italiano
durata 1h
Modena, Cimitero San Cataldo, 4 maggio 2019
in scena dal 3 al 5 maggio 201

In mezzo mar siede un paese mezzo guasto
Esito laboratorio con gli ospiti della Casa Protetta
a cura di TeatrInGestAzione
Modena, Casa Protetta San Giovanni Bosco, 4 maggio 2019
in scena 4 maggio 2019 (data unica)

Sassolini
Esito laboratorio con il Gruppo l’Albatro
a cura di Quotidiana.com
Modena, Teatro dei Segni, 4 maggio 2019
in scena 4 maggio 2019 (data unica)

Moby Dick
Ideazione e regia Stefano Tè
adattamento drammaturgico Giulio Sonno
con Oksana Casolari, Marco Cupellari, Daniele De Blasis, Alfonso Domínguez Escribano, Federico Faggioni, Talita Ferri, Alessio Boni, Francesca Figini, Davide Filippi, Hannes Langanky, Alberto Martinez, Amalia Ruocco, Antonio Santangelo, Giovanni Maia, Mersia Valente, Elisa Vignolo
consulenza alla regia Mario Barzaghi
assistenza alla regia Simone Bevilacqua
direzione musicale Luca Cacciatore, Igino L. Caselgrandi, Domenico Pizzulo
costumi a cura di Teatro dei Venti, Luca Degl’Antoni e Beatrice Pizzardo
disegno luci Alessandro Pasqualini
audio Nicola Berselli
scenotecnica e realizzazione macchine di scena Dino Serra, Massimo Zanelli
scenografie Dino Serra
in collaborazione con Teatro dei Venti
produzione Teatro dei Venti
in co-produzione con Klaipeda Sea Festival (Lituania)
con il sostegno di Regione Emilia Romagna, Comune di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
con il contributo di Comune di Dolo (VE)
in collaborazione con Associazione Echidna
lingua italiano
durata 1h
Modena, Estatoff, 5 maggio 2019
in scena 5 maggio 2019 (data unica)

Function Follows Performer
di e con Sara De Santis, Emanuel Andel
durata 20’
Modena, Teatro dei Segni, 5 maggio 2019
in scena 5 maggio 2019 (data unica)

Esito Progetto Cantieri
con Avatāra, Cremaschi/Francabandera/Zanoli, Sara De Santis/Emanuel Andel
Modena, Teatro Cajka, 5 maggio 2019
in scena 6 maggio 2019 (data unica)

Incontro Cantato – Open Program of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards con il Collettivo Hospites
con
Mario Biagini
Modena, Teatro dei Segni, 6 maggio 2019
in scena 6 maggio 2019 (data unica)

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