“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 07 July 2019 00:00

Per lei, figlia di pirati

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Racconto liberamente ispirato alla canzone Rimini (1978) di Fabrizio De André 

Quell’Adriatico azzurro e quella sabbia bianca e accecante preferivo guardarmeli in solitudine, su strisce di terre che si allontanavano dalle spiagge affollate di una specie di nuovo carnevale estivo, in mezzo alle dune orientali e ai canali creati dalla risacca, battuti dal vento, mentre il vento incessante raccontava che proprio quei luoghi che amavo erano fatti apposta per gli addii, ma solo per gli addii silenziosi, in cui le carezze del vento si dipanano in sorrisi lontani, in strade perdute, in vite non vissute e occasioni mancate. Amavo le occasioni mancate e amavo anche il vento che mi portava l’assenza. Del resto io ero straniero in quel luogo, figlio di un’altra epoca e di un altro universo, non sapevo fare altro che scrivere piccole parole dedicate a quel mare e a quel vento.

Di Teresa, la figlia del droghiere, me ne avevano parlato ma io non potevo coinvolgermi in emozioni e rintocchi di vita, ero uno spettro riarso giunto dal mare, da altri mari, forse, più caldi, meno azzurri e più scuri e il mio sguardo conosceva meglio lo scoglio piuttosto che la sabbia tenue. Sapevo quello che le era successo. Ero arrivato da poco in quel paesino di mare, e avevo preso alloggio in un vecchio albergo, come ce ne erano tanti sulla riviera romagnola negli anni Settanta. Quelle pareti bianche e quegli interni spogli, quei bagni ancora di fattura ottocentesca, con la piccola vasca per lavarsi le mani, quelle persiane verdissime dalle quali, socchiuse, filtrava una luce arcaica che aveva l’odore del mare. Ricordo poco di quel finire anni Settanta, di quelle serate estive, dei bar coi juke box, dei flipper, di quelle flebili luci che si rincorrevano infinite nelle serate e nelle notti sui lungomare, mentre il salmastro ti si appiccicava alla camicia e al corpo come una di quelle tante voci e quelle tante musiche che sembravano provenire da lontano, fra quei parcheggi pieni di automobili dai colori pastello e di piccoli motorini.
Teresa, per l’appunto, lavorava nell’albergo dove avevo preso alloggio. Faceva la cameriera e spesso se ne stava lì, seduta dietro la scrivania nell’ingresso, ad accogliere i clienti. Teresa parlava poco ma di lei mi colpivano soprattutto gli occhi verdi e i suoi capelli castani, imbionditi dal sole. Portava una lametta al collo, vecchia di cent’anni, e una volta le chiesi che cosa fosse, che significato avesse per lei. Mi disse che era appartenuta a un suo lontano parente, lontano nel tempo, che si diceva addirittura fosse un pirata, uno che derubava i ricchi per donare ai poveri. Lei andava fiera di questa possibile parentela e sorrideva ricordando, nel suo accento romagnolo, le fantastiche gesta di quei lontani pirati.
Non so quanto sono riuscito a capire di Teresa ma io ero soltanto uno spettro inaridito giunto da altre epoche. Passeggiare in quel vento e fra quelle luci, in quell’odore di salmastro, fra quelle voci del finire degli anni Settanta mi procurava infinite emozioni che non riuscivo ad abbracciare pienamente. Lei mi parlava di un amore perso in un’estate di anni prima e di un dolore che le era rimasto in bocca fra i denti ma che era riuscito a masticare, con rabbia e determinatezza, quasi come una piratessa degna erede di quei lontani corsari. Era una vita dura, la sua, perduta in un universo maschile e maschilista, pronto a sedurla e a scommettere su di lei, su chi se la sarebbe portata a letto. Ma il suo amore andava al di là di quell’universo fatto di sguardi di uomini sbracati sulle sdraio davanti alle cabine, di vecchi che non vedevano l’ora di potersi approfittare di lei. In quell’universo maschile, l’unico che le era piaciuto era il bagnino, un ragazzone della sua età, con il quale aveva avuto una storia. Una storia poi finita male – mi raccontava – perché era stata lasciata e costretta a un aborto clandestino, pochi anni prima della legge del 1978 che non considerava più l’aborto come un reato. Il suo era un mondo lontano dalle lotte di quegli anni, dai cortei e dalle manifestazioni delle femministe, degli indiani metropolitani. In quella provincia sulla costa romagnola le sensazioni e le attese erano crudeli e negli eterni inverni solcati da nordici tramonti le solitudini esacerbate non facevano altro che attendere l’esplosione delle estati selvagge e crudeli. E forse, col mio sguardo di spettro, riuscivo a leggere ancora una profonda sofferenza in quei suoi occhi verdi.
Quell’amore perduto era Pilar del mare. Lei era arrivata con gli zingari, coi loro baracconi e con le loro lunghe automobili dagli occhi di squalo e con le loro roulotte. Erano arrivati ed erano una perenne magia: un prato poco lontano dal mare era stato trasformato in un incanto inventato da un buffo mago che si divertiva ad accarezzare i sogni. E, vicino al grande tendone del circo, gli artisti avevano montato le loro roulotte e i loro baracconi, silenziosi come la luna piena, urlanti come il raggio infuocato del sole. La sera si accendevano tante lucine ed era sempre una festa. Negli occhi degli anziani si intravedevano nostalgie feroci, malinconie mai sopite ma anche una voglia leggiadra di vita che era raro vedere nelle altre persone. Erano leggeri come l’aria e silenziosi come il vento, ma anche forti e rumorosi come un uragano.
Il circo fu per Teresa un’esperienza straordinaria. I clown erano miracolosi pupazzi di neve che parlavano di storie lontane e di paesi di un’Europa orientale dove la malinconia e la festa erano così strette che non si riuscivano più a distinguere. Pilar cantava quelle note struggenti, col suo viso di gitana e i suoi capelli neri, così neri che si confondevano con la notte. Era bellissima nel suo vestito lungo e colorato, e i capelli nerissimi. E Teresa se ne innamorò: spesso passavano le serate e le notti insieme nell’accampamento del circo, circonfuse di baci e di silenziose carezze. Anche Pilar si innamorò di Teresa e vissero quel loro amore nel tempo di un’estate. Danzavano e sognavano come in un paese incantato fra le roulotte e il grande tendone, dispensatore di magia; fuori c’erano le spiagge, le balere estive, i juke box, le discoteche fra i palazzoni. E tutto sembrava infinito. Ma poi Pilar se ne andò, con due gocce di eroina nel cuore, due gocce di troppo che la fecero volare via in una notte di fine estate, solcata da un vento incessante. Per Teresa iniziò un dolore infinito e lunghi incubi in cui si immaginava terre straziate, persone schiavizzate e rinchiuse in prigioni e in campi di concentramento: uomini e donne dai volti dipinti e dall’arcaica, selvaggia sapienza costretti a migrare, partire, subire violenze e discriminazioni. E la loro forza e la loro dignità, incorruttibili da ogni violenza.
Questo seppi di Teresa e lo seppi da lei e il suo dolore ancora mi sembrava infinito nonostante il sorriso e quei fulminanti sguardi verdi. Io che avrei potuto fare per alleviarlo, io che sapevo solo scrivere parole, forse potevo accarezzarla con i miei versi spettrali, profondi come un silenzio improvviso. Erano già passati diversi anni dall’incontro con Pilar e lei continuava la sua vita fra l’albergo, le cabine, le sdraio e gli ombrelloni, fumando le sue “Futura” e aiutando i genitori nella loro bottega. Guardava verso il mare e forse rivedeva Pilar, il suo amore e la sua notte, la sua disperazione, il suo corpo che era diventato parte del suo. È uno strazio avere un amore perso come quello di Teresa e io le lasciai dei versi come delle carezze, forse per alleviare un po’ il suo dolore. Dei versi che, come lei, sapevano di mare, dei versi per lei, figlia di pirati.
Ora che tanti anni sono passati da quei momenti e da quegli anni Settanta, tutto mi sembra come avvolto da una nebbia. Ora, forse, quegli incubi che Teresa mi raccontò sono diventati reali, parte di una realtà in cui serpeggia l’odio per chi è diverso, per chi arriva da lontano e porta una arcaica sapienza che non viene compresa.
Forse solo una vera carezza, un vero abbraccio avrebbero potuto estirpare la malinconia di Teresa, gettarla via in mare come un inutile pezzo di legno. Ma forse, ugualmente, ne sono convinto, con parole di mare seppi trasformare in sorriso la sua malinconia e il suo tormento.

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