“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 23 June 2019 00:00

Un raffinato disordine

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Il primo ricordo nitido della mia vita coincide con quello che mio padre definì “un mezzo disastro annunciato”. Vennero a prendermi alla scuola elementare in mattinata. Poche ma misurate parole, come era sua abitudine.
− Ci hanno derubato − mi disse mio padre facendomi salire in auto.
Non capivo cosa volesse dire, e gli chiesi più con gli occhi che con la bocca di essere più chiaro. Parlò lui, mia madre zitta.

− Il nostro negozio, Luca. Ci sono stati i ladri mentre noi eravamo nella nostra casa di montagna per il fine settimana festivo. Hanno portato via tutto ciò che aveva un valore: computer, tablet, televisori, smart-phone, e tanto altro. Potremmo essere rovinati, se non avessimo una buona polizza di assicurazione.
Gli chiesi cosa volesse dire assicurazione. Me lo spiegò guardando di sguincio mia madre.

A quei tempi i rapporti tra i miei genitori erano piuttosto ambigui, questioni caratteriali, interessi culturali contrastanti, ma soprattutto una certa tendenza alla gelosia da parte di mio padre. Lei di dieci anni più giovane, con presunti ammiratori tra le conoscenze maschili della nostra famiglia.
E fu appunto uno di loro, l’assicuratore, a causare la rottura trai miei. Era successo che frequentando casa nostra per concordare la copertura del negozio il giovane funzionario della compagnia strinse un rapporto con mia madre che andava al di là della cordialità, così almeno la pensava mio padre. Sta di fatto che una volta indennizzati dei danni subiti, mio padre non riuscendo a chiarire in modo soddisfacente cosa stava effettivamente succedendo, concluse che il rapporto coniugale si era ormai deteriorato.
Divorziarono. Fu assunta una colf che ebbe cura di me tenendo altresì in ordine la casa.

Terminate le medie superiori, dovevo decidere quale facoltà universitaria scegliere. Frattanto si faceva strada nei miei pensieri un confuso senso di disordine, ma non del tutto sgradevole.
In casa si alternavano giovani donne che non nascondevano la natura del legame con mio padre. Lei, mia madre, si faceva viva di tanto in tanto con telefonate inconcludenti.
Da parte mia avevo conosciuto Lorena, che presto finì per trascorre molte notti nel mio letto.
Sì, fu la filosofia che prese il sopravvento nei miei pensieri, e mi iscrissi all’Università di Milano in Via Festa del Perdono. Lorena scelse Medicina presso il mio stesso Istituto. Ma forte era il suo interesse anche per la letteratura, e si interessava con passione degli intrecci delle varie vicende di vita che catturavano la mia attenzione. Ma da parte mia ancora non mi riusciva di disegnare un percorso esistenziale − multiforme, naturalmente − tale da farmi intravedere quello che mi veniva di definire “il senso”. Della vita, s’intende.
Con Lorena progettavamo un futuro stimolante, dove nulla sarebbe stato dato per scontato, bensì tutto fosse da scoprire e da costruire.
Avvenne all’improvviso, nessuno dei due se l’aspettava. Quel giorno Lorena, dal momento che studiava Medicina decise di sottoporsi a una visita presso l’Istituto Europeo Oncologico fondato da Umberto Veronesi.
− Forse dovrò farmi operare al seno − mi disse qualche giorno dopo.
− E perché? − chiesi con singolare leggerezza, di cui poi mi sentii vagamente imbarazzato.
− Sembrerebbe una cosa da poco. Lo sapremo tra qualche mese quando mi faranno una visita di controllo.
C’era tra noi due, e c’è tuttora, un modo di stare al mondo insieme con le caratteristiche di una sorta di recita. Di quei giochi che non lasciano spazio a conclusioni irrimediabilmente problematiche.
Ne parlai a mio padre, e gli dissi che intendevo sposarmi. Non ebbe alcuna esitazione e mi acquistò un prestigioso appartamento nei pressi del centro della città.
Pochi mesi e io e Lorena ci sposammo. Per il viaggio di nozze scegliemmo Bali, dove non fummo per nulla preoccupati per il futuro. Il grado della nostra capacità di affidarci al tempo con ottimismo e speranza.

L’intervento fu semplice, e le parole del chirurgo rassicuranti.
Simone e Davide furono i nomi che scegliemmo per i due gemelli che nacquero successivamente dando al nostro quadro famigliare  l’umana completezza che tanto avevamo desiderato.
Eravamo dunque alla vigilia della nostra avventura − così la chiamavamo − e Lorena iniziò la sua attività di medico, ma volle anche affiancarsi a me nella stesura di un saggio su Il ramo spezzato, il libro che Karen Green ha scritto in memoria di suo marito David Foster Wallace tragicamente toltosi la vita. La scrittrice presenta la complessa natura del dolore mettendo in luce i risvolti di intima bellezza.
L’eccitazione per l’inizio della nostra attività lavorativa si risolse in uno straordinario stimolo, dove Lorena, quando libera dai suoi impegni di medico, s’immerse intensamente nel mondo letterario statunitense, mentre io ebbi la sorpresa di sentire crescere in me stesso il bisogno vitale di individuare nei molteplici particolari il rapporto tra l’esistenza umana e le meraviglie del cosmo. Dolore e felicità, piangere e ridere allo stesso tempo divenne la mia ossessione nella ricerca del rapporto di quanto si riflette nell’universo sul percorso di vita dell’umanità.
Particelle elementari con il loro moto per farsi spazio, nuvole che influenzano la vita degli umani, la relatività del concetto di tempo − ammesso che esista − il rapporto tra pianeti e la reciproca attrazione, così come altri aspetti tutti da indagare, mi stavano portando alla conclusione che la nostra vita non la decidiamo noi ma l’immenso, imperscrutabile universo del quale siamo parte integrante.
Ne parlai a Lorena che si trovò d’accordo sulla mia ricerca, considerando anche eventi e timori che si erano verificati tra dolore e gioia nella nostra famiglia e ancora, presumibilmente, lungi da essere pervenuti alla conclusione. Volavamo alto. Ma perché non provarci? Lo scopo era di guardare al nostro futuro con lucidità.

I gemelli crescevano, felicità. Mio padre si risollevò dal torpore sentimentale legandosi a una compagna, Lorena seguiva con estrema serenità le sue periodiche visite di controllo. Sforavamo l’ottimismo tenendoci lontani da timori che ci apparivano − o volevamo farli apparire? − privi di senso.
Quanto a me, la carica creativa e meditativa mi teneva a un altissimo livello di impegno, stavo lottando con me stesso per decidere il modo di svolgere la mia ricerca. Scrivere racconti brevi ma circolari, darmi al romanzo filosofico, saggistica allo stato puro, forse. O meglio, un intreccio complessivo perché tra noi umani e il cosmo non può esserci separazione.
Poi in coerenza con quanto avevo riflettuto pervenni alla conclusione che siccome siamo verosimilmente, ormai ne ero convinto, “residui di stelle”, altro non mi rimaneva che mettermi nella posizione di chi si sente in balia di uno stato di cose al disopra di sé, e che ne indirizzano la strada.

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