“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 10 May 2019 00:00

Labile è il genere più di ogni altra cosa

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Il palco è scarno. Apparentemente. Su una tavola di ponte appaiono gli strumenti di un (una?) grafico. Un (una?) dj. Un (una?) videoperformer. Un pc. Un mixer. Delle lampade. Per terra qualcosa di confuso. In alto, spicca, come un sole nero egiziano, un telo rotondo.
MDLSX è un'esperienza per chi vi assiste e la testimonianza di un’esperienza per chi la mette in scena. Un’esperienza artistica originale che narra un’esperienza meno unica di quanto ci si possa figurare. Estrema ma dal contenuto elasticamente permeante a copertura di noi tutt*.

Il sole nero si anima e rimanda a immagini secolari e pre(i)storiche da archeologia televisiva: una bimba che canta una vecchia canzone di Gianni Morandi, a mo’ di Karaoke che incontra lo Zecchino d'Oro. Fa sorridere l'ingenuità della bambina e l'ingenuità delle trasmissioni dei palinsesti d'antan, da reti private regionali.
L'immagine s’interrompe, la musica si ferma.
Qualcosa s’inceppa.
Abbiamo appena assegnato un genere a qualcuno.
Dalla nostra posizione privilegiata (esterno) abbiamo esercitato un potere che non sapevamo di avere.
Che non siamo educati a usare.
C'è stato un sopruso di cui non eravamo consapevoli.
Ma questo non ci assolve.
MDLSX ci coinvolge tutt* proprio per questo. Questo spettacolo parla anche, anzi no, soprattutto di questo. Quella bambina è cresciuta. Ci dà le spalle. Mette musica, aziona luci, canta, gestisce le proiezioni. E parla. E parlando di sé e di un’altra sé parla a noi di noi. Perché il poiltico è personale e il personale è politico. Non in tutti i casi, ma in questo sì. Questa persona ha una storia (sua, non sua, e quindi nostra) da raccontare. E per farlo si mette in gioco. Di spalle. Spalle spoglie. Ossute. Scapole che sporgono come grucce. La colonna vertebrale che dipinge un arco, teso, come una pulsantiera, trafiggendo la pelle, sempre piegata sulla scrivania, mentre incocca le frecce che pesca dalla sua tracklist come una faretra, e che ci scaglia contro. La prima immagine che abbiamo di lei, e non del suo corpo gettato nella lotta, in quella mischia di un palco in cui è sola nel brulicamme di assenze e di scomparse, di persone cui dà voce e vita tirandole giù dall’etere della sua memoria o di quella del suo personaggio (che poi è la stessa cosa: mimes totalizzante), che l’hanno intercettata e incrociata, è il viso. Il suo viso in primo piano, proiettato sopra l’immagine del suo io bambino. La donna di oggi si sovraimprime sul bambino interiore. La musica investe a tambur battente, dettando il ritmo martellante della sua confessione. E così rievoca un passato proprio e non suo. Una storia non solo sua, di qualcun altro, ma che avremmo potuto essere tutti. E quindi di tutti. Le storie non sono di chi le vive, ma di chi gli serve: cioé tutti.
Troppo da dire su Silvia Calderoni: trentotto anni, aureolata da una gragnuola di premi teatrali, non aliena a incursioni cinematografiche (La leggenda di Kaspar Hauser, Amori che non sanno stare al mondo, Riccardo va all'inferno, Una storia senza nome) o in videoclip (Marlene Kuntz, Motta). Una vita al centro della scena del teatro indipendente (il Valle), ora musa dei Motus. Per mettere in scena al meglio la vita non sua di Calliope, dona alla regia di Enrico Casagrande e alla drammatizzazione di Daniela Nicolò, pezzi di vita propria. Sfilano come diapositive, frammenti di vecchi filmini amatoriali. Ricordi sottratti alla caducità, eternizzati per sempre. MDLSX pesca, ripesca e manteca ingredienti separati in un amalgama magmatico inestricabile: alla materia bruta della fiction di Middlesex, romanzo di Jeffrey Eugenides, vincitore del Pulitzer nel 2003, innesta non fiction e autofiction, che non per questo rende meno vera la sostanza che quest’opera intende narrare.
In quest’operazione a cuore aperto con la quale viola la sua intimacy, Silvia Calderoni, si scortica da sé, strato dopo strato. Anzi, no, petalo dopo petalo. L’universo ecpirotico interiore di questa performer, nato dal Big Splat di due protouniversi, viene scuoiato davanti a noi (San Bartolomeo era il martire della sincerità), brana dopo brana, in una visione binaria (spalle e viso) di un multiuniverso non binario, fatto di estremi non contrapposti ma fluidi (come la verità), contaminanti, convergenti non divergenti in un oceano frullato che non conosce atolli ma arcipelaghi: maschio femmina, etero omo, apollineo e dionisiaco, bianco e nero, nord sud (patriarcato e matriarcato? Capitale e proletario? No, questo no. Forse mai no. E why not? Se non ora quando? Chissà). Visione binaria perché se ci dà le spalle, contemporaneamente si autopunta la telecamera in viso, proiettandone la visione sul telo, in un primissimo piano mediale a distanza non ravvicinata, come un livestreaming preso in diretta dal vivo. Il selfie mobile sparato della faccia ci viene marchiato a fuoco, come uno schiaffo dolce, mentre a tutto campo campeggia lei, sempre lei, indispensabilmente lei.
La prima cosa da dire è che ci mancano le parole per dirlo (e meno male). Difettiamo d’una lingua neutra. Al di là se sia condivisibile o meno, la lingua stessa è un corpo vivo. Pulsa, come una ferita, ringraziando il cielo. La lingua saprà farsi strada. A differenza dei dinosauri è superadattiva, lei, molto più e meglio di noi. Lei (la lingua di lei, si scusi la sineddoche) che ci parla di quand’era lei (sarà reale? Non lo sarà? A chi interessa? Come diceva Holan: “Cibati di vita fin quando è vera/anche se non vuol dire che sia reale”), della sua pubertà, della mancanza di quei riti strutturali che sono l’intelaiatura del passaggio all’adolescenza, della ghettizzazione procurata dal mancato aggancio con quel treno merci. Discorso che si ibrida al corpo d’ora, in continuo mutamento, messo in crisi dalla mezza età, amato o bistrattato comunque si voglia non immune agli sciabordii del tempo inclemente (e forse questa punta narcisistica poteva essere stemperata e non inclusa, giacché devia il frammentato discorso amoroso di sé). L’autoconfessione non richiesta si fa panoptica estesione di sé, dono al pubblico. E noi spilucchiamo gli aneliti d’un adolescente – che siamo stati tutt* – dal buco della serratura di un diario segreto desecretato, deflorando un piccolo edenico mondo antico nel cui sottobosco già striscia lo straniero misterioso col suo in Arcadia ego. E così la Detroit degli anni ’60 si fonde con la Lugo di Romagna degli anni ’80, tratteggiando un impervio ritratto di famiglia borghese del Norditalia con tempesta ormonale mancata. Ai perturbamenti adolescenziali, verso i quali a nessuno è possibile non empatizzare (ci siamo sentiti tutt* dei mostri, dal latino neutro monstrum: “cosa meravigliosa”), si frammischiano degli altri. Fra un getto di spuma nei capelli, fra mutamenti di abito, fra spoliazioni e denudamenti, attraversato da laser verdi come in film sci-fi, squassato da fasci di luce bluastra elettrica, investito dal taser di una colonna sonora che lo galvanizza, quel corpo sta sempre là, sempre al centro, unico compagno fedele, primo traditore, si presta nudo allo sguardo, mentre si esplora, si copre e scopre, ricopre, argine contro cui si infrangono i marosi. La crisalide sprimacciata che non si espunta, la devianza all’iter naturale, si eleva e trascende, mutandosi in pietra d’angolo per un discorso evoluzionistico d’un genere non più incesellato, incontenibile, che sfida e scalpita, respingendo ogni categorizzazione, come il kantiano ornitorinco sbaragliava ibrido la tassonomia aristotelica d’echiana memoria. Quel corpo politico oltraggiato (e il modo ancor m’offende) e titillato, si dà a sfidare la semantica, si presta a pretesto per farsi cuneo per rompere gli argini. Lo fa provocando, e forse è in questo che è insita la debolezza congenita. Non c’è da provocare, infatti, non c’è da esaltare, perché controproduce alla tesi di fondo, personalizza l’oggettività di una multisfaccettatura con la quale il mondo deve confrontarsi, e crescere, e maturare, e aggionarsi. Non serve provocare per scandalizzare. Lo scandalo è già di per sé presente in nuce alla storia. Bistrattata, la donna rinasce, si scopre uomo, eunuco, psuedoermafrodito. Il fiore che non doveva, non lo sa, e sboccia ugualmente, e dal seme di lòglio spunta una rosa purpurea dai petali carnosi. La devianza si normalizza. La natura trova sempre un modo. Non esiste denaturalizzazione se non l’apparente oggettività della razionalità borghese. La deposizione in corpo eretto dell’andorigno cristo schiodato, bestemmia in corpore vivi di Silvia Calderoni, ombroso, emaciato come avesse attraversato Mauthuasen, San Sebastiano (lei che vi è già passata) trafitto dagli strali d’una scienza ancora arretrata, rievoca il Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti, seriale spellatore alla ricerca di una nuova pelle altrui con cui comunicarsi a copertura d’un corpo improprio di cui riappropriarsi. Li diretani a le cosce distese / e miseli la coda tra ’mbedue/e dietro per le ren sù la ritese. La efflorescenza indesiderata si fa metaforico simbolo del desiderio che erompe in un deserto impietrito che non può contenerlo, proiettata in trasfigurati frame depixellati. Poi s’appiccar, come di calda cera / fossero stati, e mischiar lor colore, / né l’un né l’altro già parea quel ch’era.
La mutazione si fa metamorfosi palingenetica, l’alterità cerca la sua accettazione. “Omè, Agnel, come ti muti! / Vedi che già non se’ né due né uno”. Come in un Gunther Grass lisergico e postsessuale, un lucertoloide J.T. Leroy che si mescida con l’ipertrofico pollice dell'autostoppista galattica intersessuale Eva Thurman, parte l’iniziazione. Fersi le braccia due di quattro liste; / le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso / divenner membra che non fuor mai viste.
Rasato come una scimmia di Fight Club, un’angelface scippata dal Ryan Gosling del The Believer, questo cowboy da marciapiede comincia il viaggio verso l’altro, che è se stesso. Ché due nature mai a fronte a fronte / non trasmutò sì ch’amendue le forme / a cambiar lor matera fosser pronte. Si dispoglia della vita precedente, gettati alle spalle numi tutelari parentali inadeguati, come i costumi, il taglio di capelli e il passo cadenzato, si cambia di binario, il femmineo volge al mascolino, e comincia il viaggio junghiano. Come l'Aghora ermafrodito dello psicomago Jodorowski, la mise-en-scène dell’unione gemellare sublima entrambi i poli in un abbraccio alchemico fra yin e yang, è un rito catartico che attraverso la ripetizione esorcizza il conflitto passato per attraversarlo in ogni spettacolo, come un inverno, per poterci proiettare in un raggiante futuro polisemico. Tante le suggestioni di questa catabasi, che dal gotico vira all’hard boiled, in un road movie che è perdizione per ritrovamento, senza passare mai per il pit stop del romance. Attraverso scontri e incontri, questa moderna peripatetica, più menade che Ipazia, fa il periplo della bolgia, gettando a spallate le porte della nostra percezione, defenestrandoci, da un chakra dopo l’altro. Efebica Partenope dalla coda in polietilene tereftalato, fa dà voce (off e inside insieme) narrante alle immagini del sé passato che si susseguono sullo schermo. Immagini che ci trafiggono a loro volta. Silvia Calderoni, bifronte e polifonica, presta il viso della se stessa angelica (anzi, di un giovane generico. Uomo? Donna? Che importa?) che cerca la sua dimensione in un mondo che l* respinge. Impossibile non compenetrarsi. Non rimanere indifferenti a tanta disperante vulnerabilità di chi sfida l'intero mondo per cercare di esprimersi. Divampa, esile creatura gettata nella calca, che scolpisce un corpo nuovo alla ricerca disperata di una propria identità, al di là di ogni rassegnata assegnazione. Danzano insieme, la Silvia giovane e la Silvia nuova, si emulano e ricalcano, si rimandano, cortocircuitando a loop. Danzano sempre. Mai domi. Mai immoti. E infatti, Motus. Un motus perpetuo, mai pago. In continua rinascita, questa Proserpina sopravvive al ratto del generale inverno del suo scontento, e torna, dopo aver travalicato i limiti, dopo essersi bagnata in uno stagno antico di droghe sintetiche e moly, generi versipelli, fino a cadere di nuovo nelle briglie del sistema, ma stavolta non più impotente ma a mano armata della consapevolezza di sé. Al di là dei contratti e delle dichiarazioni d’intenti, alle didascaliche rivendicazioni accademiche di cui si lascia affascinare e nelle quali si cerca una conferma ideologica di cui non si avverte alcun bisogno: eunuchi, femminelli, transgender, baccanti e pederasti, ci sono sempre stati. Nomi nuovi per fenomeni sempre presenti, sfide sempre rinnovate dell’eterogenia della natura umana che sfida l’ordinata e ipocrita civiltà borghese. Memento vivi a ricordarci che non v’è fissità che tenga, impallidiscono i parametri, non reggono i paletti davanti all’insaziabile fame di vita del reciproco appagarsi. Al di là della morale, il piacere trova un modo e, se c'è consenso, il resto non rileva: come ci insegnano creature più evolute di noi (i bonobo). Le vie del desiderio sono infinite e assurde, come ci insegnano in tanti (proprio Galleria Toledo ha ospitato, due anni fa, un’altra incredibile storia, quella di Bernard Boursicot, 1983 Butterfly, della Piccola Compagnia della Magnolia).
L’eroina chiude il suo viaggio iniziativo in un cerchio come il sole cui s’è rispecchiata, l’occhio da cui il suo alter ego giovanile ne ricambiava lo sguardo. Il ritorno a Itaca segna il compimento, dopo esser passata per Lestrigoni e lenoni, circhi di freak e ciclopi, barbari della Colchide e camionisti pederasti, la nostra Odisseo/Calliope/Silvia chi trova ad accoglierla? Non Penelope, non la madre, non Telemaco, non Argo. Trova lui. È lui che cerca. Cicatrizza la ferita sempre sanguinolenta del cordone ombelicale mozzato. Perdona il peccato originale: l’indebitamento irrichiesto d’una vita data in dono. Dopo aver trasgredito la Legge del padre, ai suoi valori innocentemente obsoleti, ricerca la sua accoglienza.
“Non potevi rimanere quello che eri?”.
Le parole di tutti i padri quando il figlio intraprende la sua strada lastricata delle peggiori intenzioni. Un sentire che non coincide mai (non deve!) con quello che il padre aveva sperato per lui. Per il suo bene. Ma il figlio deve arrivarci a questa conoscenza e rimandargli l’immagine di sé, restituirgli la sua proiezione, per liberare il padre del suo ruolo, e restituirlo alla sua essenza, d’un essere umano parigrado. Gli restituisce il suo nome, e così si appropriano entrambi d’una propria identità, rifiutando quella liquida del sistema produttivo che ci vuole ridotti a disimpegnati edonisti entusiasti naufraghi del precariato esistenziale. Bando alle paranoie identitaristiche: definirsi non è fossilizzarsi ma riempire la nostra entropia di contenuti condivisi con l’altro che riconoscendoci ci restitusice l’imago che ci siamo conquistati a morsi e unghiate.
“Ma io sono sempre stato così”.
E finalmente, trova, laddove era partit*, qualcuno con cui (tornare a) danzare libero di essere chi vuole.
Ci restano le domande inevase. Domande che non possono rimanere senza risposta, ma non per compiutezza narrativa, ma perché se la storia narrata ha pretese onniesaurienti, allora non possono esserci vulnus o gap che tengano: se il personale è politico, non può esserlo in camere caritatis a tenuta stagna. Se gli argini devono cadere, cadano per tutt@ e per tuttu, nessun* esclusxyx. Quel corpo, alla fine, mostruoso non nella sua eccezionalità, ma nell’essere anomalo e, in quanto tale, rivivendo sempre la condizione eternamente adolescenziale della continua ricerca della propria dimensione stabile, è stato mai amato? Ha conosciuto affetti? Ha trovato un altro in grado di soddisfare le sue istanze, i suoi amorosi sensi? Quel corpo sempre presente, oggetto di desiderio oscuro, alieno, artefatto al centro d’un fatto d’arte, è riuscito a trovare una felice allocazione? Dopo averci gettato addosso secchiate d’empatia, l’autore postmoderno non ha diritti d’autore (leggi alla voce Godard) ma solo doveri: il dovere di non lasciare anditi inesplorati all’esposizione di sé. È questa la chiave: se il posmoderno ha donato la chiave di sé, questa chiave ha da essere passepartout per ogni stanza. Allo spettatore, quindi, non rimane che sperare che alla domanda da monstrum gotico (la richiesta di comprensione affettuosa), dopo la riuscita autoconoscenza, si sia trovata una risposta. Felice. Perché è per la felicità che si fanno le rivoluzioni e le evoluzioni. A nulla rileva quali siano le leggi gravitazionali, le motivazioni che dettano la danza e in che modi sia esercitata capacità attrattiva, l’importante è che siamo tutti astri e i nostri sono corpi celesti mossi, da sempre, dallo stesso primo motore. E questo travalica ogni categorizzazione, posizionamento, orbita naturale o devianza. È forse l’unica legge (banale proprio in quanto) universale, l’unico imperativo (sovra-)categorico, onnicomprensivo, polivalente, capace di sfidare ogni teoria relativista, contestualizzazione e avveniristica scoperta scientifica, e la vera stella polare che dovrebbe regolare ogni credo religioso, autorità, morale o manifesto politico.
Non ci sono altre parole da aggiungere, o che possano ricompensare un donarsi così intimo. Non ci sono parole che rendano giustizia. Davanti a tanta onestà intellettuale, ne basta solo una.
Grazie.



leggi anche:
Alessandro Toppi, L'io impossibile di Silvia Calderoni (Il Pickwick, 11 dicembre 2015)



MDLSX
drammaturgia Daniela Nicolò, Silvia Calderoni
regia Enrico Casagrande, Daniela Nicolò
con Silvia Calderoni
suoni Enrico Casagrande
in collaborazione con Paolo Panella, Damiano Bagli
luce e video Alessio Spirli, Simone Palma
produzione Elisa Bartolucci, Valentina Zangari
produzione Motus
in collaborazione con Le Villette − Résidence d'Artistes 2015 Paris, Mladi Levi Festival Ljubljana, Santarcangelo 2015 Festival, L'alboreto – Teatro dimora di Mondaino, Marche Teatro
con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna
lingua italiano
durata 1h 15’
Napoli, Galleria Toledo, 7 maggio 2019
in scena 7 maggio 2019 (data unica)

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