“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 04 April 2019 00:00

Questo facciamo noi attori, che vi credete?

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Cosa accade se?

Pirandello – vita che brucia, carne che freme, passione inesauribile che si dilania e si mortifica stando costantemente a un passo dal vizio, dal peccato, dalla vergogna – in meno di un secolo è stato mummificato, piazzato in un santino, messo in cornice insieme ai parenti trapassati: la sua carriera è riassunta nel capitolo che brevemente espone il Novecento nelle antologie scolastiche italiane; brandelli dei suoi testi campeggiano sulle copertine dei quaderni, adornano la sacca delle borse di tela dei festival teatrali o servono per commentare le nostre foto social e, in particolare, la delusione che proviamo – di volta in volta – nei confronti dell’ipocrisia del mondo, delle persone o del destino. E ancora: il suo corpo è stato ricomposto ed imbolsito nel bronzo di una statua, com’è successo a Svevo, Joyce, Pessoa; il suo cognome è stato coniugato in aggettivo, com’è accaduto a Pinter, Beckett, Kafka e Dostoevskij; una sua posa è stata fissata in quanto soprammobile o statuina del presepio, com’è avvenuto con Eduardo De Filippo a San Gregorio Armeno. Non è andata meglio alla sua opera più celebre – che dentro ha segreti inconfessabili, pulsioni oscure messe in luce, brandelli autobiografici che non hanno trovato ancora pace – ma che da tempo è diventata una voce immancabile a curriculum, la scusa per un esercizio di stile e per uno sfoggio scenografico, una consuetudine annoiata ed annoiante per i registi-direttori dei Teatri Nazionali ed è considerata – ora, aprile 2019 – una proposta rassicurante, una buona occasione per fare borderò, lo scritto adatto per aumentare a dismisura il numero di giornate lavorative (come chiede il Ministero) ed è quindi offerta promossa in offerta alle scolastiche, recita da abbonare agli abbonati, titolo utile per essere intitolati sui giornali.
Eppure Sei personaggi è il racconto devastante “di quello che ho sofferto”, del “mio lutto più segreto”, e ciò che vi dico “nessuna lingua umana potrebbe esprimerlo” afferma Pirandello (“è il cuore di tenebra della drammaturgia pirandelliana” conferma Alonge); eppure – limitandomi al solo dato scenico – in Sei personaggi “si pone tutto il problema del teatro ed è”, quest’opera, “come un gioco di specchi in cui l’immagine iniziale si assorbe e rimbalza ininterrottamente, cosicché ogni immagine riflessa è più reale della prima e il problema non cessa mai di porsi” dice Artaud. Eppure “è uno spasimo sgraziato quanto volete ma faticato, sofferto, rotto, singhiozzato ossia umano” scrive Silvio D’Amico; è un copione “grondante” e “chiaroscuro” per Niccodemi (“la lettura alla compagnia fu memorabile. L’ammirazione incominciò quando finì la comprensione e, la comprensione, finì subito”); eppure risulta un “manicomio” per il pubblico del Valle, tanto che l’autore si merita gli insulti, gli sputi, il tiro di monete e la gazzarra, il linciaggio fisico, la messa in fuga frettolosa. Eppure – aggiungo infine – nonostante Pirandello scriva Sei personaggi tra il ’20 ed il ’21 compone un’opera che in sé “ordisce l’improvvisazione” e che “si comporta a volte”, per dirla con Taviani, “come un canovaccio”: tiene spalancate le aperture, moltiplica le possibilità di controscene, scatena “situazioni innumerevoli” lasciandole alla mercé “dell’indipendenza attorica”.
Cosa accade – quindi – se prendiamo Sei personaggi e vi inseriamo, davvero, il qui e ora del teatro? Cosa accade se consideriamo il testo solo un testo (“parole scritte sopra un foglio” direbbe Peter Brook) e lo cominciamo a mettere in pratica quasi lettera per lettera, frase per frase, ponendoci nel contempo “noi vivi” (come dice il Padre) al cospetto del pubblico presente? Cosa accade se – quando Pirandello scrive che si recita “a soggetto” – noi proviamo a recitare “a soggetto”? Se, quando prevede l’esposizione dei punti di vista (inconciliabili) di Padre, Madre, del Figlio e della Figliastra, noi (ci e vi) esponiamo il punto di vista di Padre, Madre, del Figlio e della Figliastra? E cosa accade se ci sono attori che improvvisano davvero quando, giunti a pagina cinquanta, il Capocomico accetta il rischio e mormora “Quasi quasi… così, per giuoco… si potrebbe veramente”? Già, cosa accade se si tenta veramente di fare Sei personaggi trattandolo – più che come un punto di partenza (che, in parte, coincide con l’arrivo) – come un mezzo per provare un attraversamento?
Ecco, queste mi sembrano le domande che Michele Sinisi (regia, drammaturgia e adattamento) e Francesco Asselta (drammaturgia) si sono posti e queste sono le domande a cui cerca di dare una risposta l’intera compagnia di Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.

 


I primi dieci minuti
Il palco è semivuoto, così come dev’essere, e lo puntellano un misto di elementi che confermano, aggiornandole, le didascalie pirandelliane. Il sipario è alzato, dunque, mentre un disegno luci tenue evita il buio confermando contemporaneamente che siamo davanti a “uno spettacolo non pronto”, ovvero “al palcoscenico così com’è di giorno”: c’è perciò, “qui e là”, “l’attrezzatura” (fari, casse, un cubo con sopra un proiettore). Al posto del “cupolino del suggeritore” un paio di copioni giacciono per terra; uno zainetto sta appoggiato in verticale, sulla parete sinistra; ovunque ci sono “le sedie per gli attori” di cui una – l’unica messa a destra – ha “lo schienale rivolto verso il pubblico”. C’è inoltre un tavolo, come vuole l’autore, ma sopra al tavolo c’è un computer dal quale il tecnico/aiuto regista in scena Nicolò Valandro smanetta per trovare via web le immagini che, proiettate sul fondo, fungono – per tutta la sera – da contronarrazione iconica, da coniugazione segnica, da partitura per flash realizzata sul momento (la scritta “Xanax” quando la Figliastra strepita; una copertina di Cronaca Vera mentre vengono esposti i fatti di famiglia; l’Emilio di Rosseau quando si dice dell’educazione del Figlio; un video “Vintage Kids Play Immagine” della durata di quindici minuti nel momento in cui si parla d'infanzia, scuola, di mutandine sotto la gonna e il videoclip di Boys di Sabrina Salerno – la tentazione femminile –, i gorilla davanti a uno specchio, Antonio Di Pietro e Bettino Craxi, il ritratto di una Madonna, la scena finale della soap-opera Una vita; il corpo di una bambina annegata nel canale di Sicilia).
Suona intanto, in attesa dell’inizio, You & Me di Meute in forma di video: “You & Me” e quindi io e te, noi e voi, stasera, assieme, in questo teatro.
S’aggira nel frattempo Michele Sinisi (traversando il corridoio, salutando qualche amico o conoscente) poi raggiunge il palco, utilizza “le scalette” centrali “che collegano il palcoscenico con la sala” e comincia a discutere con chi c’è: “si scambieranno qualche parola” direbbe Pirandello. Si tratta di puro cazzeggio dialogico, in attesa che giungano anche gli altri: “usiamo la coppola”, ad esempio, e “ho perso lo zenzero”, “sono stanco”, “sei depresso”, “dopo la tournée devi andare a Parigi”, “tu mi devi scrivere un monologo che mi deve schiacciare; che il pubblico deve capire che non sto capendo niente”. Le luci, in platea, intanto stanno accese mentre in assito quello che per Pirandello è “il macchinista” (e che adesso è lo scenografo: Federico Biancalani) entra da destra, guadagna il centro poi se ne va sul fondo, nell’angolo posteriore sinistro, e si mette a lavorare: non inchioda col martello, come avviene nel ’21, ma gli tocca invece rifinire una grande scarpa (si tratta di una Converse All Stars, modello Chuck Tylor) che serve successivamente e della quale va completata la suola e a cui va aggiunta la doppia riga (una rossa e una nera) che ne decora il bordo. “Si vedrà” scrive Pirandello invece “il macchinista prendere da un angolo in fondo alcuni assi”, disporseli “davanti” e “mettersi in ginocchio” a lavorarli.
Poi.
Giungono “dalla porta” che collega il foyer con la platea “gli attori della compagnia”: “uomini e donne, prima uno, poi un altro, poi due insieme”. Qui Pirandello scrive che l’ingresso può avvenire “a piacere” ovvero secondo quelle che sono le esigenze, la voglia e le caratteristiche di chi sta mettendo in scena Sei personaggi. Così c’è chi trascina il trolley, chi ha una borsa sottobraccio, chi stringe un copione nella mano; c’è chi dice “Milano mi odia!”, chi afferma di aver trovato traffico, chi racconta di aver dovuto chiamare un taxi. “Entrano” e “si salutano augurandosi il buongiorno” e dunque: baci, abbracci, qualche pacca sulla spalla, un entra ed esci frettoloso come se si avviassero “ai loro camerini” per tornare subito in assito. “Sarà bene” consiglia ancora Pirandello “che questa prima scena a soggetto abbia, nella sua naturalezza, molta vivacità”. E infatti: reciproche battute, un “come direbbe Asselta…”, il riferimento alla Basilicata (il cui circuito teatrale paga in ritardo o non paga proprio), Michele Sinisi e Stefania Medri che inquadrano il pubblico componendo un obiettivo con le mani, Marco Cacciola che cita certi spettacoli passati (La masseria delle allodole, I promessi sposi, Miseria & Nobiltà) e – al posto del lamento “per la parte che gli è stata assegnata” – una lite tra Gianni D’Addario e Ciro Masella (“sono sei anni che mi rompi le palle!”; “impara a recitare!”): rimando alla pochezza attorale di cui si lagna Pirandello per tutta la sua vita, dimostrazione dell’umanità quotidiana e miserevole (e al tempo stesso irrinunciabile) su cui si fonda il teatro ma anche conseguenza (divertita) di una precisa indicazione autorale: qualcuno tra gli attori “leggerà forte ai compagni”, afferma infatti Pirandello, “qualche notizia in un giornaletto teatrale”. Cosa legge, richiamando l’attenzione generale e tenendo stretto nella destra uno smart, Ciro Masella? In prima è toccato non – come alcuni hanno scritto – a un articolo fake e dunque inventato apposta: si tratta invece di ampie parti della recensione de I promessi sposi firmata da Vincenzo Sardelli su KLP il 24 luglio del 2017. Non dubito del fatto che, nelle repliche successive, altre recensioni (magari di Sei personaggi) e i commenti social (in particolar modo quelli negativi) abbiano potuto trovare posto in questa prima parte di spettacolo.
Ebbene.
Questo modo di abitare l’opera, innervando le parole del passato coi dettagli teatro-attorali del presente, di per sé è un gioco al quale altri hanno già giocato: “l’attacco di Sei personaggi in cerca d’autore, per la sua stessa natura” scrive d’altronde Claudio Vicentini, “attira a ogni nuovo allestimento un’infinita varietà di aggiunte e di manipolazioni, suggerite volta per volta dall’ambiente in cui la rappresentazione concretamente si svolge, dalle abitudini degli interpreti, dalla vita reale della compagnia che sta recitando il testo”. Così – nel ’24, a Vienna – Rudolf Beer sostituisce Il giuoco delle parti (l’opera che devono provare gli attori di Sei personaggi) con un lavoro di George Kaiser intitolato Kolportage mentre Buch, allo Schauspielhaus di Francoforte, fa interpretare il ruolo del Capocomico a Richard Weichert ossia al vero direttore del teatro e – non contento – introduce sul palco i macchinisti e tutte le altre maestranze della sala. Quanto a Reinhardt non solo posiziona sul palco un pianoforte, fa ballare gli attori e allestisce una prova-luci (tutte aggiunte che Pirandello farà proprie nel ’25, riscrivendo il testo) ma anche lui cambia Il giuoco delle parti facendo recitare Il piacere dell’onestà; il motivo? Il piacere dell’onestà sarebbe andato in scena, a breve, in un altro teatro di Berlino. E d’altro canto: lo stesso Pirandello nel ’23 compone Ciascuno a suo modo inserendo nel testo le recensioni negative e le urla “manicomio!” ricevute dopo il debutto di Sei personaggi: avvenuto a Roma, due anni prima.
Dov’è quindi la novità? Cosa mi fa pensare che questo Sei personaggi d’autore di Luigi Pirandello sia qualcosa di diverso?  

 


Il terreno ignoto, questa condizione così fragile
“Procuratevi una limpida notte invernale. Guardate le stelle. Le stelle sono uno spettacolo. Invece quella terrigna e malcelata sensazione di non sapere cosa farsene è teatro” scrive Claudio Morganti in Serissimo metodo Morg’hantieff per attori, teatranti e spettatori ovvero la sua guida-parodia, assieme giocosa, amara e divertente, con la quale – attraverso una serie di esercizi – prova a strappare dalle grinfie dell’industria della messinscena commercializzata le “estreme ragioni dell’attore”. Morganti – di pagina in pagina – opera quindi la salvezza di una goccia, che di solito coincide con “un istante di vertigine”, una “sorta di smarrimento” e di scoperta. Spogliatosi delle “pesanti zavorre” (la sicurezza, il narcisismo, la tendenza all’esibizionismo e la presunzione, l’automatismo, “l’elefantiaca opinione di sé”) l’attore di Morganti ritrova se stesso dunque – e la propria funzione – nell’attimo in cui si accorge di un particolare, in un atto compiuto con una frazione di ritardo, nella “forma finita fuori dallo specchio” e quando fa parodia di sé, quando cade nell’affanno, quando il palco sotto ai piedi si fa incerto, quando scopre – proprio adesso che sta accadendo – cosa sta accadendo. Sono, questi, i solchi nei quali è possibile ammirare “le rughe del teatro”; sono, queste, le verità del pianto tratte dallo scorrere falsificato delle lacrime.
Sono, i racconti di Morganti, la forma-libro della sensazione provata un giorno da Erland Josephson che, spettatore de Il giardino dei ciliegi recitato dai vecchi esponenti del Teatro d’Arte di Mosca, si accorge che lo spettacolo è “grottesco”, che gli attori pur “conoscendo tutto dei personaggi non entrano più in contatto con loro” e che – per quanto siano ancora i devoti esecutori del Grande Metodo – sul palco ormai “eseguono riti di rinnovamento sorpassati”. Eppure: lo strascinio inevitabile dei passi, una mano poggiata sul bordo del mobile di legno, uno sguardo prolungato oltre misura, alcuni respiri, certe cadute della volontà, l’ingenuità nella resa di una battuta, questo gesto finto con cui l’attrice sta colmando un vuoto vero: così “viene fuori” – “improvvisamente” – “qualcosa di autentico e allora sono lacrime in platea” ricorda Josephson. Ma il suo racconto non è solo il suo racconto: sono le incertezze sul mestiere scritte e riscritte nel diario da Jouvet; è il silenzio che accompagna l’entrata muta di Eduardo (e che Garboli descrive in un articolo bellissimo); rimandano all’apparizione improvvisa del Sacro nel Mortale ne Lo spazio vuoto di Peter Brook ed è, in definitiva, “il momento presente” che – da spettatore – mi porto a casa: eredità infinitesimale di questa sera che ho trascorso in un teatro.
Questa è la materia di cui è fatta, a mio parere, la parte più interessante di Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello ed è materia che non si manifesta quando la prima attrice giunge in ritardo (“è arrivata la principessa”) dicendo a tutti “ho il cane che sta male” né si manifesta con l’esecuzione de Il giuoco delle parti  svolta in proscenio (mentre gli altri attori e le altre attrici – come da didascalia – “hanno sgombrato il palco” sedendo di lato o verso il fondo), né s’intravede con l’entrata dei Personaggi, fatta avvenire dall’uscio laterale (così ricordandoci che è “l’usciere” che ne annuncia la venuta, che non a caso genera uno spiffero di vento dall’esterno) o col primo monologo del Padre, che Masella re-cita tenendo tra le mani un’edizione BUR del testo; non è materia che appartiene al “chi era don Abbondio?” detto proiettando, nel contempo, l’immagine del don Abbondio di Gianni D’Addario, non trova la sua urgenza nel dire “lo guardi questo amorino qua!” impugnando un cellulare, nell’urlo “voglio fare la scena!” (coniugazione isterica di “sto tremando, signore, di viverla quella scena!”) o nell’interruzione compiuta dalla prima attrice (“scusi William Shakespeare… crede che a un certo punto potremo intervenire anche noi?”) con cui si rimanda allo “scusi, signor direttore, seguiterà la prova?” pirandelliano; invece – la materia incerta, per certi versi misera ma (ri)creativa di questo tentativo effettuato da Sinisi e compagnia – appartiene al corpo di Sinisi, che sta seduto per gran parte del tempo in platea, poltrona interna della penultima fila del Fontana, quando corre fino al golfo mistico per dare un suggerimento ad un attrice (“non trascinare il tono”); è nell’immediatezza con cui Masella – scese le scalette – passa dalla condizione di attore che ancora non recita alla condizione di attore che recita la parte del Padre (così ribadendo che il teatro è un patto condiviso, per cui noi spettatori acconsentiamo a credere a voi attori quando fingete d’essere); è nelle due lucette sparagnine che si accendono sul muro nero quando i Personaggi salgono sul palco (eredi impoverite della “fantastica luce” prevista da Pirandello); è – questa fragilità, al tempo stesso imperfetta ed essenziale – nel “ho dimenticato un pezzo” (che ancora non ho capito se è una bugia o un’ammissione) ed è nella voluta incoerenza di mantenere il riferimento alle “cento lire” mentre si proiettano dirette Facebook, foto tratte da Google Immagini e video da YouTube; è nel lavoro certosino e artigianale svolto a vista da Federico Biancalani; è nella comunanza di attori e tecnici sul palco; è nel triangolo che – tra il proscenio e la platea – si forma quando la Figlia urla contro il Padre che, a sua volta, discute con suo Figlio (triangolo carno-verbale che in sé ingabbia quasi tutto il pubblico); è in una mela mangiata da un attore nell’attesa, è in un corpo esposto in controluce, è nel montaggio del microfono prima della chiusura del sipario, è nel falso dichiarato falso (giacché qualsiasi contenitore in sé l'esistenza non la tiene: il sangue finto sulla maglia, dunque, e lo svenimento plateale, il colpo di pistola, le immagini sul fondo, la nota di lamento); è nelle funi tirate dallo scenografo, è nel valore dato all’aggettivo “irrappresentabile” quand’è associato alla parola “vita”, è nel guardarsi reciproco in assito (che si aggiunge al guardarsi reciproco che avviene tra il palco e la platea) ed è nella presenza di un regista vero – che si comporta in tutto per tutto da regista (Sinisi) – con cui si smaschera finalmente il fatto che il Capocomico pirandelliano non è che una parte, sempre la stessa, recitata da un attore.
È – “il terreno ignoto; condizione indispensabile per poter sperare nella comparsa del teatro” per citare ancora Morganti – nell’improvvisazione: ogni sera affidata a un gruppo di attori differente che, a tre quarti di serata, entra in sala, percorre il corridoio e si presenta al centro dell’assito.

 

 

Il resto è silenzio
“Ma che dice sul serio? Che vuol fare?” e poi: “Questa è una pazzia bella e buona!”, “Ci vuol far improvvisare un dramma, così su due piedi?”, “Già, come i comici dell’Arte!” e ancora: “Io non ci sto”, “Non ci sto neanche io”; “Vorrei sapere chi sono quelli là”; “Ma cose da pazzi, se il teatro deve ridursi a questo”.
Sono passate più di cinquanta pagine da quand’è iniziato Sei personaggi e finalmente “non si parla” ma “si fa”. Terminato il lungo “prologo” (è questa la parola che usa il Padre per indicare l’avvenuta narrazione dell’antefatto: lui, la Madre, il Figlio, il matrimonio e la bambina, il desiderio ancora vivo della carne, la mezza nudità della ragazza, le accuse di incesto e d’immoralità) Pirandello concede alle figure della storia di agire, assemblando alla buona il palco, provando ad evocare – al presente – il ritorno dolente del passato. Gli Attori della compagnia, bravi nel rendere classicamente un testo, prima si ribellano, poi sono indotti alla replica di quel che fanno i Personaggi, quindi falliscono – come sappiamo – generando risa, commenti e controcommenti, proteste, l’abbandono dell’assito. Questo tentativo occupa sei pagine su un totale di settanta (l’8,5%) ma, queste sei pagine, sono fondamentali in quanto (avvenuta formalizzazione dell’informe) è con esse che Pirandello afferma ciò che pensa ovvero che per il teatro è impossibile dire la verità (tutta la verità, nient’altro che la verità) per mezzo della verità. Il teatro è un compromesso, ci dice quindi Pirandello, ed è al massimo un tentativo di, una ricerca per, una vocazione a che passa per l’errore, il fraintendimento, per l’abbozzo generando (nella maggior parte dei casi) una resa assai friabile, talvolta ridicola eppure fondamentale. Si improvvisa, insomma: hai visto mai che non ne venga…
Sinisi esalta questa frazione dell’opera e invece del solito rischio finto, che si poggia sul rispetto del testo drammaturgico e che va in scena ininterrottamente dal ’21, espone gli attori ospitati di volta in volta (da Leonardi, Astorri e Tintinelli a Frigo Produzioni, Ferdinando Bruni, Nina Drag’s Queen’s – per dirne alcuni) al rischio vero dell’improvvisazione che viene infatti improvvisata adesso.
Non solo.
Costringe poi i suoi attori a ricalcare quel che è appena nato, spingendo anch’essi a praticare l’insicuro. Di questo è fatto il teatro prima che diventi uno spettacolo: che cosa vi credete? Eppure è proprio questo, cari spettatori, che in definitiva abbiamo in comune; è questa la materia di cui è fatto il nostro incontro ed è questo il bene (umano, intenso e anacronistico) che – nell’epoca dell’ostentazione social, dell’immagine standardizzata e della presunta informazione onnipresente – ci spinge ancora a stare assieme, nello stesso spazio e nello stesso tempo: noi, qui sopra, e voi, qui accanto. 
Sembra poco, quasi niente, e invece è tutto. Lo conferma anche Pirandello: “Lo so bene che ciascuno ha una sua vita dentro e che vorrebbe metterla fuori. Ma il difficile” per chi fa teatro “è appunto questo: far venire fuori quel tanto che è necessario” perché s’intenda “tutta l’altra vita che resta dentro”. È, pirandellianamente detta, l’aspirazione a far vedere l’invisibile che, principiata col taomai greco, muoverà la giovane compagnia, domani, a provarci ancora: in chissà che modo, con chissà quali (poveri) mezzi e ottenendo chissà quali risultati.
Sarà per tale motivo – forse – che Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello adesso muove due grosse paia di gambe (quelle della Figliastra e del Padre) perché venga alluso – e sia quindi solo immaginabile – l’incesto (aggiungo: queste gambe mi sembra che riprendano i “fantocci” dichiarati nel primo atto dei Sei personaggi e che evidenzino la fissità dell’attimo, che resta e che condanna; rimandano al cielo di carta strappato sotto al quale recitano le marionette de Il fu Mattia Pascal e – che sia volontario o meno – mi ricordano pure che Pirandello da bambino proprio così scoprì che suo padre tradiva sua madre: scorgendo quattro piedi intrecciati al di sotto dell’orlo basso di una tenda) quindi – e siamo così giunti alla fine – Sinisi non ci lascia in dote che un suono vuoto, l’ultima forma impossibile, un grumo che resta muto. E d’altronde: può il teatro riprodurre “il grido di una madre che ha perso il figlio sotto i bombardamenti in Siria”? Può rendere “le urla di una mamma il cui figlio si è suicidato, nei bagni di una scuola, in seguito ad atti di bullismo”? O può far eco allo strazio “di chi ha saputo, in piena notte, che il proprio figlio è morto in un incidente”? E può – il teatro – davvero raccontare che mia moglie Antonietta è diventata pazza e che ogni giorno mi insulta accusandomi d’incesto, che mia figlia Lietta ha tentato il suicidio poggiandosi la canna di una rivoltella sulla tempia, che mio figlio Stefano mi detesta e non mi parla e che io – Luigi Pirandello – da allora mi porto in petto un dramma doloroso, un senso di colpa che non passa?
Può mostrare, tutto ciò, il teatro? E in che modo?
La scena è scena, mentre la vita è vita. Nel guado, tra scena e vita, a questo punto non ci resta che il silenzio, gli risponderebbe uno che il teatro (e il dolore) lo conosce bene.

 



Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello
drammaturgia
Francesco M. Asselta, Michele Sinisi
regia e adattamento Michele Sinisi
con Stefano Braschi, Marco Cacciola, Gianni D’Addario, Giulia Eugeni, Marisa Grimaldo, Ciro Masella, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster, Michele Sinisi, Nicolò Valandro
scene Federico Biancalani
assistente alle scene Elisa Zammarchi
direzione tecnica Rossano Siragusano
foto di scena Luca del Pia
lingua
italiano
durata 1h 30’
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale
Milano, Teatro Fontana, 12 marzo 2019
in scena dal 12 al 24 marzo 2019

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