“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 29 March 2019 00:00

Ha ancora senso portare Pasolini a teatro?

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Per Massimo Popolizio, evidentemente sì. Al grande pubblico più conosciuto come attore che regista (fra le sue interpretazioni al cinema spiccano il Terribile di Romanzo criminale, Vittorio ‘Lo squalo’ Sbardella de Il divo e il guru del botulino ne La grande bellezza), Popolizio non è nuovo nel percorrere solchi pasoliniani, essendosi di recente cimentato nella lettura radiofonica proprio di Ragazzi di vita e di Una vita violenta.

Si deve, probabilmente, a questo motivo l'intuizione di trasporre in teatro proprio il primo dei romanzi romani del poeta friulano. In questa mise-en-scène si avvale della penna di Emanuele Trevi, conosciuto per tramite di Fabrizio Gifuni, che a Pasolini ha dedicato vari anni di studio approfondito (fra le altre cose, cimentandosi anche lui nella lettura proprio di Ragazzi di vita) che sono sfociati in due opere teatrali (’Na specie de cadavere lunghissimo, per Bertolucci, nel 2004 e Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un’amicizia in versi, nel 2011), fino a prestare la voce al Dafoe di Abel Ferrara nel 2014.
Meno noto del Pasolini teatrale, è forse solo il Pasolini pittore. Eppure, durante una convalescenza nel ’66, questi scrisse, di getto, ben nove pièce, di cui la più celebre è forse Affabulazione, portata in scena da Vittorio e Alessandro Gassman nell’86 (da cui è tratto il celebre Padre Nostro eretico). Se è famosa la fascinazione, quasi semantica, di Pasolini per il cinema, altrettanto forte rimase quella che subì per il teatro, tale da indurlo a dichiarare: “Il teatro non evoca la realtà dei corpi con le sole parole ma anche con quei corpi stessi [...]; l’uomo si è accorto della realtà solo quando l’ha rappresentata. E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla”. Piaceva la realtà, a Pasolini. Era il fine pratico della sua poesia. La considerava sacra. Come la vita. Specie quella dei ragazzi che se la vivono addosso con l'impudenza della fame.
Fedele a questa visione, Popolizio affida a una compagnia di ben diciannove attori la messinscena di alcuni stralci delle trecento pagine del romanzo editato da Garzanti e che, nel ’55, gli valse tanto successo quanto polemiche (bipartisan). La scenografia di Marco Rossi si rivela da sé, disegnando come invisibili cornici che lo sguardo trafigge orizzontalmente, come una sorta di vetrini al microscopio, fra i cui interstizi la vita di questa meglio gioventù, nella sua essenza più vera e dolorosa, brulica, offrendosi nuda, all’occhio di chi non vuol distogliere lo sguardo. Sul telo dietro scorrono i titoli degli episodi, le immagini del cinematografo, o la planimetria d’una Roma scuoiata, con le vene di fuori, l’apparato circolatorio scandagliato con furia, dal centro storico ai tetti di bandone della periferia. La scenografia è funzionale nella sua essenzialità, evocativa nel modo in cui vela e disvela, tanto rappresentativa quanto la scelta degli episodi che Popolizio e Trevi hanno selezionato dal poderoso corpus. Il primo è quello forse più celebre dove i ragazzi di vita si bagnano nel Tevere: Agnolo, Begalone e Riccetto (per tacere della rondine) sono i tre(-quasi)-uomini-in barca(ccia). Tutto il romanzo è ambientato in un’afosa estate romana, quella che Pasolini rendeva al cinema tramite un bianco e nero dreyeriano dal lucore abbacinante per fotografare al suo meglio il verminaio del popolo spanto. Popolizio, invece, lo affida alle luci calde e ai fondali grondanti come mèsse di grano di Luigi Biondi, il che consente ai ragazzi dai corpi seminudi di dar vita a un plastico baillamme caravaggesco. Un popolo che ancora non è stato reso massa. Un popolo che mantiene la sua primitiva veridicità, che occupa gli spazi col suo modo di vivere comunitario e genuino, in cui tutto è vissuto senza i filtri menzognieri del perbenismo borghese, quando ancora ogni aspetto della vita era pubblicamente esposto e non esisteva nulla di privato. Un popolo che Pasolini ha amato, da sempre e ferocemente, e per il quale si è dannato. Un amore che gli è stato rimproverato e misconosciuto e che gli si è ritorto contro. I borgatari romani all’ammollo, infatti, sono gli eredi dei fanciullini che in un altro fiume si bagnavano, il Tagliamento, nel suo primissimo romanzo, Amado mio. L’immersione nelle acque rende ancor più fluido l’afflusso dell’inconscio già sovraesposto di questi ragazzi affamati di vita, che Pasolini non ritrae mai in modo indistinto o generico, ma uno per uno. La stessa cura la ritroviamo nell’opera teatrale, dove a ciascun personaggio è intarsiato un suo momento nel quale poter espettorare il proprio potenziale. Se la resa di alcuni è meno riuscita (da avanspettacolo e macchiettistica quella del froscio, per esempio, che sembra strappare qualche sorriso di troppo, considerando, retroattivamente, quanta sofferta e violenta diversità vi si celasse), nel complesso tutto è rappresentato con un panneggio variegato di sfumature vivide, trasposto con grande dinamismo e non senza trovate notevoli (lo spaccato del tram, come in una sezione di Hirst).
Altrettanta cura è stata dedicata alla lingua (diversamente non avrebbe potuto, d’altra parte, essendo “specchio discretissimo di un popolo”), nel tentativo di infondere vita a una parola mai nata; quel dialetto letterario ma così evocativo, cercando di non sfociare nel neorealismo paternalistico o, peggio, in quel devitalizzato romanesco televisivo, tanto riconoscibile quanto sciatto e monocorde. L’ora e quaranticinque non è sempre scorrevole, con attori che alternano ai dialoghi e ai flussi di coscienza quel fitto discorso indiretto libero tanto caro a Pasolini e Deleuze; quella terza persona che consente al sé di trascendere e rientrare senza soluzione di continuità, come un pianosequenza, è una sfida che li muta in contenitori da invasare. Al di là del divertissement metalinguistico che Popolizio si concede mettendo in scena persino il Glossarietto, a conferire leggerezza che spezzi e spiazzi si aggiungono le tante incursioni canore (Zoccoletti, Malinconia di rondine, Il mare); deragliamenti nel musicarello utili a restituire la spensieratezza di un popolo che, non avendo nulla per farlo, pur cantava ancora, impossibilitato al nuocere e costretto a un’innocenza, anche quando crudele, da una cultura e una morale altre, che ne rendeva le vite sacre come l’usignolo di Atticus Finch. Almeno fino a che restano in grado di salvare una rondine dall’annegamento. Dove non arrivano le parole (il cui fraseggio è talvolta troppo convulso) arriva sempre in soccorso la fisicità degli interpreti. Dalla fitta schiera, emerge con forza Lorenzo Grilli, classe ’89, la cui mimesis, non solo fisica, col personaggio del Riccetto (senza appiattirsi in un’imitazione di Ninetto Davoli) risulta, oltreché pienamente riuscita, indispensabile pietra angolare per sostenere l’intera impalcatura. Il suo personaggio, infatti, corre e ricorre, a tutta callara, fra le storie, prestandosi da collante, e i flash che ne costellano le comparsate a macchia di leopardo scandiscono l’atemporalità della pièce, nella cui filigrana s’intravede, infatti, il personaggio che si forma e deforma o, per dirla à la Pasolini, si sviluppa, sì, ma sotto il sole d’un falso progresso di sé. L’empatia ispirata dall’iniziazione di questo mascalzoncello, che perde in ingenuità quanto guadagna in vita vissuta, è profonda e partecipe, ed è quella corruttela, invincibile, che lo spettatore si porta a casa. Questa la vera raison d'être tale per cui si può rispondere che: ‘sì, oggi più che mai resta ancora necessario diffondere questo romanzo’.
Sebbene.
Sebbene i ragazzi di vita di Pasolini non esistano più.
Sebbene non li troverete più a Ponte Mammolo, o sotto Ponte Garibaldi, o nelle cabine di Ostia, o in cerca di cicche a Campo de’ Fiori. E neppure in un vicolo dei Quartieri Spagnoli, in uno slum indiano o in un villaggio sudanese. Ce lo diceva già Pasolini stesso (che in tutti questi luoghi c’è stato), pochi mesi prima di morire, ne Il mio Accattone in tv dopo il genocidio. In loro vece permangono i loro calchi larvali, versione svilita di quel popolo, non più sempre vero (nel bene come nel male). O le loro appariscenti incarnazioni attuali, pornoparodie dalla mortificante quanto svilente compiaciuta amoralità, mistificazioni che non tradiscono nessuna compartecipazione di sentimenti (“la cultura marginale, particolaristica è distrutta e non produce più modelli [...]; quel piccolo mondo è stato distrutto da una Gomorra feroce”, 1973). Pasolini ha consegnato alla Storia (borghese) quelli che erano esclusi dalla stessa. I ragazzi di vita pasoliniani erano invisibili per la classe dominante. Nessuno si avventurava nei ghetti dov’erano stati confinati. Nemmeno lo Stato, neppure per censirli. Anzi, pretendeva che non venissero mostrati (“Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. è l'Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria”, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo, negli anni ’50, Giulio Andreotti) che è un po' quello che succede coi nuovi esclusi: i migranti e i loro campi di concentramento/detenzione. Gli intellettuali, poi, abiurando la loro funzione gramsciana, si trinceravano dietro al disimpegno, liquidando ogni istanza etica come vestigie di velleità ideologiche o moralisticheggianti ("J’accuse [...] gl’intellettuali italiani, tutti [...] PER AVER ACCETTATTO UNA REALTÀ CHE NON C’ERA", Poesia in forma di rosa). Con la sua ereticità, che gli faceva risalire il Tevere (o il Tagliamento o il Gange o il Nilo) in direzione sempre ostinata e contraria, Pasolini con gli invisibili ci parlava, ci mangiava, ci giocava con palloni fatti di stracci (“Soltanto chi ama, soffre nel vedere che le persone amate cambiano. Chi non ama non se ne accorge neppure: ai politici non gliene importa niente dei poveri; agli intellettuali non gliene importa niente dei giovani, il rischio dell’impopolarità faceva più paura del vecchio rischio della verità […] per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo l’avevo amata”, cfr. Petrolio). I pugni non li teneva in tasca ma si sporcava le mani. E chissà che magari Popolizio non abbia voluto prendere posizione, scegliendo di proporre proprio in questo momento storico la sua messinscena in modo da invocare ciò che più latita oggi: qualcuno in grado non solo di interpretare lo spirito dei tempi, ma capace di provare empatia per l’Altro e il diverso, nutrire un interesse disinteressato per le sue sorti, in mancanza del quale prolifera l’odio razziale, l’altra faccia dietro la quale si celava, secondo Pasolini, l’odio di classe, che ha sempre fatto del povero, e della sua cultura, la sua vittima. In ciò, la flatus voci di Pasolini continua a essere un unicum la cui eco è bene tener viva.
La pièce, nella sua  circolarità, si conclude con la morte di Genesio, insensata come la vita che menano i ragazzi, dalle tappe bruciate anzitempo, come Icari che volano più vicini all'orbita del solleone romano. E guardando il frame bloccato di quel fotofinish finale, col cadavere composto che giace ai piedi di due carabinieri giunti fuori tempo, al pensiero è impossibile non correre a quel 2 novembre 1975.





Ragazzi di vita
di Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
con Lino Guanciale, Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Verdiana Costanzo, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
canto Francesca Della Monica
video Luca Brinchi, Daniele Spanò
assistente alla regia Giacomo Bisordi
produzione Teatro di Roma − Teatro Nazionale
lingua italiano, dialetto romanesco
durata 1h 45’
Napoli, Teatro Bellini, 26 marzo 2019
in scena dal 26 al 31 marzo 2019

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