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Thursday, 21 March 2019 00:00

Sulla vergogna, danzando in questo altrove

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Il volto si gonfia, impercettibilmente. La forma delle braccia si fa meno tesa, le cosce guadagnano in larghezza qualche centimetro, il ventre si ammorbidisce. I seni, già pregni, sembrano diventare più pesanti, mentre i glutei vengono stretti dalla stoffa di una gonna che prima cascava come se non ti toccasse nemmeno. La lancetta della bilancia indica un numero che non aveva mai indicato. C'è chi ti osserva diversamente, te ne accorgi; qualcuno ti guarda di più, qualcun altro ti guarda di meno. Comincia a mutare la relazione che hai con te stessa, con l'immagine di te che rimanda lo specchio, e cambia la percezione del tuo corpo quand'è nudo o coperto; pensieri mai fatti ti vengono quando siedi a tavola, ad esempio, e senti che abbracci gli altri in maniera diversa e in maniera diversa vieni abbracciata mentre, quando cammini per strada, percepisci una parte di te che vibra carnalmente. Ingrassi – di poco ma ingrassi: quasi senza comprendere come, quanto, perché. E adesso? E adesso con questo corpo – con queste gambe, questa schiena, questo addome, questo collo: che sono il mio strumento attorale, tutto quello che ho veramente – come continuo a ballare?

“Danzavo” racconta Silvia Gribaudi in numerose interviste video o cartacee; “danzavo con Naturalis Labor, con Luciano Padovani dunque, e come scritturata in progetti nazionali e internazionali; danzavo anche per la Fenice di Venezia, ad esempio, quando – tra i ventotto e i trent'anni – la mia fisicità ha cominciato a cambiare: sono diventata più grossa, sono diventata più grassa, e le mie anche si sono allargate”: da ballerina a norma, che rientrava cioè nei parametri di un corpo allenato (e abituato) ad essere filiforme, sottile, quasi androgino, la Gribaudi diventa una figura extra-size, inadatta o inappropriata al contesto di appartenenza. Smettere, quindi? Rinunciare al mio modo di stare al mondo, a questo lavoro, a quest'arte; smettere abbandonando il lessico attraverso il quale sono riuscita a parlare a mio padre? La Gribaudi non smette. Praticante buddista, si rifà a un mantra di Nichiren Daishonin – “Nam-Myoho-Renge-Kyo” ovvero “trasforma il veleno in medicina” – e prosegue, mutando. “Va bene, il corpo è cambiato: vediamo cosa posso esprimere con queste parti più molli”. Comincia così la seconda fase della sua carriera e comincia con A corpo libero – è il 2009, ne trovate frammenti su YouTube: una performance ironica e audace nella quale modella su questa nuova se stessa una coreografia fatta di ondeggiamenti, sobbalzi, mini-tremori, di messa in evidenza (valorizzante) delle rotondità: l'interno delle cosce, i polpacci, la parte inferiore delle braccia, il petto, i fianchi, il ventre, i glutei – finalmente liberatasi dalla copertura di un vestito a quadri multicolor diventato progressivamente un fastidio. A corpo libero traversa l'Italia avvenendo ovunque e in ogni occasione: durante i festival e nelle programmazioni stagionali; A corpo libero accade nel mezzo di una strada, sul marmo di un monumento dedicato a Gaetano Donizetti, tra le colonne sbrecciate di un antico edificio, nell'angolo di una piazza, al centro dell'assito di un teatro comunale; A corpo libero succede all'interno di un supermarket, “tra pochi minuti, nelle adiacenze del reparto gastronomia”. La Gribaudi balla, insomma, ciò che per altre donne e altri uomini costituisce (secondo i dettami estetici dominanti) una vergogna; balla ribadendo un'identità, ripristinando un diritto, recuperando libertà, valicando confini e infrangendo regole, abitudini, pregiudizi. Da allora il suo lavoro come “autrice del corpo” – “di volta in volta mi definiscono regista, coreografa, interprete, performer ma io penso di essere un'autrice del corpo” dichiara infatti – incontra ciò che è socialmente rimosso o limitrofo perché considerato economicamente improduttivo per una quotidianità votata sempre più al culto del profitto: l'infanzia, ad esempio, e la condizione dell'essere marginale; la consuetudine reclusivo-domestica e la vecchiaia e – della vecchiaia – l'adagio ritmico, i momenti di stasi, la legittimità del limite e della stanchezza. Vergogne anch'esse, per le quali il capitalismo urbanizzato ha inventato, non a caso, zone di rimozione, nascondigli e recinti, spazi a parte: gli orfanotrofi o gli asili, le grandi schiere di casermoni periferici, gli ospedali, gli ospizi. Nascono dunque (con il contributo costante di Matteo Maffesanti: “Senza il quale quasi non potrei”) spettacoli o performance – da Graces a What Age Are You Acting? –; nasce R.osa, con Claudia Marsicano (“Claudia ha partecipato a un mio laboratorio nell'ambito di un progetto in collaborazione con Roberta Torre”, “finalmente ho conosciuto una performer che mi appassionava” a tal punto da “passarle il lavoro sulla morbidezza, la fluidità e il vistuosismo fisico in modo che  proseguisse senza che io fossi in scena”) e – parallelamente – nasce un insieme continuo di progetti umano-territoriali con i quali Silvia Gribaudi (da Novoli a Bergamo) l'infanzia, la marginalità e la vecchiaia non solo li danza ma li fa danzare: A piede libero, ad esempio, e Non è mai troppo tardi, Oggi è il mio giorno o BlitzOver60, durante il quale alcune donne interrompono l'atto di fare la spesa e – mutando senso funzione e percezione dello spazio circostante (l'interno di un supermercato) – realizzano una partitura che ora segue il ritmo incazzato del rock, ora l'andamento orchestrale di una musica classica.
È così dunque, per dirla con Alessandro Pontremoli, che la Gribaudi confronta il corpo danzante col “dover essere etico ed estetico”; è così che del corpo danzante fa “termometro storico del presente” mettendone in discussione “le credenze, le speranze e le contraddizioni”; è così che – “ponendolo nel mondo come una prospettiva, come un punto di vista in uno spazio e in un tempo” – il corpo danzante lo sottrae all'omologazione consumistica ribadendo che si tratta invece de “l'incarnazione unica e irripetibile” – e perciò preziosa e imperfetta – “di una persona”.

 


In un libro edito da Guanda nel 2010 e intitolato Senza vergogna, Marco Belpoliti scrive che “la vergogna” – che è uno strumento di consapevolezza individuale, una sensazione di tipo sociale, un avvertimento emotivo che non siamo monadi – “ormai non c'è più” e che “il sentimento che ci suggeriva di provare un turbamento o un senso d'indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra azione e che ci induceva pubblicamente a chinare il capo, abbassare gli occhi e a evitare lo sguardo degli altri, sembra scomparso”. Questo stato d'animo, che funge da guardiano “essenziale e terribile”, per Belpoliti è stato sacrificato sull'altare della notorietà (pensate all'utilizzo mortificante dell'umano nei reality-show), del consenso (in nome del quale diventa dicibile l'indicibile) e dell'affermazione a tutti i costi di sé ed è tanto vero, continua Belpoliti, che la vergogna è diventata psicologicamente un tabù o meglio: “si è trasformata in vergogna-di-non-avere-successo”, “di non essere notati”, di essere “per gli altri un nessuno” qualsiasi: “La nostra vergogna contemporanea consiste nel sentimento del fallimento della propria esibizione”, afferma infatti Belpoliti, per cui siamo giunti al paradosso per il quale ci vergogniamo “di vergognarci poiché questo richiama l'attenzione di tutti sull'unica cosa che si vuole nascondere: l'insuccesso” e la sconfitta, una mancanza, il nostro vuoto. La paura dell'assenza di riconoscimento induce quindi all'utilizzo e all'esposizione mostruosa di sé (basta osservare la tv del pomeriggio), detta l'agenda comunicativa della politica (un sindaco che si vanta di aver gettato via le coperte di un clochard; un parlamentare che definisce “una scimmia” una donna nera; un esponente della Lega che consiglia a una cantante di aprire le cosce e di farsi pagare) e genera inedite forme di dipendenza (il desiderio compulsivo di ottenere i “like”, ad esempio). Insomma: davvero “il tempo delle figure di merda è finito” per citare un personaggio di Che la festa cominci di Ammaniti?
Marco Belpoliti, va detto, scrive il suo libro nella fase decadente del berlusconismo e infatti – in un volume che tiene assieme Primo Levi, Günther Anders, Thomas Pynchon e l'aura commerciale di Andy Wharol – mette in relazione le più alte manifestazioni del sentimento della vergogna (dai soldati russi che giungono ad Auschwitz, mortificandosi per quanto gli uomini abbiano fatto ai loro simili, al fotografo cui il governo giapponese assegna il compito di testimoniare quel che resta di Nagasaki dopo la bomba) con l'infimo di un Presidente del Consiglio allora settantaduenne che presenzia alla festa di compleanno di una ragazza appena diventata maggiorenne: “Tutti scrivono” di Noemi e Berlusconi, afferma Belpoliti facendo rassegna stampa, “ma nessuno usa la parola vergogna”. Perché?
A rispondergli indirettamente è Gabriella Turnaturi che, in Vergogna. Metamorfosi di un'emozione (Feltrinelli, 2012) attraverso l'analisi di film, opere d'arte, testi teatrali e romanzi (da Philip Roth a Pulp Fiction, da Shakespeare a Rushdie, attraverso i libri di Coetzee e Tra le nuvole di Jason Reitman) prima ci racconta che la vergogna è “un'emozione-sentinella del legame sociale”, poiché “sta a guardia dei confini tra lecito e illecito, trasgressione e conformità” – e in quanto tale è dunque “l'emozione più socialmente costruita” giacché “regola il rapporto Io-Noi” – poi riformula la domanda di Belpoliti (“che ne è della vergogna nell'epoca dell'individualismo atomizzato?”) e infine – dopo aver affermato che le emozioni non si dissolvono bensì cambiano – ci spiega che, perduto un orizzonte comune (un tempo datoci dai vecchi saggi della comunità, dalle istituzioni nazionali, dalla Chiesa, i Partiti, dalla scuola), ciò che ci resta è “una vergogna fai-da-te”: una sorta di “deficit emotivo” in base al quale non mi vergogno più di che persona sono ma (al massimo) di come sembro agli altri. Siamo passati dunque – per rifarmi agli estremi letterari di un articolo di Matteo Marchesini, intitolato Il romanzo della vergogna e pubblicato su Il Foglio – dal senso di colpa biblico della Genesi, coi peccatori denudati dallo sguardo trapassante e onnipresente di Dio, e dalla vergogna d'origine ellenica (in nome della quale Ettore, nel XXII canto dell'Iliade, sente il dovere di combattere Achille dopo essere scappato in un primo momento al confronto) alla sensazione d'imbarazzo narrata da Tommaso Landolfi in uno splendido racconto, intitolato Sub specie flatus e che comincia così: “Sul più bello della sua prima estasi d'amore una giovanissima sposa trullò” ovvero: emise un peto, peto che ammala progressivamente il rapporto tra i coniugi.
Ebbene.
Dopo la danzante presentazione animalesca di sé (la pelliccia indossata su un corpo seminudo) i cinque performer che sono in scena in Humana Vergogna, ultima invenzione corografico-drammaturgica di Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti, cominciano l'esposizione di un  vero e proprio campionario di vergogne partendo proprio da un peto, contrapposto alla bellezza algida di un canto lirico: la maltrattenuta emissione puzzolente che ci ridicolizza agli occhi (e alle orecchie, e al naso) di chi ci sta intorno. Ma la Gribaudi e Maffesanti hanno il merito di invertire la rotta e, pertanto, “scorreggiare” – come leggo sulla video/parete di fondo – non è la conclusione dell'itinerario appena descritto, per cui la vergogna pubblica si è ormai ridotta a un imbarazzo personale e momentaneo, ma dell'itinerario ne rappresenta invece l'inizio. 

 


Uno spazio di scena che ha per tappeto e fondale un telo di plastica bianco, buono per esaltare la consistenza carnale dei performer, proiettare immagini e didascalie, giocare con le ombre dei corpi e riflettere le luci cangianti dello spettacolo; sei neon verticali (tre per parte) sui lati; una compilation che funge da sostegno sonoro a un'opera nella quale le parti danzate si alternano agli intermezzi parlati, composti da brandelli confessionali, dialoghi interni e una verbalità aperta (domande, battute, pure certi silenzi sostenuti e sopportati assieme) che viene indirizzata direttamente al pubblico. “Very Pop Contemporany Performance” ci avvertono ironicamente [e cioè con quell'(auto)ironia che è cifra fondante della poetica di Silvia Gribaudi] i cinque che sono in scena giacché dell'arteatralità contemporanea Humana Vergogna utilizza volutamente alcune tra le più frequenti consuetudini compositive: l'assenza effettiva di quarta parete (ci si rivolge non verso gli spettatori ma agli spettatori quindi) e la frontalità impiantata in proscenio, l'illuminazione stereostopica-dance e l'attraversamento della platea, la richiesta dell'esercizio svolto dal pubblico (stringetevi la mano, guardatevi, abbracciatevi), l'offerta di una partitura che mostra ancora un'evidente fattura laboratoriale, lo spettatore coinvolto nello one to one con chi è in scena e la narrazione disfatta nella sua continuità, che ora avviene per quadri e frammenti posti in relazione elencatoria. Ne deriva una “Shame Parade” ossia un esposto repertorio di vergogne che vengono agite ora individualmente, ora per mezzo di coreografie compartecipate e collettive.
Il peto, dunque, che si contrappone alla bellezza statuaria del canto lirico e – in un andamento che fonde e confonde privato e pubblico, personale e sociale, la contrazione mortificata e lo sfogo liberatorio e che nel contempo smaschera di continuo il gioco teatrale (“non ce la farei mai”, “prepariamo adesso la nuova scena”, “è solo un'idea per lo spettacolo”) – molte altre vergogne poste in sequenza. La bulimica assenza dei propri limiti, ad esempio, che genera la minaccia di un'esposizione eccessiva di sé (“posso fare tutto, non ho nessuna barriera”: “posso baciarvi a uno a uno”, “posso staccarmi i peli che ho addosso e lanciarveli contro”, “posso riempire il palco di carboni ardenti e farvi vedere come spariscono sotto i miei piedi”) e le sensazioni che proviamo quando stringiamo la mano di qualcuno, quando ci guardiamo per la prima volta occhi negli occhi, quando avviciniamo il nostro corpo al corpo altrui; la sera in cui mia madre mi ha visto ballare e mi ha detto di smetterla “perché le tue gambe sono troppo grasse”, il senso di colpa provato per un figlio da partorire a quindici anni e quella volta in cui – io, ragazzina – ho tentato di baciare una mia coetanea; questa grassezza che mi fa pesare più di ottanta chili – ottanta chili fatti delle merendine che ho rubato dalla dispensa, della Nutella che ho mangiato quando tutti sono andati a dormire, del pezzo di tiramisù scippato al frigorifero con un cucchiaio – e l'abitudine che ho di marchiare gli altri etichettandoli (“gay” o “trans”, “fascista” o “comunista” e “musulmano”, “ebreo”, “stalker”, “assassino”, “pedofilo”, “necrofilo”), la tendenza strisciante che ho di utilizzare espressioni che appartengono al frasario del populismo nazionalista (non me ne rendevo neanche conto), questa mia pancia che suda e che tremula mentre il suo ventre è lineare, asciutto, perfetto, e l'occasione in cui mi hanno detto “fai schifo”, il giorno in cui ho smesso definitivamente di abbracciare gli altri (e di volere bene a me stesso), “la prima volta in cui ho fatto sesso, a casa dei genitori di una mia amica, sporcando di sangue le lenzuola” e i 660 follower ottenuti mostrando la parte peggiore di me, il desiderio irrinunciabile di piacere e di piacermi, quest'abitudine indotta di contrapporre “noi” a loro”, di cercare qualcuno da odiare, di scegliere un capro espiatorio contro il quale sfogarmi (un cane randagio e i siriani, i rom o questi negri che ci affollano i porti e le spiagge). E (adesso non mi vergogno più di dirlo e infatti lo confesso guardandovi) la voglia e la gioia che invece provo quando lavoro teatralmente con i carcerati. Davvero. E il bacio che, da donna, ho dato a una donna. Davvero. E – davvero – il fatto di essere stata adottata; la mia prima masturbazione (avvenuta a cinque anni), l'adorazione che – nonostante sia un uomo – ho per i brillantini dorati.

 


Di Humana Vergogna mi colpiscono soprattutto due aspetti. Il primo è la funzione che assumono i performer. Lo spettacolo infatti non è un'apparizione a se stante ma è la parte conclusiva di un progetto più ampio chiamato La poetica della vergogna, diretto artisticamente da Antonella Iallorenzi e coordinato da Franco Ungaro, co-prodotto dalla fondazione Matera-Basilicata 2019 e da #reteteatro41, un network formato da quattro compagnie indipendenti lucane (Petra, Gommalacca, IAC, Compagnia teatrale l'Albero) che da qualche anno fanno sistema unendo forze e debolezze, idee, differenze, povertà e ostinazioni. La poetica della vergogna – nelle sue varie fasi di approfondimento, elaborazione, studio, confronto – ha messo assieme istituti universitari e studenti di liceo, registi polacchi (Radosław Rychcik, Jakub Porcari), drammaturghi kosovari (Jeton Neziraj) e poetesse giapponesi (Mizuki Misuni); ha fatto conoscere la Basilicata a chi non l'aveva mai artisticamente frequentata e ha riportato nella propria terra danzatrici "lucane" che ormai lavoravano lontano (è il caso di Mariagrazia Nacci); ha prodotto una sequenza di conferenze, tavole rotonde, incontri, workshop, laboratori (su YouTube si può vedere un frammento/testimonianza del lavoro svolto da Massimiliano Civica, ad esempio) che hanno avuto sede ora in Italia, ora in Kosovo, Bosnia, Georgia, Macedonia e con Silvia Gribaudi – alla quale è stata affidata la fase che ha portato all'ideazione della performanceLa poetica della vergogna ha vissuto prima un periodo di residenza a Satriano e poi nella Casa Circondariale di Matera, coinvolgendo nel processo ideativo e drammaturgico i detenuti. Pertanto i cinque danzattori (Mattia Giordano, Antonella Iallorenzi, Mariagrazia Nacci, Simona Spirovska, Ema Tashiro) non si limitano a imporre se stessi, facendo narrazione (presunta) di sé, ma si fanno invece carico dell'intero percorso avvenuto (di quel che ne resta) e di tutte le parole che sono state dette (e che si sono salvate dall'oblio) e – oltre ad esporre le proprie vergogne quindi (“abbiamo innanzitutto lavorato su di noi” afferma la Gribaudi in un'intervista) – in assito rendono anche quelle altrui: quelle emerse nelle ore trascorse con Civica, ad esempio, e quelle dette dai ragazzi delle scuole medie di Matera; quelle confessate dagli attori che hanno lavorato in residenza a Skopje; quelle delle donne che la Gribaudi ha coinvolto a Satriano; quelle dei carcerati, che appaiono nel video che chiude Humana Vergogna. E d'altronde. “Questa non è la mia storia, questa è la tua storia” dicono i performer tendendo ripetutamente l'indice verso di noi così tra l'altro connettendosi all'atavica funzione dell'attore che – da più di duemila anni – prende su di sé il fardello (civile, poetico, disturbante) di riflettere alla micro-comunità riunitasi stasera intorno a un palco ciò che di solito l'intera comunità tende a rimuovere, a nascondere, a non dirsi.
E d'altro canto, aggiungo.
Humana Vergogna prevede – prima dell'ingresso in sala – che ogni spettatore scriva su un foglio, e in anonimato, di cosa ci si vergogna. Quando siamo in platea invece, in attesa dell'inizio, ci viene data la possibilità di leggere quel che ha confessato chi è stato spettatore prima di noi (“mi vergogno di essere troppo chiuso” –  leggo – e “mi vergogno di mostrarmi da sola”, “di essere italiana”, “di non saper leggere e scrivere”, “di essere diventato vecchio”, “del lavoro che avrei voluto fare, per il quale ho studiato, ma che non faccio”; mi vergogno “delle cose che ignoro”, “della mia povertà”, “dell'indipendenza economica che non ho”, “di non aver ancora fatto l'amore”, “di non essere all'altezza della situazione”, mi vergogno “del body che devo mettere a danza”, “del decreto Salvini”, “di tifare per la Juve”, “mi  vergogno di non essermi vergognato quando avrei dovuto”, “mi vergogno di dirvi le mie vergogne”) mentre la performance si chiude chiedendoci di appallottolare il nostro foglio e di lanciarlo in assito: i fogli verranno conservati, formando un archivio che viaggerà assieme allo spettacolo. I performer sono dunque un mezzo: sono il mezzo attraverso il quale la mia confessione, scritta ieri, verrà letta domani da chissà chi: è in questo modo che Humana Vergogna – e chi lo replica danzandolo – si fa strumento perché la debolezza di un essere umano sia offerta alla capacità di comprensione, di ascolto e di attenzione, di un altro essere umano.
Il secondo aspetto.
Humana Vergogna a Matera è andato in scena in un carcere e – andando in scena – ha cambiato, foss'anche solo per una settimana o poco più, la funzione di questo spazio (che è stato anche un'altra cosa); ne ha cambiato certi orari e certe consuetudini; ne ha cambiato (riducendolo) il senso di alterità extra-territoriale; ne cambiato la percezione fisica e mentale che ne avevano i detenuti che hanno preso parte al processo, che ne avevano i secondini e il personale amministrativo – di cui sono mutate pratiche e compiti –, ne ha cambiato la percezione che ne avevano i cittadini che, per assistere a quest'opera, sono stati indotti a modificare i loro tragitti abitudinari percorrendo la strada che porta verso una zona limitrofa della città nuova e passando la soglia di un posto fino ad ora solo costeggiato, osservato, forse commentato, poi scansato. Un teatro, senza un attore (e senza uno spettatore che lo guardi), non è che una stanza, quattro pareti, un insieme di pietre, di calce e di pittura – sul fondo un pavimento di legname, dalla parte opposta c'è l'ingresso che porta in sala – afferma in un vecchio articolo Roberto De Monticelli; “un performer” – commenterebbe Silvia Gribaudi – “è colui il quale, con la sua presenza, muta le atmosfere” facendo, per dirla di nuovo con De Monticelli, del qui un altrove che dura quanto dura lo spettacolo, un altrove del quale – chissà – in qualcuno rimarrà il ricordo, una considerazione differente, una consapevolezza nuova in grado di alimentare un pensiero che non era mai stato pensato prima. “Il problema non è avere un luogo deputato nel senso dell'istituzione,” – mi sovviene a questo punto Attilio Scarpellini intervistato da Graziano Graziani per AltreVelocità – “ma di averne uno che il gesto teatrale circoscrive, un luogo in cui il teatro accade: è l'accadimento”, infatti, “che trasforma lo spazio in luogo (in luogo consacrato)”.
Il teatro, insomma, potenzialmente può avvenire ovunque: purché ci sia un attore al cospetto di uno spettatore e purché sia teatro veramente e quindi in grado non solo di distrarre ma di attrarre, non solo di intrattenere ma di trattenere (per dirla con Claudio Morganti) generando (oltre il proprio apparato spettacolare) una relazione umana e perdurante di cui resta qualcosa che va al di là del consenso gratuito, liberatorio e frettoloso degli applausi. Può avvenire in uno scantinato, nelle aule di una scuola elementare, su una spiaggia su cui non è ancora sorta l'alba il teatro e può avvenire sul marmo di un monumento dedicato a Gaetano Donizetti, tra le colonne sbrecciate di un antico edificio, può avvenire anche “tra pochi minuti, nelle adiacenze del reparto gastronomia” come sa Silvia Gribaudi. Può avvenire “persino nei teatri” direbbe ancora Scarpellini.
Può avvenire anche in un carcere se – foss'anche solo per una settimana o poco più – questo carcere non è rimasto solo un carcere ma è diventato (ed è stato vissuto davvero) come un altrove di cui, fino ad ora, nessuno immaginava l'esistenza.

 

 

 

 

Humana Vergogna
invenzione e drammaturgia
Silvia Gribaudi, Matteo Maffesanti
performer e contributi alla creazione artistica
Mattia Giordano, Antonella Iallorenzi, Mariagrazia Nacci, Simona Spirovska, Ema Tashiro
costumi
Silvia Gribaudi, Matteo Maffesanti, Lia Zandaù
consulenza per i testi
Jeton Nerizaj
direzione tecnica e luci
Angelo Piccinni
contributi artistici di laboratorio
Massimiliano Civica, Sharon Fridman/Carlos Peñalver, Radosław Rychcik, Jakub Porcari
musiche The Black Keys, Matmos, Hespèrion XXI & Jordi Savall, Philippe Jaroussky, Scott Ross, Brenda Lee, Frank Bretschneider, Sofi Tukker feat. NERVO The Knocks Alisa Ueno, Dennis Wilson and Taylor Howkins
produzione
Fondazione Matera-Basilicata 2019, #reteteatro41
lingua
italiano, inglese, giapponese
durata 1h 10'
Matera, Casa Circondariale, 6 marzo 2019
in scena
dal 1° al 9 marzo 2019

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