“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 19 March 2019 00:00

L’angoscia e la speranza nel mondo di Marta Cuscunà

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“La società è diventata una macchina per comprimere il cuore”, scriveva Simone Weil, grande filosofa del XIX secolo. Si può aggiungere che la società sia una macchina che diffonde la vertigine del caos. Una delle forme di oppressione è, secondo la Weil, la schiavitù esercitata in nome della forza. Traslando in un certo qual modo, e reinterpretando, il pensiero della filosofa francese, ci troviamo perfettamente all’interno del frame creato e messo in scena da Marta Cuscunà, drammaturga di Monfalcone.

La bontà e l’apertura verso l’altro che caratterizzavano l’antica società ladina delle Dolomiti sono state soppiantate dalla crudeltà assoluta (assoluta, perché arriva all’atroce sacrificio dei propri stessi figli). In questo mondo, sospeso tra il mito e la distopia, in cui domina l’angoscia per un Eden perduto, ci fa entrare la pluripremiata autrice goriziana.
È vero, o quanto meno, per la sottoscritta, plausibile, che l'angoscia è una radice del mondo moderno e sottostante strumentale del potere esercitato come controllo individuale e collettivo. Di certo, in questa storia, l’angoscia subentra in un mondo primitivo semplice, privo di tensioni, e lo pervade. E mi riallaccio qui ad un altro grandissimo filosofo, Sören Kierkegaard. La possibilità è categoria fondamentale dell’esistenza − sostiene il danese − ed è sua stessa probabilità d’impasse. In questa storia antichissima, invece, ancor di peggio c’è l’impossibilità (della prosecuzione) dell’esistenza, quella che il filosofo chiama disperazione. Ed è una sottile, contenuta, mai esplosiva ma profonda disperazione a caratterizzare l’ultimo spettacolo di Marta Cuscunà, Il canto della caduta, ispirato al mito ladino del Regno di Fanes.
In questo tempo oramai lontanissimo erano le donne a governare e la pace dominava tranquille e fertili vite. La prosperità fu interrotta dalla venuta di un sovrano il quale volle imporsi con la forza, uccidendo, d’intesa con il di lei padre, l’erede al trono, Dolasilla. Da allora, con l’affermazione del dominio maschile, guerre e devastazioni presero il posto della bellezza, nel Regno di Fanes. Solo alcuni bambini sopravvissero, eternizzati temporalmente e rimasti, nei secoli, infanti, ma condannati a vivere nel silenzio e nell’umida oscurità, sotto strati di rocce e di terreno, impossibilitati a uscire, onde rischiare di essere fisicamente eliminati dalle armi dell’esercito del re. Eppure, c’è di sicuro un messaggio di speranza nella cruda opera della Cuscunà, che ella ripone in questi due bambini i quali attendono il ritorno dell’età aurea della pace matriarcale. Tale speranza, probabilmente, li tiene in vita, pur tra i morsi della fame, il dolore dell’invisibilità e i tetri sotterranei cui sono condannati a vivere.
Il mondo, dopo la fine del Regno delle donne, diventa infatti scuro, spettrale: i corvi lo dominano, mangiando i corpi di chi viene ucciso dal nuovo esercito, la vita in superficie non è altro che devastazione e guerra.
La Cuscunà, da sola sul palco per tutto il tempo, dà voce ai quattro corvi che fungono da voci narranti e che presentano dunque la storia e i suoi drammatici sviluppi ed esiti, e dà voce ai due bambini eternamente sopravvissuti, muovendo inoltre con le mani le costruzioni meccanotroniche che raffigurano i corvi, nonché i due pupazzi che raffigurano i ragazzini. La capacità di impersonare sei “personaggi” diversi, di modulare sei timbri vocali differenti, passando rapidamente dall’uno all’altro e dall’una all’altra, muovendo in contemporanea o in strettissima successione le costruzioni metalliche è davvero strabiliante. E così, tra suoni freddi, immagini di natura selvaggia, brusii che esplodono in fragori, rievocazioni totemiche, rimandi alla legge originaria che impediva l’uccisione dei propri figli la Cuscunà ci fa entrare in un’atmosfera fosca e magica, e ci fa desiderare il ritorno al passato, non idealizzato, ma raccontato come necessario recupero di umanità. La Legge originaria, soprattutto, indicava la natura del potere: un esercizio di responsabilità, secondo il governo delle donne, mai di controllo degli uni sugli altri. Una potente riflessione metapolitica, insomma... una via possibile per la salvezza, oggi.
Riprendendo i paralleli filosofici, mi preme riportare come in Walter Benjamin, ad esempio, l’unica redenzione possibile sia quella offerta dalla memoria: esclusivamente serbando il ricordo delle vittime, e perciò testimoniando della loro dipartita, dell’insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze, si può interrompere il giogo del “tempo mitico” dei vincitori, ovvero la visione della Storia ufficiale che resta ancora all’ipotetico e incontrovertibile “dato di fatto” escludendo l’ambito delle “possibilità non date”.
“Anche ieri avevi paura del domani” è una frase dirompente e significativa che uno dei bambini pronuncia. Ho citato Benjamin perché propongo una rilettura non certo messianica, ma, come fa anche la Cuscunà, senz’altro escatologica e “in divenire” proprio a partire dal geniale filosofo ebreo tedesco: rileggiamo il passato, perché esso può essere la chiave del futuro, a differenza di ciò che esclusivamente, in questo mondo secolarizzato senza avere però declinato un’etica comune, vige, e vale: il presente. La categoria del presente, così com’è, priva di capacità “materna” (latu senso!), non può portare a un mondo migliore. Il nostro presente gronda sangue, gronda ingiustizia, gronda violenza. Guardare indietro a esperienze di vita armoniche, creative, di dialogo e pace, come quella originaria di questo popolo delle Dolomiti e della sua forma di governo femminile, può essere un’esperienza da riproporre e un ideale da perseguire. Un sincero ringraziamento a Marta Cuscunà, allora, perché ha smosso e può smuovere ciò che già in realtà abbiamo, nella nostra umana Storia, e che potrebbe tornarci utile; un ringraziamento perché con la sua bravura ha instillato curiosità e trasporto rispetto a un altro mondo possibile, oltre che per delle modalità teatrali, autoriali e rappresentative, di dirompente originalità.





 

Il canto della caduta
liberamente ispirato al mito di Fanes
fonti di pensiero e parole Kläre French-Wieser, Carol Gilligan, Ulrike Kindle, Giuliana Musso, Heinrich von Kleist, Christa Wolf
di e con Marta Cuscunà
progettazione e realizzazione animatronica Paola Villani
assistente alla regia Marco Rogante
progettazione video Andrea Pizzalis
lighting design Claudio “Poldo” Parrino
partitura vocale Francesca Della Monica
sound design Michele Braga
esecuzione dal vivo luci, audio e video Marco Rogante
costruzioni metalliche Righi Franco Srl
assistente alla realizzazione animatronica Filippo Raschi
collaborazione al progetto Giacomo Raffaelli
foto di scena Daniele Borghello
coproduzione Centrale Fies, CSS Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Torino, São Luiz Teatro Municipal | Lisbona
in collaborazione con Teatro Stabile di Bolzano, A Tarumba Teatro de Marionetas | Lisbona
con il contributo di Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale”
lingua italiano
durata 1h
Bologna, Arena del Sole, 12 Marzo 2019
in scena 12 marzo 2019 (data unica)

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