“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 08 February 2019 00:00

La Scalogna di Emma Dante

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Osceno è ciò che mette fine a ogni specchio,
 ogni sguardo, a ogni immagine.
Osceno è ciò che pone termine a ogni
rappresentazione.
(Antonio Neiwiller) 

 

La vostra libertà è conoscere che ogni meta di
vittoria, ogni aspettazione d'applauso è servile.
La vostra bellezza non si vergogna degli abbasso
né degli sputi.
(Elsa Morante) 

 

Che cos'è? O, non vi vergognate? Avete paura e
vorreste farne?
(Luigi Pirandello) 

 

Un attore a volte è una specie di bestia squartata, di
carne da macello nella quale tutti mettono le mani.
(Danio Manfredini)

 

 

 

 

Quando il carretto dei comici, con su la Compagnia della Contessa, raggiunge le falde della montagna e accosta la Villa della Scalogna alle spalle non si lascia solo la fatica del tragitto compiuto, i chilometri fatti in salita, una vallata d'erba e di spighe tagliata di netto: alle spalle si lascia il teatro.

Alle spalle la Compagnia della Contessa si lascia – del teatro – le miserie e gli impegni, i contratti firmati e disdetti con le imprese di produzione e i camerini, le poltrone e i palchetti, le sale di stucco, le date di replica, i biglietti venduti, gli incassi mancati, la povertà delle tasche, il cumulo degli applausi e lo scroscio dei fischi. Si lascia alle spalle la stalla o la stazione nella quale gli attori hanno dormito, tutti assieme: respirando la polvere, scansando le ragnatele; si lascia alle spalle la fame, accumulata nei giorni passati a sfiorare locande senza mai entrarvi; si lascia alle spalle tutta questa stanchezza, dovuta alle rappresentazioni, certo, e al montaggio, lo smontaggio, l'ennesimo pezzo di viaggio. La compagnia della Contessa si lascia alle spalle i giorni sciupati a recitare – nei palazzi di marmo, nelle baracche di legno, sui grandi e piccoli assiti di città o di provincia, talvolta in piazza – e si lascia alle spalle i costumi sgargianti e le grandi scenografie, roba meravigliosa, “spettacolosa” dice Cromo, roba finora mai vista in Italia e che adesso giace, assieme ai fari di scena, sul fondo del carro: di lato alla paglia, infilata in qualche sacco di iuta. La Compagnia – accostando la Villa della Scalogna – del teatro si lascia alle spalle anche il pubblico, che l'ultimo titolo rappresentato (La favola del figlio cambiato) lo ha frainteso e detestato, e i critici, che della Favola non hanno capito niente (non hanno compreso che nasce da un lutto, che per base ha lo strazio e la morte, che si tratta non di uno spettacolo ma di un doloroso atto di memoria); critici ai quali – soloni ignoranti – sembra quasi tu ti debba vendere per ottenere “una buona scrittura”, “una sudicia lode”, un misero trafiletto di quindici righe piazzato a pagina trenta, quarantatré o cinquantuno del giornale. Che vadano alla malora pure loro.
Qui alla Villa – dirà Cotrone, parlando da teatrante ai teatranti – di tutto questo non c'è traccia.
Qui potete pranzare e cenare – la cucina, per quanto modesta, è a vostra disposizione – e potete riposare – la Villa è ampia, ci sono camere in abbondanza –, qui, se volete, potete provare e riprovare la vostra Favola, rimetterla in scena in modo uguale o diverso, qui potete studiare, vedere, trovare. Qui potete ricercare. Qui, in questo luogo teatrale che tuttavia è un altrove rispetto alla quotidianità industrializzata e calendarizzata del teatro (quasi ne sta agli orli, così come chi recita sta agli orli della vita), potete prendervi il vostro tempo – tutto il tempo che vi occorre – e far sudare i vostri corpi, più di quanto non abbiano già sudato nel trascinare il carro sul quale siete giunti; qui potete fermentare le vostre idee, i vostri sogni, gli incubi, i pensieri improvvisi, alcuni abbagli, i vostri orrori; qui potete rimettere in sesto qualche vecchio pezzo di scena, un po' di repertorio, o improvvisare neo-versi di poesia; qui potete urlare, correre, ubriacarvi, giocare, sbagliare, abbracciarvi a brutto muso, spaventarvi ed essere spaventati (da voi stessi e dagli altri), qui potete pronunciare parole in lingua italiana, frasi in dialetto o inventare un lessico vostro, una grammatica nuova, un vocabolario mai scritto da alcuno; qui potete emettere versi animaleschi, senza che qualcuno ne rida o si chieda “perché? Ma che fa? Che significa?”; qui potete imparare ad ascoltare i discorsi fatti dal silenzio, riconoscere i rumori degli ingranaggi della scena, percepire lo scricchiolio delle ossa durante un esercizio; qui potete fare la conta dei vostri morti e i conti coi vostri ricordi: entrambi, morti e ricordi, momentaneamente sopiti nell'oblio ma destinati prima o poi a riemergere per dirvi chi foste, “chi fummo”. 
Ecco, dice Cotrone ai componenti della Compagnia della Contessa, date un'occhiata. Qui abbiamo un arsenale delle apparizioni, così lo chiamiamo – così lo chiamerete anche voi durante quest'opera di Pirandello intitolata I giganti della montagna – in cui c'è tutto il superfluo che vi occorre: birilli, brocche, stracci, stoffe, corde, mantelli, fuochi d'artificio, vestiti e scarpe, spille da balia, cofanetti, carillon, cappe e spade, bambole e fantocci; non basta: qui possiamo fare della parete uno sfondo illuminato, possiamo far volare alla bisogna lamine di luce perché sembrino lucciole verdastre, qui possiamo segare il nero con un taglio di bianco livido com'è livida la più livida tra le lune; qui – se serve – possiamo emettere un filo di suono o far risentire la voce di chi non c'è più, qui possiamo trasmettere una musica, se avete voglia di danzare. Qui – nella nostra Villa –  una donna può stare “nuda”, dice proprio “nuda” Cotrone, senza provarne nessuna “vergogna”; qui – nella nostra Villa, aggiunge Cotrone – potete fare di voi delle “bestie”, dice proprio “bestie” Cotrone, dimettendovi (e cioè spogliandovi) da tutto: “Decoro, onore, dignità, virtù; cose che le bestie, per grazia di dio, ignorano”, libere come sono “da questi impacci” e – così facendo, spiega – vedrete i vostri corpi diventare come “fantasmi”, usa proprio la parola “fantasmi” Cotrone, di più: potete richiamarli agli occhi i fantasmi o emetterli come dalla pelle, insomma vi sembrerà di vederli: per un'ora, cinque minuti, questo pomeriggio, domani sera, all'improvviso e poi forse mai più. Li farete uscire fuori da voi, dice ancora Cotrone e dice che – qui, alla Villa della Scalogna, e lavorando in questo modo ovvero stimolando i sensi e “le caverne dell'istinto”, offrendosi come campi di battaglia, investendo con la fantasia gli oggetti che cadono “a comando” dagli orli distaccati della sala e improvvisando una scena, tenendo e disfacendo il ritmo, imparando a stare in compagnia della propria solitudine, correndo o retrocedendo in gruppo o da soli, tramutando il proprio corpo da “tenebra e pietra” in qualcosa di molle, incerto e friabile, “rovesciando sulle cose la meraviglia” – capita che un attore (ri)conosca meglio se stesso, capita che comprenda quali parole vorrà pronunciare domani, che si dica “le verità che la coscienza rifiuta”, che scavi fino a intravedere “tutto l'infinito che è negli uomini”.
“Sciogliete i calzari e deponete il bordone”, “come si diceva un tempo ai pellegrini”, afferma quindi Cotrone guardando occhi negli occhi i membri della Compagnia della Contessa; “siete arrivati alla vostra meta”, restate qui.

 

 

In un saggio intitolato Emma la vastasa e contenuto in Palermo dentro, libro curato da Andrea Porcheddu e pubblicato da Zona Editrice, Goffredo Fofi scrive che “ci sono due Emma Dante”, che la “prima è l'Emma regista” mentre la seconda è la “poetessa straziante”, che in scena compone opere di “barocca cupezza” come mPalermu, Carnezzeria, Vita mia. Tuttavia Fofi sbaglia e sbaglia non tanto perché definisce Emma Dante come Emma Dante non definirebbe mai se stessa (“una regista”: “Io non sono una regista vera”, che “si mette a tavolino e studia il copione” dice infatti la Dante dialogando con Porcheddu nel libro) ma sbaglia invece perché dimentica che c'è una terza Emma Dante di cui si sa poco, pochissimo, quasi nulla – se si esclude il cumulo di dicerie, di episodi veri o presunti, di “mi hanno detto...” che abbondano sul suo conto; c'è insomma questa terza Emma Dante che, fino ad ora – per quanto io ne sappia – ha descritto solo una persona, Patrizia Bologna, in un saggio intitolato Verso Purgatorio e contenuto proprio in Palermo dentro.
“Una sala buia. Qualche raggio di sole filtra attraverso le imposte. Una musica in sottofondo: Sei bellissima di Loredana Bertè. Il rumore, cadenzato e perfetto, dei piedi nudi sul parquet. Una ventina di corpi che camminano ordinatamente, avanti e indietro. Afa, sudore, carne. Aria malsana, chiusa, calda, irrespirabile. La claustrofobia e la liquorosità delle percezioni dà alla testa”. Ed Emma Dante? Altrove, in silenzio, in penombra, presente ma come assente. “Tutto pare dinamico ma allo stesso tempo immobile” scrive Patrizia Bologna; è “una situazione che potrebbe scoppiare all'improvviso o proseguire in eterno”. Finché. Finché – dall'altrove in cui si è nascosta: il fondo della sala, ad esempio, o lo spazio oltrequinte, o come dalla graticcia – giunge un urlo “primitivo e viscerale”, spesso e materico come fosse qualcosa, che stupra lo spazio e s'impone al gruppo di attori, costringendoli alla variazione, al cambiamento, a un prossimo step.
Questa Emma Dante è l'Emma Dante che ha usato e disfatto la schiera di Gabriele Vacis facendone non più una camminata svolta solo in avanti e indietro ma anche in orizzontale e in diagonale; è l'Emma Dante che impone agli attori l'esercizio della “palla pazza”, che ha insegnato loro a riscaldarsi con “il pilastro” (un attore sta al centro e compie un movimento; tutti gli altri, in cerchio, lo ripetono), che lascia che in assito accada “la rissa”; è l'Emma Dante – questa terza Emma Dante – che fa del training “un allenamento faticoso e spossante”, non finalizzato “al concepimento di una coreografia” ma votato piuttosto “alla composizione di gesti riconoscibili, precisi e ripetibili” senza che – tra un gesto ed un altro – vi sia mai uno stacco. Dunque. Il ritmo, la corsa compiuta in circolo, l'andatura da plotone militare, l'improvvisazione individuale e il disordine scaturito dall'ordine, una camminata fatta insieme o da soli, un pezzo di teatro – magari un pezzo di teatro già vissuto – e di nuovo la cura del ritmo, la ripetizione di un gesto, “un impedimento”, poi un altro e un altro impedimento ancora poiché – racconta Patrizia Bologna – “Emma inserisce di continuo dei paletti per aiutare gli attori a caratterizzare” il lavoro, la loro presenza, il prossimo sforzo. “Adesso c'è vento e fate fatica ad andare avanti”. “Camminate come aveste una scarpa slacciata”. “Alzate il braccio all'ottavo passo”. “Sentite suonare un carillon”. “C'è pioggia, il pavimento è bagnato e voi scivolate”. L'acqua e la spugna, quindi, e gli stracci e le scope, una bambola, il rumore degli spari, vecchi abiti gettati da chissà chi in un cassonetto e adesso da noi riutilizzati, una vecchia foto dei nonni, geografie inventate, catene, chiodi e martelli, una corda e le urla – spietate, spaventose, crudeli – e un comando, un insulto, un disturbo, un suggerimento, un “impedimento” di nuovo: tutto viene introdotto dagli orli della sala perché gli attori reagiscano investendo queste cose di “meraviglia”, certo, e perché – parafrasando l'Amleto – non si accontentino di ciò che sono ma scovino quel che potrebbero essere.
D'altronde.
“La volontà di Emma Dante” (oltre le finalità di un seminario, al di là di quale sarà il prossimo spettacolo da mettere in scena) “è far sì che gli attori-laboratoristi raggiungano quella totale mancanza di psicologia, perseguibile solo attraverso un annullamento del giudizio, l'assenza di vergogna” di cui – non a caso – spesso parlano gli attori che fanno parte o hanno fatto parte della Compagnia Sud Costa Occidentale. Si tratta, spiega ancora Patrizia Bologna, di “un'assenza di vergogna” che “non è facile da ottenere” poiché di solito “si vive di psicologia, ci si guarda vivere, ci si giudica continuamente e perdere queste sovrastrutture non è semplice” ma è “proprio questo che Emma vuole, anela, desidera, pretende”: vuole, anela, desidera, pretende “la perdita della ragione”; “la magia che nasce dall'assenza di uno sguardo” giudicante “sulla vita”; “il senso di ridicolo che si origina dalla mancanza di psicologia”; Emma Dante vuole, anela, desidera e pretende – direbbe Cotrone – che i suoi attori si dimettano (cioè si spoglino) dal decoro, dall'onore, dalla dignità e dalla virtù facendo di se stessi delle “bestie” così da mutare, annullata ogni possibilità di imbarazzo, il proprio corpo da cosa fissa e oscura, “tenebra e pietra”, in qualcos'altro che sia variabile, momentaneo, puramente istintuale, (ri)produttivo: ma (ri)produttivo di cosa? Li chiama “fantasmini” Emma Dante – sì, usa la parola “fantasmini” così come Cotrone usa la parola “fantasmi” – che sono, proprio come quelli de I giganti, “esseri”, “creature”, “ectoplasmi” che ti vengono agli occhi, che ti spuntano fuori come dall'epidermide, che ti appartengono – “sono una presenza che l'attore ha dentro di sé” – e con i quali adesso fai i conti. Questo gesto, un verso o una voce, un ricordo, i miei morti: “Le verità che la coscienza rifiuta”, per riutilizzare la frase di Cotrone; “quello che fummo” per dirla con le parole della Contessa.
Questo, mi sembra, espone Bestie di scena. Espone non tanto la relazione tra l'Uomo ed il Mondo (gli attori, che sono degli Adamo ed Eva nati o giunti sul palco nudo), al cospetto di un Dio muto, immobile e ferocemente curioso (il pubblico), analisi che Emma Dante ha dato di Bestie di scena in numerose interviste e che offre nel foglio di sala o manifesta via social: espone invece, per me, anche e soprattutto l'arsenale delle apparizioni della Dante, le tracce rimaste ed emergenti di quell'Animali da palcoscenico ("lo spettacolo sugli attori del mio teatro") che è stato il punto di partenza di Bestie di scena; espone insomma la sua Villa della Scalogna.
La espone (al cospetto di spettatori che mi paiono ossessione, obbligo, prospettiva, presente assenza scrutatrice) per circa un'ora; la espone attraverso gli sputi e gli affanni, le piogge e la sporcizia, il miracolo e lo spreco dell'acqua, gli arretramenti impauriti, i lavacri che puliscono il corpo e le luci che i corpi li accompagnano, li diafanizzano o li sgranano; espone la sua Scalogna attraverso la presenza olfattiva e invadente del sudore, il battito del piede nudo in assito, Only You dei Platters (Solo tu puoi far sembrare giusto questo mondo / Solo tu puoi rendere l'oscurità luminosa / Solo tu puoi operare in me questo mutamento) e attraverso i versi, i respiri, il furore e lo spasmo, un conteggio ad alta voce, qualche parola detta con rabbia e la scimmia de La scimia, le schiene che scivolano come ghiaccio sopra un velo d'acqua, la violenza esterna agita verso l'interno, la violenza agita da chi sta dentro verso chi sta dentro, un battito di mani ripetuto e collettivo, un ordine impartito a sfregio, il fastidio reciproco, una mano tesa verso l'altro, la protezione di gruppo, certi momenti di pausa e di calma e l'abbondanza, l'eccesso e l'immondizia, la miseria ineliminabile che caratterizza questo mestiere, la messa in pratica dello schifo – quasi fino al vomito – e l'ultimo passo di danza che faceva lento vortice di sé ne Le sorelle Macaluso, prima di allontanarsi fino a sparire; espone la sua Scalogna attraverso gli attori resi spettatori gli uni degli altri, l'impatto degli spari o dei fuochi d'artificio e la simulazione ripetuta della morte e tutta un'infilata d'immagini che compongono un'evidenza manchevole, incompleta, antirappresentativa – nata, non a caso, nei periodi di sosta, quando cioè gli attori della Compagnia Sud Costa Occidentale tornavano a Palermo lasciandosi alle spalle la tournée, l'ultimo titolo, le sale di stucco, il pubblico e gli articoli dei critici –; un'infilata d'immagini o di momenti che accadono e che in sé contempla anche le noccioline (le stesse noccioline che sgranocchiano i giganti de I giganti della montagna) e che culmina con gli attori, i veri artefici di Bestie di scena, uno accanto all'altro in proscenio: senza più alcuna protezione vergognosa dei peli, del pube, della pelle, fissi ora  in piena luce (“il tramonto per il passato, l'alba per avvenire” per citare Pirandello) e proiettati verso l'orizzonte, il fondo della sala, la prossima uscita.
Sì perché – per quanto sia necessaria la Villa, per quanto sia fondamentale l'arsenale delle apparizioni, per quanto non si possa “pensare un teatro senza sapere cosa teatro non è ma lo alimenta” direbbe Neiwiller alludendo alla vita che serve al teatro perché il teatro poi racconti la vita – Emma Dante sa, così come sa bene chi vive per il teatro, che “la poesia”, una volta trovata improvvisata o composta, non può starsene chiusa tra quattro pareti, bastante a se stessa, invisibile o sconosciuta al mondo e condivisa solo tra gli adepti ma – se vuole essere davvero “teatro” – va portata a braccio tra gli uomini, offerta agli occhi guardoni degli astanti, data in pasto ai giganti.

 

 

Infine, cos'è che Bestie di scena mi lascia?
A me, che attore non sono, lascia un rammarico, un'assenza, la consapevolezza di un vuoto, un rimpianto o un'invidia. A me che sto da quest'altra parte (la platea) e che senza pause appartengo a un mondo – a una vita – che banalizza la sacralità offrendone solo le vestigia, che affolla di parole rimbombanti il silenzio e che ingombra ogni spazio di oggetti in eccesso, che m'induce con ogni nuovo strumento a blaterare la mia opinione senza insegnarmi a prestare ascolto al racconto altrui, che alimenta di continuo il mio senso di vergogna (vergogna per i miei fallimenti, la mia povertà, i difetti del mio corpo; vergogna per ciò che non sono diventato, vergogna per quel che non sarò mai) e che riduce la ritualità alla partecipazione a un battesimo, a un matrimonio, ai fuochi di capodanno, ai pianti versati durante un funerale, quale opportunità mi resta per fermarmi e riflettere, per avere a che fare davvero con me, per tentare di scrutare l'assoluto, per scavare fino a farmi male – scorticandomi l'anima, direbbe Angelo Fiore? A parte qualche sogno, a parte un incubo ogni tanto, a parte questo svegliarmi di notte in preda a qualche pensiero rimosso che torna, senza che io l'abbia voluto, mi chiedo: dov'è, per me che non sono un attore, la Villa della Scalogna? Dov'è il mio arsenale delle apparizioni?

 

 

 



leggi anche:
Silvia Maiuri, La poetica bestiale di Emma Dante (Il Pickwick, 11 marzo 2017)





Bestie di scena
ideato e diretto da
Emma Dante
con
Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Pacciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Marta Zollet
e con
Daniela Macaluso, Gabriele Gugliara
luci
Cristian Zucaro
foto di scena
Masiar Pasquali
coproduzione
Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa, Atto Unico, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo, Festival d'Avignon
coordinamento e distribuzione
Aldo Miguel Grompone, Roma
durata
1h
Napoli, Teatro Bellini, 5 febbraio 2019
in scena
dal 5 al 10 febbraio 2019

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