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Tuesday, 16 October 2018 00:00

Ripellino: un ricordo, un frammento di chiacchiera

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Ad Angelo Maria Ripellino negli ultimi anni di vita (a causa di una malattia) la vista calò, le palpebre gli si fecero deboli, la vista friabile e incerta, sbiancò come sbianca una tenda tenue rischiarata dal sole − il mondo, all'improvviso, gli si fece di carta velina − poi tutto diventò buio: come se − senza muoversi, senza fare alcun passo − egli fosse caduto in un crepaccio, si fosse ritrovato in una grotta, qualcuno lo avesse chiuso in una antica segreta.

Così del teatro che fu, che vide e di cui scrisse per anni, di quel teatro che, nei tempi dolci e in quelli amari, egli intese come una “sorte” − “Che altro mi resta se non incantarmi dei bianchi ceroni, dei rossi tondini sulle guance e di questa irrisione di morte?” si chiese a un punto rispondendosi che altro non gli rimaneva che “Vivere sotto una ribalta, rincantucciato, bevendo le aspre luci, i riflettori di fuoco” così abbandonandosi “abbindolato a ciò che può ancora salvarmi, a questi detriti di un grande giuoco” − adesso non c'era più nulla: se non i ricordi, le memorie, qualche residuo. Delle scenografie di cui aveva annotato nei taccuini la composizione gigantesca restava solo la patina, una sfoglia; dei corpi degli attori forse il fragore di un passo − la scarpa che batte sulla pedana, la mano che afferra un oggetto − mentre le voci sì, si facevano ancora sentire, ma a frammenti, sempre più gracchianti, come graffiate dall'età che passa: simili, insomma, a quelle risentite da Krapp quando Krapp risente la sua giovinezza, quello che è stato, ciò che sta perdendo: con lentezza, definitivamente, in maniera inesorabile. 
Come faccio a vedere “teatro e ancora teatro” se i miei occhi non mi funzionano più? Così, narra chi lo conobbe e gli stette vicino, Ripellino prese a farsi depositare in poltrona − come vecchia carcassa, avrebbe detto qualche personaggio di Beckett −e, abbassando ulteriormente le palpebre, unendo dunque un sipario ulteriore al sipario già costituito dalla sua cecità, riviveva gli spettacoli con la mente, ricostruendoseli tra la retina e il cuore. La materia del teatro, la sua costituzione stracciona e artigianale non tornò mai − intendiamoci − ma una coltre di personaggi, un nugolo di storie, frammenti di trame, un arsenale di riapparizioni e di cianfrusaglie impalpabili tornò a fargli visita, ogni volta: quasi ogni giorno. Vecchie cloache rappresentate nei drammi russi e polacchi, rivedeva, e rivedeva tragedie greche ambientate in città metropolitane che non aveva mai visitato; rivedeva un Misura per misura che Squarzina rese “una torre di Babilonia” e Il padre di Strindberg, già allora interpretato da Lavia come “uno spettacolo nero, nerissimo, quasi iettatorio”. Rivedeva, impossibilitato a vedere, Ripellino. Rivedeva l'Orestea di Luca Ronconi − forse, chissà, “risentendo sulla pelle le sette ore di caldo colloso, caparbio, di untume di caldo, di tanfo di ascelle sudate, sotto pesanti tavole di afa” vissute a Spoleto, presso la Chiesa di San Nicolò − e rivedeva “il truculento donnone-canterano dall'ampia crinolina nera e dai capelli rossicci”, sulla testa due corna enormi e nelle mani il bastone da comando, che abitava La gatta Cenerentola di Roberto De Simone; rivedeva Locus Solus di Memé Perlini, a suo tempo collocato dal regista in un garage dipinto di nero, e Lumière Cinématographie di Giancarlo Sepe, che gli parve allora una messinscena non troppo riuscita, molto naif, troppo giocattolesca, ma che adesso invece lo divertiva e lo amareggiava e sembrava svelargli − con le sue canzoncine, le minuscole scene, le corse nei sacchi, le battaglie a colpi di scopa, gli inseguimenti e le cadute − la pochezza ironica dell'esistenza, di questa nostra nostra parabola che è destinata all'inciampo, all'infortunio, al dolore. Rivedeva − riascoltava, soprattutto − le urla del Marat/Sade e certi silenzi nel quale ristagnavano le battute di un Aspettando Godot, rivedeva il Re Giovanni shakesperiano di Aldo Trionfo, divenuto un ragioniere con bombetta, e il Teatro Studio di Varsavia, che invase Firenze con la sua “schiera di attori straordinari, così bravi nel rendere la losca demenza, la grinta boiesca e la fantocceria degli sterotipi” che abbonda nel teatro di Witkiewicz; rivedeva, più volte in un giorno, i romanzi di Kafka e Dostoevskij: com'erano stati inscenati, come venivano resi; rivedeva “intere stagioni di monologhi” come se la drammaturgia si fosse ridotta a una questione personale, e certi urlatori dediti ad Artaud, che di Artaud non avevano capito niente. Poi rivedeva il Giardino cechoviano (e pare che, rivedendolo, abbia pianto) e rivedeva uno Zio Vanja grazie al quale, rivolgendosi ai suoi lettori − in una recensione ormai perduta, che nessuno ricorda e nessuno legge più − scrisse: per favore, cari lettori, oh seri lettori miei, “siate buffi, siate buffi” nella vita, mi raccomando: per poi augurargli, dalle colonne del giornale, “buona notte” anche se lo avrebbero letto di mattina. 
Gli bastava questo teatro tutt'oculare? No, non gli bastava, evidentemente, come non basta a un uccellino che sta in una gabbia volare tra una bacchetta e una bacchetta. Eppure, nella pochezza di una spettacolarità ridotta a frame, visione reticolo-sentimentale, frammento nostalgico di un film del tutto personale, Ripellino trovò consolazione e, nel pieno del dispiacere per non essere più in grado di, trovò qualche motivo per sorridere e qualche ragione per commuoversi. E colori, e bellezza, e un circo di giochi a cui far finta di poter giocare ancora. 
Il teatro fu dunque e davvero, per lui, irrinunciabile. 
Così, per ricordare Ripellino stamattina − e per ricordarci che anche in tempi bui, tempi pesti e neri, nei quali la luce sembra fioca, talmente fioca da non vedersi nemmeno più − ci culliamo con una sua poesia, una delle tante che egli scrisse per il teatro. D'altronde “non sono un critico”, disse una volta a un giovane barbuto che gli rimproverava i suoi voli linguistici e le sue ricercatezze lessicali: “sono un poeta che scrive recensioni: io sono un poeta, ha capito? Legga i miei articoli come poesie e capirà...”. 
La poesia si intitola Amleto ma non è del principe di Danimarca che fa parla − forse −; forse parla del povero attore che lo interpreta, attore da compagnia scalognata, da tournée di paese, da recita vecchiatta per dirla con Gianni Celati; o forse parla di entrambi, del personaggio e dell'uomo, diventati drammaticamente un tutt'uno.
Trucco e anima assieme, insomma.
La poesia fa così (e arrivederci):

 



Con grosse calze di lana rattoppata
e con la spada di cartapesta
il principe di Danimarca, 
il capo dei guitti va errando
di villaggio in villaggio, 
per recitare sulle assi tarlate
di scene provinciali la sua parte tremante. 
Come un apostolo affamato, 
egli disputa con le ombre polverose
e intreccia contorti duelli con gli spauracchi
del disagio e della miseria. 
Che pena viaggiare su squallide panche di legno
con la luna di gesso al finestrino
e il gran freddo della notte e la testa vacillante
e la noia di un'Ofelia ciarliera, 
che ricuce gli orli del sonno con aghi di vuote parole. 
Che pena inghiottire pane e castagne, 
in compagnia di fantasmi dalla camicia stracciata, 
sorridendo alla gente che s'affolla
con le ispide lance del vituperio
a trafiggere i guitti. 
E in tanta derisione, che pena 
ritardare la vendetta e fingersi sempre più pazzo, 
mentre la Morte già tende i lacciuoli. 
Viaggia Amleto, viaggia ricoprendo
con l'urlo dei bisticci e dei monologhi
il rotolìo ed il rantolo dei treni, 
viaggia per le stazioni sudicie d'un mondo
gretto e uniforme come una carta a fiorami, 
su cui cade talvolta una macchia di vino. 

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