“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 01 October 2018 00:00

”Amunì”, migrazioni teatrali

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Palermo, inizio luglio, cronache di un viaggio, intrapreso per spostare verso sud l’asse del teatro che incontriamo e proviamo a raccontare e che, nella fattispecie, lo connota e lo arricchisce di una valenza sociale, che – beninteso – non è il solo aspetto precipuo di questa esperienza, ma solo la premessa sulla base della quale si realizza un incontro tra teatro e società, una sintesi in cui le arti della scena e la progettualità sociale s’amalgamano dando un esempio lampante di cosa voglia dire vivere, lavorare e coltivare creatività e talento insieme a chi è venuto da un’altra terra a stare sotto il nostro stesso cielo.

Incontro una Palermo inevitabilmente calda, qualcuno me l’aveva raccontata simile a Napoli... non so ravvisare all’impronta tale somiglianza nel corpo urbano della città, ma con molta maggiore contezza la ravviso in un modo molto simile di essere Sud, in quello “sporco” che insozza le strade ma non riesce a coprire la bellezza, in quel vitalismo che ti fa ancora vedere i ragazzini che giocano a pallone per strada, in quel senso dell’accoglienza che ti fa percepire lo straniero come simile e non come diverso... In questo Palermo mi preannuncia, nell’atto di accogliermi, parte di quello che vedrò ai Cantieri Culturali della Zisa, un ex complesso manifatturiero restituito alla città sotto forma di spazio polifunzionale che accoglie diverse realtà, fra le quali c’è lo Spazio Franco, messo su dalla compagnia palermitana Babel Crew, che di un locale dismesso ha fatto una casa teatrale con tutti i crismi, piantando assi di legno laddove c’era un semplice piano di calpestio, inventandosi un palco, una platea, un foyer, dando corpo e spazio a idee e progetti.
Ed è in questa casa che “abita” il progetto Amunì, del quale ci aveva parlato in un’intervista Giuseppe Provinzano un anno fa, raccontandoci del primo anno di un’esperienza nata grazie al bando del MiBACT MigrArti, finalizzato a valorizzare le esperienze artistiche che fossero in grado di coinvolgere migranti e italiani di seconda generazione e che aveva prodotto come ricaduta artistica lo spettacolo Il rispetto di una puttana, inscenato e portato in giro da una compagine attoriale composta in parte da attori professionisti, in parte da coloro che avevano risposto alla chiamata del bando.
Quest’anno Amunì ha rilanciato, puntando su un progetto artistico incentrato tutto su attori non professionisti, a cui si è data la possibilità di confrontarsi con i mestieri della scena e di assumersi le responsabilità in prima persona di un processo artistico, sotto l’egida sempre di Giuseppe Provinzano, che ha lavorato col suo gruppo di attori migranti su un suo testo già precedentemente inscenato (Volver, già vincitore del Premio Dante Cappelletti) e qui ripreso e rimesso in scena. Ma Amunì non si ferma a questo: i tre giorni ai Cantieri della Zisa sono l’occasione per dare un respiro più ampio all’intero progetto, sono un orizzonte che si amplia, affiancando al teatro il cinema e alle arti infondendo un senso speciale di comunità e condivisione, che si percepisce nel senso di aggregazione che coinvolge tutti coloro che, a vario titolo, partecipano a queste giornate
È un bel gioco di cornici concentriche quello allestito, con una storia messa in scena che affonda le radici in quel tempo in cui a migrare verso terre lontane erano gli italiani, una storia del primo Novecento, negli anni a cavallo dell’avvento del Fascismo e che viene messa in relazione con un sapiente percorso diacronico raccontato da tre film proiettati in tre giorni (sempre all’interno dei Cantieri), nel dichiarato intento di creare un filo lineare, cronologico e concettuale, sulla falsariga del viaggio che riguarda individui e generazioni, migrazioni che hanno riguardato l’Italia e che ci offrono un triplice spaccato: da Nuovomondo di Emanuele Crialese, che parla delle partenze alla volta dell’America di fine ‘800 e inizio ‘900, a Bello, onesto, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata di Luigi Zampa, in cui si racconta delle amare sorti fatte di lavoro e solitudine degli italiani emigrati verso la terra dei canguri negli anni fra i ‘60 e i ’70, per poi finire con Banat – Il viaggio, di Adriano Valerio, film dal taglio documentaristico che racconta di tempi molto più vicini al nostro presente e che esplora le nuove rotte di un’emigrazione alternativa, che dal nostro Paese va a cercare fortuna altrove (nella fattispecie in Romania). Tre film dai diversi registri espressivi e che tracciano rotte differenti in tempi che vanno dal passato lontano al vicino presente, denominatori comuni la ricerca, la speranza, l'altrove.
Volver invece prende le mosse da una piccola e misconosciuta storia siciliana, inserita in una ben più nota catastrofe, il devastante terremoto di Messina del 1908 (la più grave sciagura d’Europa per numero di morti), avvenuto nella notte del 28 dicembre; un paese del messinese, anch’esso devastato dal sisma, vide negli anni immediatamente successivi un esodo massivo dei propri abitanti alla volta soprattutto dell’Argentina, alla ricerca di una fortuna che non sempre si trovava, in una terra lontana lo spazio di un oceano in cui le note del tango coloravano la malinconia di uno stato d’animo e dalla quale molti di questi emigranti finirono per far ritorno al paese natìo durante il ventennio fascista, col nuovo regime che si prodigava per riportare a casa coloro che erano partiti, con la promessa di dar loro un ruolo partecipativo nella ricostruzione, all’ombra di un mutato scenario: “Prima gli italiani”, dirà a un tratto una battuta dello spettacolo, in ciò assimilando climi tra loro lontani nel tempo (gli anni ’30 del Novecento e questo finire degli anni ’10 del nuovo millennio), ma sinistramente assimilabili per lessico e intenti.
Nella costruzione della messinscena, improntata a una sostanziale linearità narrativa, si riscontrano – come a voler sottolineare un’intersezione anche visuale oltre che concettuale – richiami anche estetici in particolare al film di Crialese, una delle cui immagini finisce per somigliare al quadro di fondo di Volver con i personaggi allineati. Inoltre, a evocare la malinconia di una condizione di estraneità, nel proprio campionario d’immagini lo spettacolo continuamente rimanda all’idea del viaggio (valgano a questo le scarpe sparpagliate sulla scena, l’uso di un modellino di nave a simboleggiare la traversata transoceanica), un’idea insita in quello stesso verbo che casualmente è anche il titolo di un famoso tango, Volver, che in spagnolo vuol dire “ritorno”; e un’idea, quella del viaggio, del movimento, che in senso ancor più ampio e peculiare si condensa nel nome dell’intero progetto, in quell’”Amunì” che suona a un tempo come esortazione e come istinto motorio ad andare, a mettersi in cammino, a darsi da fare.
Ed è uno spettacolo, Volver, che affrontando queste tematiche di migrazione sedimentate nel tempo, le riconduce – come già accennato – all’oggi, in questo presente in cui la politica mostra di comprendere davvero poco delle dinamiche migratorie, ma soprattutto mostra una incapacità e un’ignoranza (mancanza di conoscenza, che spesso si fonde anche con la grettezza) totale di cosa sia davvero il fenomeno dell’immigrazione. Verrebbe voglia, mentre sono a Palermo (e anche una volta venutone via), di dire a questi signori che svuotano di senso ciò che è umano, di provare a immergersi, come abbiamo fatto noi per quattro giorni, in una realtà che conoscono solo da lontano e per sentito dire, per toccare con mano e comprendere cosa voglia dire la parola “assimilazione”; perché a Palermo, per quel che mi è stato dato modo di vedere, siamo un passo oltre l’integrazione, falso problema che non si pone, perché quello che si vede in giro per le strade – e con ancora maggiore evidenza a Spazio Franco e nelle sue pertinenze – è uno spaccato di società facilmente multietnica e multiculturale, all’interno della quale i suoni (e perché no, anche i sapori) della tradizione locale si aggiungono e si coniugano con lingue e gusti venuti da lontano a far mescola positiva, melange che è arricchimento.
Esempio virtuoso di come il teatro d’arte possa avere una valenza sociale, senza che questo vada a detrimento del progetto artistico, il Progetto Amunì, così come l’abbiamo visto, appare come un modello da seguire e perseguire. Alla resa scenica dello spettacolo – visto in due repliche e in una prova generale, il che ha consentito di valutarne con maggiore cura sfumature e dettagli, pregi e difetti – non vanno fatti sconti in nome dell’indulgenza, anche perché non ce n'é bisogno: più che la messinscena in sé, quello che conta è il processo formativo e creativo che ha avuto luogo; lo spettacolo, come si diceva, ha il pregio della linearità e dell’essenzialità narrativa, a cui aggiunge una buona capacità evocativa attraverso le immagini costruite, che si innervano su una scrittura agile, che sgrana gli anni lungo cui si dipana la storia con ritmo efficace e chiarezza compositiva; parimenti gli si ascrive qualche semplificazione in esubero e la stessa compagine attoriale non è di livello del tutto omogeneo. Eppure è proprio su quest’ultimo dettaglio che vale la pena soffermarsi per evidenziarne un aspetto positivo: gli attori in scena, tutti di nazioni d’origine differenti (Mali, Nigeria, Marocco, Tunisia, Sri Lanka, Bangladesh, Isole Mauritius, rosa etnica che si amplia ulteriormente se consideriamo anche gli altri che a vario titolo hanno partecipato alla lavorazione e al progetto nel suo insieme), hanno avuto la possibilità di misurarsi con un processo di apprendimento e crescita che li ha responsabilizzati e ha fatto acquisire loro un bagaglio di conoscenze che può aprirgli delle possibilità. Ciascuno di loro ha la sua storia, qualcuno di loro coltiva un’ambizione artistica, e qualcuno di loro è davvero bravo. C’è chi ha vissuto situazioni difficili, chi vorrebbe un giorno tornare nel Paese d’origine e chi invece è deciso a rimanere qui, c’è chi ha superato l’ostracismo mentale di culture d’origine vessanti e chi invece ancora vi soggiace, cercando nel teatro (e in un talento che c’è e andrebbe coltivato) una strada possibile verso l’autodeterminazione. Bandiou, Alexsia, Hajar, Gian Matteo, Junaky, Bright, Andrea... li cito tutti, perché per ciascuno andrebbe spesa una parola, per come hanno interpretato la possibilità offerta da questo progetto, primo passo verso un cammino possibile, un cammino che si intraprende pronunciando la parola chiave: “Amunì”.
Si viene via da Palermo portandosi dietro una sensazione positiva, che rinfocola il senso del necessario, vieppiù in giorni in cui si sente parlare di decreti aberranti, che sviliscono il valore della solidarietà sociale in nome di un malinteso senso della legalità e si nascondono dietro pedestri orpelli che balterano di sicurezza. Alla luce di ciò viene da chiedersi – e pare quasi domanda retorica – che fine farà il Bando MigrArti. Le avvisaglie non sono buone e il regresso sociale monta in maniera preoccupante. Eppure basterebbe guardare alla semplice evidenza di questo progetto, fare lo sforzo di venirlo a osservare da presso, per scardinare, prima di tutto in quelle coscienze semplici (semplificate), annichilite e appiattite dalla propaganda, le idee di un’intolleranza che fa male alla coscienza umana e alla memoria storica del luogo in cui viviamo.
Forse il prossimo viaggio necessario per questo Paese dovrebbe mirare a fargli ritrovare sé stesso.



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Mentre m’apprestavo a completare, col cumulo dei miei imbarazzanti ritardi di scrittura, questo articolo su Palermo, Provinzano, i Cantieri, Spazio Franco, il bando MigrArti e tutto quel coacervo vitale di sensazioni di grande umanità coltivate all’ombra di un progetto culturale serio e strutturato, apprendevo che nottetempo “ignoti” (tra virgolette solo perché sarebbe più giusto chiamarli carogne) trafugavano da Spazio Franco attrezzature, costumi, riserve del bar e tutto ciò che potesse avere un minimo valore.
L’amarezza e la rabbia sono le sensazioni del momento che non si può non provare; ma a esse si aggiungono considerazioni – altrettanto amare, altrettanto rabbiose – su quanto crudele e vigliacco sia andare a sabotare qualcosa che è più di una semplice iniziativa culturale. Quello che fatti come quello di quella notte vanno a colpire è un’idea di speranza a cui, oggi più che mai, è necessario attaccarsi. Certo, le idee non vengono scalfite, ma la capacità di resistenza viene messa a dura prova, la voglia di tenere duro può vacillare. Per questa – e per tutte le altre ragioni che hanno fornito sostanza a questo articolo, esprimo, a nome mio e della nostra Testata tutta la solidarietà e la vicinanza possibile a Spazio Franco, a Giuseppe Provinzano e a tutti coloro che fanno (e faranno) sì che questo progetto prosegua con la forza pulita delle idee e dei valori di comunità di cui ci ha mostrato d’essere sano portatore.




leggi anche:
Luca Lotano, Volver, ritornare in Sicilia. Spettatori Migranti intervista Giuseppe Provinzano (Teatro e Critica, 22 luglio 2018)




Progetto Amunì
Volver
scritto e diretto da Giuseppe Provinzano
con Bandiougou Diawara, Alexsia Edman, Hajar Lahman, Gian Matteo Marie, Junaky Md Abdur, Bright Onyesue, Andrea Sapienza
laboratorio permanente Amunì Marta Bevilacqua, Rossella Guarneri, Yousif Jaralla, Giuseppe Provinzano, Luigi Rausa
scenografia Juan Pablo Crichton Subercaseaux
luci Gabriele Gugliara
diario di bordo Emilia Esini per Maghweb
laboratorio musicale Maurizio Maiorana
laboratorio tanguero Maura Laudicina, Sadate Djiram
organizzazione Agnese Gugliara
comunicazione Silvia Maiuri
coordinamento Diana Turdo
video Giuseppe Galante
foto e grafica Nayeli Salas
produzione Babel Crew, Progetto vincitore Bando MigrArti 2018
lingua italiano
durata 1h 10’
Palermo, Cantieri Culturali della Zisa – Spazio Franco, 5 e 6 luglio 2018
in scena 5 e 6 luglio 2018

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