“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 September 2018 00:00

Kore'eda celebra la poetica dei perdenti

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Il film Un affare di famiglia è l’ultimo sforzo artistico del regista giapponese Hirokazu Kore’eda, esploso in questa decade grazie a film come Little SisterFather and Son, Ritratto di famiglia con tempesta. Quest’opera, però, è proprio per definizione speciale, perché gli è valsa la Palma d’Oro a Cannes la scorsa primavera. Si potrebbe dire che tale riconoscimento sia − anche − un coronamento per quanto di buono ha fatto vedere con i film sopra citati.

Come evincibile da tutti i titoli riportati, nell’età adulta (Kore’eda è nato a Tokyo nel 1962), il tema prediletto dal regista giapponese è quello della famiglia, argomento molto difficile da affrontare per le implicazioni forti che quasi sempre connotano la vita, le potenzialità, l’equilibrio e la felicità delle persone, e perché può scadere in una ovvia banalità rappresentativa, fatta di cliché, di rapporti scontati, di attese e pretese costringenti, di tradizionalismo pesante e grigio. La maestria di Kore’eda, invece, sta proprio nel rendere interessante un argomento comune e trito e ritrito non soltanto dalla psicologia, ma dalla letteratura, dal teatro, dal cinema stesso. E così, vuoi per le sostanziali differenze culturali e etiche esistenti tra il Sol Levante e il nostro Sol oramai dormiente che rendono l’alterità interessante per specificità ignota e inattesa, vuoi per la sua grande capacità di rappresentare le piccole cose delle relazioni affettive, di trovare dolcezza dove prevalgono indifferenza o brutalità, di offrire leggerezza e delicatezza anche se vi è disagio socio-economico o esistenziale, i suoi film risultano attraenti e consolatori.
La storia è ambientata a Tokyo, in una periferia che sembra rincorrere l’Occidente, con i suoi palazzi alti e impersonali. La famiglia del film, creatasi un po’ per caso, un po’ per scelta di sopravvivenza, vive invece in una casetta bassa, piccola, disordinata e molto umile, con un micro-giardino, chiusa tra palazzoni. Da fuori, sembra fatiscente e soffocata. Dentro, invece, la semplicità e il calore le danno vita e gioia. E così, nonostante Tokyo sia una megalopoli, e nonostante sia una delle città più tecnologiche e veloci al mondo − la mia sensazione, quando vi andai, fu che era bella, col cuore inesplorato e solitaria −, vi è un tempo lento, in quella abitazione, l’unico tempo in cui può crescere e respirare il sentimento. Shota e la sua compagna vivono con “la sorella” di lei, un’anziana, “la nonna” (nonna vera della sorella) e un bambino, chiamato Shota anch’egli. “il figlio”, dedito a furti vari, ben istruito da Shota senior. Shota jr ricorda un po’ − trasposto in Estremo Oriente, quasi sessant’anni dopo − Antoine Doinel del mitico film I quattrocento colpi, ma qui l’attività illecita avviene spesso insieme al “padre”, su sua richiesta, per motivi attinenti alla sopravvivenza e in uno stato d’animo sereno. La famiglia s’arrangia con lavoretti che non le consentono, però, una vita dignitosa e priva di pensieri. La nonna li aiuta con la pensione (in qualche modo “estorta” al suo ex marito morto), Shota jr con quello che riesce a portare a casa dai supermercati e negozietti vari. Un giorno, padre e figlio portano a casa una bambina di cinque anni, che vedono sempre sola e silenziosa su un balcone di un appartamento vicino casa loro. Intuiscono che qualcosa non va: la bimba infatti viene maltrattata e picchiata dai genitori (una famiglia apparentemente impeccabile e di certo borghese). Shota e famiglia la tengono con loro, nella loro dimora e la bimba riacquista la parola e il sorriso. Così, in barba alla legge e alla morale comune, la famiglia si allarga.
Tutto procede bene, con felicità che traspare dai piccoli gesti pieni di serenità e soddisfazione di tutti i membri della famiglia, finché un incidente occorso a Shota jr. non fa svelare le irregolarità normative, la sottrazione di minore della bimba (e anche di Shota jr, trovato dalla coppia alcuni prima − come si apprende − all’interno di un’automobile in un parcheggio), la tumulazione della nonna (nel frattempo morta) nell’umile dimora senza che ne fosse stata dichiarata la morte, per poter continuare gli altri a ritirare l’assegno mensile... tutti atti vietati, illeciti, senz’altro. Ma il calore dato a due bambini altrimenti affettivamente abbandonati e/o violati e il bene che permea le loro vite d’incanto finisce, e non è più ricomponibile, non è più presente, dopo che il giocattolo si è rotto, né nelle vite degli adulti, responsabili e colpevoli, né in quelle, tornate tristi, dei due bambini, separati da coloro che realmente, naturalmente − a dispetto dell’assenza del dato naturale − sono (stati) i loro genitori. La legge e l’etica spezzano un sogno grezzo, inconsulto, vietato, ma romantico e potente. La scena della gita al mare di tutta la famiglia al completo è commovente e riassume l’anima della bellezza di questo film lento e perciò d’amore.
Se fosse un musicista, un cantautore, Kore’eda sarebbe De André, perché egli assolve i reati e le violazioni in nome della necessità esistenziale e del sentimento che nasce tra le persone, non di quello scontato, dato dal legame di sangue e dagli obblighi morali e pratici che da esso conseguono e che spesso vengono chiamati, in maniera impropria, affetto.
Un importante insegnamento, una spinta alla riflessione su quali siano davvero i rapporti umani che valgono, sulla dignità e grandezza di relazioni extra-sanguinee ed extra-legittime, un messaggio di apertura, e, soprattutto, il velato ma chiaro suggerimento di non giudicare l’amore degli altri, perché dietro una visione canonica e una presunzione di correttezza ci può essere invece incapacità d’amore. Di contro, atipicità incomprese e in apparenza claudicanti possono essere splendide e ricche realtà. Kore’eda, con questo film, ci ha fatto un dono grande.

 




Un affare di famiglia (Manbiki kazoku)
regia
Hirokazu Kore'eda
con Kirin Kiki, Lily Franky, Sôsuke Ikematsu, Akira Emoto, Sakura Andô, Mayu Matsuoka, Jyo Kairi, Miyu Sasaki, Chizuro Ikewaki, Moemi Katayama, Kengo Kora, Yoko Moriguchi, Naoto Ogata, Yuki Yamada
fotografia Ryūto Kondō
musiche Haruomi Hosono
produzione AOI Promotion, Fuji Television Network, GAGA

distribuzione Bim
paese Giappone
lingua originale giapponese
colore a colori
anno 2018
durata 121 min.

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