“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 06 July 2018 00:00

Shakespeare, Donnellan e il vuoto

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Lui dice che non se ne può più, che adesso basta, che è giunta l'ora di fare pulizia e chiarezza: dice che bisogna smetterla con questi spettacoli che piazzano sul palco “l'Asia da una parte e l'Africa dall'altra” costringendo l'attore “a dire sempre dove si trova: altrimenti non si riesce a seguire la vicenda”.

E non se ne può più, dice, di spettacoli in cui “tre dame stanno raccogliendo fiori” – e allora siamo in un giardino – mentre “un momento dopo abbiamo la notizia di un naufragio” e non se ne può più, aggiunge, di autori che ci invitano a credere che dove un minuto fa c'era un balcone adesso c'è una caverna “con dentro un mostro orrendo che sputa fuoco e fiamme”, un crepaccio, una scogliera, una sala da ballo o chissà cos'altro. E non se ne può più – dice lui – di spettacoli in cui dobbiamo moltiplicare per mille il solo attore in scena per figurarci la presenza di due eserciti o in cui dobbiamo fare finta di sentire il battito degli zoccoli dei cavalli per immaginare che si alzi da terra – ma da quale terra? – la polvere dei campi di battaglia. Ma è possibile, si chiede lui, che al giorno d'oggi – in teatro, a Londra, nel 1595 – ci raccontino di due giovani che si innamorano, poi (dopo molte traversie) lei rimane incinta, dà alla luce “un bel maschietto”, quest'ultimo viene perduto, cresce, diventa un uomo “ed è pronto a generare un altro figlio” che ritroverà, sul finale, i genitori e i nonni e che – siamo davvero al ridicolo – tutto ciò avvenga “nelle due ore” di un pomeriggio passato al Globe?
“Basta” dice lui – sir Philip Sidney – con gli autori che ci invitano a sopperire con la nostra fantasia alle loro mancanze scenografiche, che di continuo ci invitano al cambio di residenza e che modificano l'ordine ritmico del tempo facendo scorrere la sabbia della clessidra a loro piacimento: con un po' di “buon senso”, dice Sidney rivolgendosi ai lettori, si capisce “quanto tutto ciò sia assurdo”.
“Basta”, ribadisce componendo la Difesa della Poesia.
Ma per fortuna la poesia la scrivono i poeti e non i saggisti così come la storia del teatro non la fanno i critici ma gli autori, gli attori e – talvolta – i registi. Così un autore, meglio: l'autore del tempo di Philip Sidney – un tizio di nome William Shakespeare, che viene soprannominato Shake-scene per la capacità di mutare le regole compositive creando cose mai viste riutilizzando cose già sentite – risponde a suo modo e, non facendosi passare la mosca per il naso, prende l'Arcadia scritta proprio da Philip Sidney, il romanzo più in voga al giorno d'oggi – Londra, 1608 – che nelle sue pagine ha tempeste, naufragi, tornei, celebrazioni pastorali, vagabondaggi, amori contrastati e interventi degli dei; al libro strappa il nome del protagonista (Pyrocles) cambiandone appena qualche lettera, lo associa alla Confessio Amantis di John Gower, un poema finto-ellenistico scritto trecento anni prima e, aggiungendovi la sua bravura, sistema e completa un testo teatrale per la compagnia del Globe, un testo a cui ha messo mano qualcun altro – forse William Rowley; forse John Heywood o John Day; forse quel balordo di George Wilkins, famoso più come tenutario di bordello che come drammaturgo; insomma: Shakespeare completa un testo cominciato da qualcuno che possiamo considerare un autore secondario, un imbratta-carte, uno “scrittore convenzionale” per dirla con Baldini.
Nasce quindi il Pericle: una mistura imbevibile per il vecchio Sidney.
Ma il Pericle nasce – perché nasconderlo? – anche e soprattutto per ragioni di cassetta e, quando scrivo “cassetta”, intendo esattamente la cassetta di legno (il box office) in cui i gestori dei teatri infilavano i guadagni di giornata. Si tratta di andare incontro ai gusti dominanti strappando spettatori alla concorrenza e in particolare a quei “falchetti” maledetti, quella “nidiata di ragazzini” che, “strillando più di tutti”, stanno “ottenendo applausi a più non posso”: “sono loro la moda adesso” – dice, nel 1600, Rosencrantz ad Amleto nell'Amleto – tant'è che i gentiluomini ormai non mettono più piede nei “teatri comuni” ovvero al Globe e nei posti come il Globe. È in atto “uno scontro di cervelli” aggiunge Guildenstern, è in atto – più concretamente – la cosiddetta “guerra dei teatri” e Shakespeare, le cui finanze dipendono da quante persone stasera pagano il biglietto, capisce che è il momento di variare il repertorio e di incrementare gli incassi riesumando, scrive Melchiori, “quei drammi di pura evasione che avevano goduto di una fuggevole popolarità nel tardo Cinquecento”, opere che con il ricorso “al sensazionale e al meraviglioso” erano in grado “di accattivarsi la parte più sprovveduta” del bacino d'utenza potenziale dei teatri. È tanto vero che nel 1607 – cioè un anno prima di mettere mano al Pericle – proprio la compagnia di William Shakespeare riprende a recitare il Mucedorus, un testo anonimo che ha in sé “elementi cavallereschi”, “contenuti grotteschi”, “intermezzi popolari” e che prevede “perfino la partecipazione di un orso e di un selvaggio”; è tanto vero che proprio il Mucedorus – e non certo il Romeo e Giulietta o il Riccardo III – viene ripubblicato diciassette volte, in altrettante edizioni differenti: a dimostrazione del suo trionfo di mercato.
Insomma: “Shakespeare sa” – ci dice Greenblatt – “che la sua carriera dipende dall'industria londinese dell'intrattenimento” e si regola di conseguenza.

 


Nel Pericle – che in un'ora e mezza concentra quattordici anni di eventi e quarantanove personaggi – abbiamo sei luoghi (Mitilene, Tiro, Tarso, Efeso, Antiochia e Pentapoli), tre naufragi, due volte i sicari in azione e abbiamo un rapimento effettuato dai pirati, la messa in scena di un lupanare, una gara tra cavalieri e abbiamo un matrimonio, il tema dell'incesto, il viaggio inteso come esperienza iniziatica e come strumento di comprensione; abbiamo un paese ridotto in povertà, partenze e arrivi di velieri, tradimenti, una distribuzione di pane agli affamati, abbandoni di cadaveri, omicidi mancati e corpi che giacciono insepolti; abbiamo conversioni religiose, l'applicazione della scienza magica, la sostituzione dei sovrani e abbiamo personaggi che assolvono a una funzione meccanico-precisa all'interno della favola, abbiamo intermezzi romanzeschi, con un narratore che otto volte appare sul palco per dirci nel frattempo come avanza la storia e abbiamo musiche, danze, un intervallo canoro e due pantomime. Abbiamo una figlia che s'innamora di uno straniero, senza chiedere il permesso a suo padre (come nell'Otello) e un padre che offre sua figlia in sposa (come ne La bisbetica domata); una coppia in cui lei programma un omicidio mentre lui risulta impaurito dalla decisione (come nel Macbeth), una selva in cui massacrare una fanciulla (come nel Tito), un regno lasciato in custodia a un governatore provvisorio (come in Misura per misura), figure popolari che per metafora discutono di etica e politica (come i becchini fanno nell'Amleto), una figlia che restituisce al padre la serenità (come nel Re Lear), un matrimonio soggetto a un indovinello (come ne Il mercante di Venezia) e abbiamo il mare messo in disordine dal vento, le spiagge come approdo di fortuna,  l'accecamento (fisico e/o morale), il ritorno dei morti in vita (pensate a Il racconto d'inverno) e lo scambio di persona, le agnizioni, il perdono, l'intercessione degli dei e il ritrovamento dei membri della famiglia (come avviene, con gradazioni differenti, in tutti i romance che scrive Shakespeare dopo aver composto il Pericle: dal Ciambellino a La tempesta).
Abbiamo quindi un re (Pericle) che scopre l'incesto tra un altro re e la sua primogenita e, per sottrarsi alla visione di tale orrore, naviga fino a naufragare su un'isola, dove conquista l'amore della bella Taisa, ottenendola in matrimonio. Ripartono felici ma durante il viaggio ecco un'altra sventura: Taisa muore, mentre partorisce Marina, e il suo corpo viene lasciato andare tra le onde (così, d'altronde, impone la legge del mare) mentre la neonata viene affidata a un terzo re, alleato di Pericle, che si premura di trattarla come fosse figlia sua. Scopriremo che Taisa non è morta e che Marina, divenuta una splendida ragazza, viene minacciata da chi dovrebbe proteggerla: rapita all'improvviso dai pirati, Marina scampa a fine sicura ma viene rinchiusa dai rapitori in un bordello dove riesce a mantenersi vergine, inducendo gli avventori all'astinenza e alla purezza. E Pericle? Intanto giace in patria: per il dispiacere ha deciso di non lavarsi, di non cambiarsi mai più d'abito e di farsi crescere barba e capelli a dismisura. Il caso – meglio: le esigenze di copione – gli permettono tuttavia di re-incontrare sua figlia e, poco dopo, di riabbracciare la moglie. La famiglia si ricompone, dunque, mentre nell'aria si percepisce una melodia celeste: che gli spettatori salutino gli attori, ora che avanzano in proscenio.
Un guazzabuglio, insomma, nel quale tuttavia è possibile riscontrare scampoli di bellezza assoluta, prodotti da uno Shakespeare che comincia a parlarci con una voce differente, incrinata dall'accumulo degli anni e nella quale si percepisce la fatica che (a tutti e dunque anche a lui) impone vivere la vita. Così, se da un lato viene facile associare la scrittura del Pericle al vecchio Lear che invita sua figlia Cordelia – nell'atto quinto, scena terza – a starsene in “questa prigione” in cui, “come uccelli in gabbia”, di nuovo “ci racconteremo le antiche favole” e le vecchie storie che si tramandando da secoli (il Pericle è infatti “un canto già cantato” – atto primo, scena prima), dall'altro lo Shakespeare più maturo sembra, coi drammi romanzeschi dell'ultimo periodo e dunque anche col Pericle, raccontarci l'utopia del mondo non com'è ma come dovrebbe essere e che – dopo essere stato ritratto a sangue nelle tragedie – si cura le ferite, ritrova l'ordine, si rimette in sesto e offre per un istante (per l'istante che precede la chiusura del sipario) l'illusione che la pace sia possibile e che gli uomini possano essere felici stando assieme.
Si tratta dello stesso sentimento – penso al valore enorme che assume la sofferenza, al desiderio di felicità e riposo, alla necessità di calma – che ritrovo nell'ultimo Kavafis, nelle cui poesie affiora la funzione lenitiva che hanno i ricordi; nell'ultimo Gleen Gould, che sente il bisogno di incidere di nuovo le Variazioni Goldberg per trovare la serenità perduta; nell'ultimo Hopper, che avanza – mano nella mano – con sua moglie, ritraendosi sull'orlo di una ribalta di teatro; nell'ultimo Čechov, che ne Il giardino dei ciliegi fa coincidere la fine con una partenza e, dunque, con un nuovo inizio, o nell'Eduardo che ci è indimenticabile, quello dal volto scavato e con l'afasia crescente in gola, che torna a recitare Natale in casa Cupiello per consegnare a tutti noi il miraggio che ha negli occhi, in petto e in testa: quello di “un presepio grande come il mondo, sul quale” scorgere “il brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si danno un da fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e una vera mucca stanno riscaldando” un Gesù Bambino che “palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato”.
C'è bisogno – insomma – di mettere in pratica il perdono, sembra dirci Shakespeare (“perdono è la parola per tutti” scriverà nel Ciambellino, due anni dopo); c'è bisogno di riconoscerci l'un l'altro, c'è bisogno anche di piangere e c'è bisogno di un abbraccio: prima che la bacchetta si spezzi e che io me ne ritorni, sospinto dagli applausi, per sempre nel retro della scena.

 

 

A destra c'è un tavolo con due sedie: fungono da sala d'attesa, il luogo nel quale si aspetta sfogliando distrattamente una copia di Marie Claire. Sulla parete di fondo, procedendo da destra verso sinistra, vediamo un lavabo con uno specchio e – tra lavabo e specchio – una mensola su cui stanno quattro bicchieri di plastica colmi d'acqua; un portasalviette messo a parete; la porta centrale, a due ante; poi un separé e un'altra sedia che anticipano l'elemento principale dell'arredo: il letto. Infine – estrema sinistra – un comodino basso con sopra una lampada e una radio da cui vengono frammenti di una trasmissione in cui si parla di letteratura moderna e antica. Nel letto, intanto, sta il degente: il corpo immobile, coperto dalle lenzuola bianche e da una coperta blu; lo sguardo nel vuoto; una flebo nell'avambraccio sinistro.
Siamo nella stanza di un ospedale e qui vedremo ripetutamente entrare e uscire, discutere e agire un medico, un paio di infermieri e tre visitatori: la moglie e la figlia del paziente e il compagno di quest'ultima.
Siamo in ospedale perché l'ospedale è il luogo nel quale Donnellan ambienta il Pericle, offrendoci l'intera trama attraverso il riutilizzo di ogni elemento in scena. Gli arredi, ad esempio: il letto funge da nave, le sedie vengono usate come confessionale, il separé diventa una parete divisoria del bordello mentre lo specchio (utilizzato dagli infermieri mentre lavano e rivestono il malato) è utile per rendere la scena in cui tre pescatori –  nel Pericle di Shakespeare – si occupano del naufrago, appena spiaggiatosi a Pantepoli. Servono a rendere la trama originaria del Pericle anche gli oggetti: la cartella clinica riporta non solo il referto medico ma anche l'indovinello a cui Pericle si sottopone per volere del re Antioco; la barella viene utilizzata come tavolo operatorio, come bara e come tomba; le stampelle diventano armi da impugnare; l'uso degli occhiali scuri permette la visita al lupanare da parte del governatore di Mitilene, Lisimaco, che – da testo – avviene “in incognito” mentre i bicchieri di plastica sono i calici con cui i cavalieri brindano dopo aver lottato tra loro, una bacinella piena d'acqua funge da tempesta, il cuscino è una neonata in fasce e la camicia di forza – che a un punto imbraca Pericle – è l'armatura ch'egli indossa durante il torneo, lo “strano arnese” (atto secondo, scena seconda) nel quale si presenta al cospetto di Taisa e di suo padre.
Ancora.
Servono a rendere la trama del Pericle pose e movimenti degli attori, che compongono una coreografia che fonde naturalezza e falsità, credibilità e ostentazione: il duello, che avviene in retroscena (perché leggendo il Pericle sappiamo che i cavalieri combattono ma il combattimento non è visibile né ci viene descritto); la resa del popolo affamato di Tarso, che si prostra a terra e si trascina, afferrando pezzi di pane a noi invisibile; Marina che canta, quand'è il momento in cui deve “mostrare il suo talento”; la mano che il medico pone sulla fronte di Pericle, quando nel testo si dice ch'egli ha “la fronte adirata”; la fissità di Marina, nel momento in cui diventa la statua che adorna il suo sepolcro; la mano destra del medico, atteggiata a saluto reale verso il popolo; le conversioni all'innocenza – dimostrate facendo prostrare gli uomini in preghiera – e il ballo tra Taisa e Pericle, che viene sessualizzato sia perché la ragazza è indotta a concedersi dal padre (“voglio vedervi sposati subito e poi, senza tante cerimonie, a letto!”) sia perché altrimenti sarebbe inspiegabile che nell'atto secondo, scena quinta, avviene il matrimonio e nell'atto terzo, scena prima – cioè due pagine dopo – la donna ha già partorito sua figlia.
Servono a rendere la trama del Pericle il colore turchese della parete di fondo, architettonicamente mossa dalle mattonelle in basso (richiamo al mare), il sonoro innescato dalla regia (lo scroscio delle onde, l'aumento della pioggia, l'incedere della tempesta), l'impiego della musica (esempi: la partitura strumentale quando il personaggio di Cerimone chiede di far “suonare qualche musica monocorde” – atto terzo, scena seconda – o i campionamenti da discoteca, quand'è giunto il momento di “sgranchirsi le gambe” e di danzare); servono a rendere la trama del Pericle la penombra e i tagli di luce bianca (il giorno), rossa (il lupanare), celeste (il viaggio in mare) che filtrano dalla parete.
Infine.
Serve a rendere la trama del Pericle il doubling attoriale organizzato per associazione per cui l'interprete di Pericle recita anche gli altri mariti della trama, l'attrice che interpreta sua moglie recita tutte le mogli, l'attrice che fa da figlia s'alterna nei ruoli di Marina e della primogenita di Antioco e all'uomo che l'accompagna toccano le figure amorali della storia (Antioco, Leonino, Boult, Lisimaco) mentre l'attrice che funge da medico rappresenta i vari “saggi” che appaiono nel Pericle (Eliano, Simonide, Cerimone, Diana) mentre gli infermieri agiscono – di volta in volta – da sicari e da pirati, da popolo di Tarso, pescatori, cavalieri e marinai. E se l'uso frequente della frontalità, l'indirizzo di alcune battute alla platea e la messa in mostra di otto fari posti a mezza altezza (quattro a destra e quattro a sinistra) servono a ribadire che siamo in un teatro, e che su questo palco è in corso uno spettacolo, quello che in definitiva conta è che Donnellan narra il Pericle alternando il presente col passato scegliendo di mostrarci l'eroe nel momento della stanchezza, della malattia, dello sfaldamento psicofisico – dopo che tutto quel che doveva accadere è già accaduto – mentre è alle prese coi ricordi, con riviviscenze allucinanti e momentanee, con improvvisi rigurgiti visivi.
Perché?
La mia idea è che il regista abbia compreso il valore di una battuta che appartiene all'atto quinto, scena prima: mentre l'eroe giace sul letto (“mettetegli un cuscino dietro la testa”) –  proprio come adesso sta il degente in ospedale – gli si mostra Diana: “segui il mio comandamento” gli dice la dea “o vivrai nel dolore”. Cosa deve fare Pericle? “Rivivi il tuo travaglio” in sogno, poi “svegliati e raccontalo”. “Ti obbedirò” le risponde e infatti è questo che avviene nel Pericle di Donnellan. Il sogno dunque si fa memoria, la memoria genera le immagini, le immagini fanno avvampare azioni che riaccadono al momento; così l'allora diventa adesso, ciò che è mi è capitato torna vivo e – attraverso il racconto – da mio diventa vostro.
Così, cioè condividendo con gli altri il proprio dolore, d'altronde guarisce l'uomo fin dai tempi in cui Diana veniva venerata ma così – aggiungo – fin dai tempi in cui Diana veniva venerata la comunità (proprio attraverso l'invenzione del teatro) prova a guarire se stessa prevedendo che, al cospetto del pubblico, un uomo che di mestiere fa l'attore avanzi e racconti una storia perché, da propria, diventi altrui: perché, ridetta da lui, diventi nostra.

 


Il Pericle di Donnellan si basa quindi su un'idea registica chiara e rigorosa, che sembra coerente con il testo di partenza; sfoggia una scenografia approntata al millimetro e usufruisce di interpreti che, attraverso una partitura di microsegni fisici e vocali (l'indice che sfiora le labbra, un bacio, un abbraccio, un balbettio, una carezza data al volto con le dita, uno schiaffo, uno sputo, l'inclinazione della schiena, uno sguardo reciproco, l'intensità di un urlo, una posa lasciva, la mano che passa un fazzoletto dietro al collo per detergersi il sudore, un dialogo che avviene mormorando dei puri suoni stando di lato) riescono a rendere carnalmente vive le figure della trama. Ma allora perché, quando il Pericle finisce, i miei applausi sono fiacchi e perché, uscendo dalla sala, mi assale un senso di insoddisfazione? E di che cosa – con tutto questo ben di dio, tanto costoso – ho sofferto oggi l'assenza?
Probabilmente ciò che mi è mancato è il vuoto e cioè quello spazio di indipendenza (più o meno ampio, a seconda delle occasioni) che il teatro di Shakespeare concede agli spettatori consentendogli di far risuonare in se stessi le parole rendendole “radianti” (per dirla con Peter Brook), di generarsi l'inconcreto, di interrogarsi sui mille sensi di una frase, di completare l'apparenza. Mi è mancato questo vuoto − che ha a che fare con la rarefazione della poesia e con l'imperfezione su cui si fonda il teatro e che, attraverso la sottrazione materiale, permette l'aggiunta dell'immateriale − e dunque mi è mancato il nero, l'oscurità assoluta dalla quale trarre il mio Pericle mentre sta avvenendo in scena il Pericle. E mi è mancato l'aldilà, il rapporto che Shakespeare sempre instaura col cielo e con la dimensione metafisica dell'esistenza (qui ridotto a qualche posa e a un monologo in proscenio), e mi è mancato il suono del silenzio (con Donnellan non c'è mai silenzio: quando non parlano gli attori s'ode il mare e, se il mare non si sente, c'è la radio che occupa l'udito) e mi è mancata la possibilità di allontanarmi da questo qui e ora e di inventarmi l'orlo ulteriore del mondo allestito adesso sul palco; mi è mancato poter vagare nell'“extra-oculare” shakespeariano (Starobinski), dov'è possibile scovare “la perturbazione e l'inquietudine, lo scarto e il supplemento”, come scrive Annamaria Morelli ne La scena della visione: quella zona (o)scena in cui, forse, stasera accade il “teatro sacro”, per tornare a Peter Brook.
Mi è mancata la possibilità di immaginare.
“Immaginare”, certo, dato che è una delle parole più usate dal narratore del Pericle: “E ora immaginate” dice, “immaginate ora Marina” ripete, “usate l'immaginazione” insiste, “con l'immaginazione considerate il palco la tolda di una nave” suggerisce, “se fate uso di immaginazione si annulla il tempo, si abbreviano le miglia e si salpa in mare dentro a una conchiglia” afferma; “immaginate” e così “colmate i vuoti della storia” torna a dire e “rivolgete la mente a”, “esercitate un po' la fantasia”, “provate a sentire”, “lo vedete?”: “Anche stavolta”, quasi ci prega infine, “lasciate che la vostra vista sia guidata dall'immaginazione”.
Ecco: come faccio a immaginare se Donnellan, invece di lacerti di mondi diversi (inventati e re-inventabili), mi propone una stanza neoverista dal cui rubinetto necessariamente deve scorrere dell'acqua perché l'intera struttura sia credibile? E come faccio a immaginare se questa stanza ha pareti che sigillano il palco come un muro sigilla un parco privato, se la stanza somiglia a un set semi-cinematografico, se il regista allestisce una scatola geometrico-frontale che mi colma la vista per intero, come faccio se innalza la parete lungo tutto l'orizzonte non permettendomi vie di fuga, deviazioni di pensiero, finanche un momento di distrazione personale? E come faccio a immaginare se lavora per completezza, per accumulo e per saturazione, come fosse intenzionato − più che a raccontarmi una storia attraverso le potenzialità infinite del verbo di Shakespeare (che “parla teatro”, per citare Cixous) − a saldare un debito contratto con gli organizzatori dandomi una quantità di prodotto oggettivo in cambio del prezzo del biglietto?
Simile a un bambino al quale si dice “C'era una volta…” per poi piazzarlo davanti allo schermo di un computer perché si guardi la versione-video della fiaba, osservando il Pericle di Donnellan non mi sono mai sentito uno spettatore shakespeariano – al quale è demandata la possibilità di completare la visione –; mi sono sentito invece come talvolta mi capita stando al cinema o davanti alla tv: ficcato nella poltrona, con lo sguardo fisso in avanti, posto in uno stato di passività e trattato, quindi, come il mero ricevente di uno spettacolo.
E così che sono privato della libertà di vedere quel che c'è oltre il vedibile.
Ne sarebbe stato contento Philip Sidney, forse. A me, invece, resta il rammarico con cui chiudo quest'articolo.

 

 


Le foto relative al
Périclès sono di ©Patrick Baldwin

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Périclès, Prince de Tyr
di
William Shakespeare
adattato dalla traduzione di François Guizot
regia Declan Donnellan
con Xavier Boiffier, Christophe Grégoire, Valentine Catzéflis, Cécile Leterme, Camille Cayol, Michelangelo Marchese, Martin Nikonoff
scene Nick Ormerod
light designer Pascal Noël
sound designer Kenan Trevien
supervisione costumi Angie Burns
vocal coach Valéerie Bezançon
assistente alla regia Marcus Roche
regista associato Michelangelo Marchese
luci Pauline Guyonnet
foto di scena Patrick Baldwin
produzione Cheek by Jowl
coproduzione The Barbican London, Les Gémeaux/Scène Nationale, Théâtre du Nord, CDN Lille
con il supporto di Jeune  Théâtre National
durata 1h 45'
lingua francese
Napoli, Teatro Politeama, 11 giugno 2018
in scena 11 e 12 giugno 2018

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