“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 28 June 2018 00:00

Dagli appunti di Eugenio Barba

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C'è una rivolta invisibile, apparentemente indolore, ma disseminata in ogni ora di lavoro, ed è questa che nutre la “tecnica”.
La disciplina artistica è la via del rifiuto. La tecnica teatrale, l'atteggiamento che essa presuppone, è un esercizio continuo della rivolta, innanzitutto contro di sé, contro le proprie idee, i propri programmi, contro l'agiatezza della propria intelligenza, del proprio sapere, della propria sensibilità. È la pratica di un disorientamento volontario e lucido alla scoperta di nuovi punti di orientamento.

La rivolta, oltre a nutrire il lavoro, ne è anche nutrita. Faccio teatro perché voglio preservare la mia libertà di rifiutare alcune delle regole e dei valori del mondo che mi circonda. Ma è vero anche il contrario, che − poiché faccio teatro − sono spinto o aiutato a rifiutarli.


Spesso la scelta di fare teatro è la risposta difficile a una situazione difficile. È un modo di vivere una libertà che è libera solo se i risultati del proprio lavoro riescono a influenzare altre persone e a trarle dalla nostra parte. È un modo di inventarsi una propria identità, che si rivela a noi attraverso un lavoro meticoloso e insieme tempestoso.
Alcuni credono che tempesta e meticolosità appartengano a due diversi compartimenti stagno, che i problemi tecnici, la professionalità e la precisione artigianale non abbiano a che vedere con la turbolenza, con gli impulsi alla libertà, alla distruzione, alla rivolta, al rifiuto. Non è vero.


Estrarre il difficile dal difficile è l'atteggiamento che definisce la pratica artistica. Ne dipendono sia l'incisività, la complessità, la densità del risultato, che i momenti di difficoltà, di pena e illuminazione, di disorientamento e di nuovi orientamenti che caratterizzano il processo. Tale atteggiamento fa la differenza fra l'organicità dell'arte e l'organizzazione delle opere quotidiane, che sono tanto migliori quanto più estraggono il facile dal difficile.


Ordine e disordine non sono due opzioni contrapposte ma due poli che coesistono e si rafforzano a vicenda. La qualità della tensione che riesce a crearsi fra di loro fornisce la misura della fertilità del processo creativo.
Quando però si cerca di descrivere questa tensione, i discorsi cominciano a zoppicare. Più aderiscono a ciò che concretamente si è sperimentato nel corso del lavoro, più risultano fantastici ed esotici a chi li ascolta. E, mentre cercano di trasmettere esperienze, rischiano l'equivoco. Per sfuggire a questi pericoli la soluzione più semplice è tacere. Altrimenti si è costretti a navigare tra Scilla e Cariddi.
Da una parte Scilla: il rischio di rettificare il percorso, trasformando l'intrico dei sentieri in una linea che corre diritta nella giusta direzione. Tutto allora appare chiaro ma non ha riscontro nella nostra esperienza. Nella realtà del lavoro la creatività si mostra come un cielo tempestoso. Viene vissuta come disorientamento, dubbio, frustazione, disagio. Essere padroni del proprio mestiere significa innanzitutto saper preparare la tempesta che ci sgomenterà. Significa sapere come resistere senza fuggire verso soluzioni facili o pre-vie. Tempesta significa anche che i problemi non si presentano uno dopo l'altro − come quando ne parliamo − ma tutti più o più d'uno contemporaneamente. Quando il mare e le onde sono solo il disegno della rotta, ogni tratto diventa comprensibile. Tutto risulta vero, ma d'una verità così astratta da sbeffeggiare l'esperienza.
Dall'altra parte Cariddi: il rischio di parlare solo di tempeste dimenticando la geometria del compasso, della bussola, del sestante che permettono la rotta. È il rischio di cadere nella cronaca, nell'aneddotica, nella confessione: il processo è mostrato come un percorso buio, confuso e casuale, come un magma che sbocca a un risultato quasi senza volerlo, non sapendo come e perché. Anche questo è un aspetto della verità, uno dei suoi profili.
Per guardare in faccia la realtà del processo artistico occorre mettere a fuoco, alternativamente, ora l'uno ora l'altro profilo.


Molte delle soluzioni che impressionano lo spettatore e contribuiscono a determinare il “significato” dello spettacolo sembrano suggerite dal caso. Ma ciò che chiamiamo “caso” è in realtà un ordine complesso, dove agiscono simultaniamente più forze, un sistema di relazioni che non si lascia esplorare con un solo colpo d'occhio. Potremmo dire che nel processo creativo bisogna essere fabbri della propria casualità, come i latini dicevano che ciascuno era fabbro della sua fortuna. Senza dimenticare quello che diceva Pasteur: “Il caso favorisce solo le menti preparate”.


Che cosa significa, tecnicamente, disorientare il percorso di lavoro? Vuol dire non tener conto solo di un obiettivo e orientarsi contemporaneamente in due, tre, quattro direzioni diverse. Come un veliero che vuol dirigersi a Occidente, mentre il vento soffia da Sud e le correnti sottomarine spingono verso Est. L'equilibrio tra queste tensioni è la rotta creativa. La tensione fra forze divergenti, contrapposte o semplicemente contigue può anche determinare la catastrofe. Ma se si riesce a domare queste forze, a scoprire il tipo di relazioni che esistono tra loro, se si riesce a farle convivere, intrecciare e comporle, invece della catastrofe si raggiunge la densità.
la densità disorenta lo spettatore, lo spinge a estrarre il difficile dal difficile, lo scuote fuori dagli schemi di pensiero che gli sono noti e costituiscono l'accampamento sicuro delle sue idee.


Durante le prove la tecnica del disorientamento consiste nel dare spazio a una molteplicità di linee, di storie, di direzioni, senza piegarle fin da subito sotto il giogo delle nostre scelte e delle nostre intenzioni. Significa seguire contemporaneamente tracce diverse, temi divergenti, associazioni sconnesse e permettere che le storie che ogni singolo attore segue ed insegue non corrispondano a quelle del regista e degli altri compagni. È un atteggiamento che stimola e genera una contiguità di materiali e proposte. È la possibilità di sperimentare un percorso labirintico tra caos e cosmos, con svolte improvvise, arresti paralizzanti, soluzioni repentine. È la crescita di una profusione che sembra oscurare, nel corso del processo, la chiarezza espositiva e narrativa. Si crea così un'apparente confusione, un campo magnetico dove le forze sono diverse per ogni singolo attore e per il regista, ma dove ognuno può trovare appigli, legami, risonanze con il tema principale o con quel nucleo di domande che costituiscono il punto di partenza. 
È la creazione di un panorama caotico con tanti fiumi sotterranei, lungo i quali ciascuno è libero di seguire la propria rotta. Questa libertà è già il seme di una drammaturgia perché, se ognuno naviga dove vuole, l'esigenza di scegliere la rotta d'insieme obbliga a trovare relazioni fra i diversi motivi personali. E tale ricerca di relazioni coerenti è già ricerca di un intreccio narrativo, di una drammaturgia coerente. 


Nella fase delle prove, in cui gli attori seguono solamente il filo personale e coerente delle loro partiture, il lavoro sulla drammaturgia dell'insieme può rimanere a lungo confuso, addirittura caotico. La confusione, quando è cercata e praticata come fine, è l'arte dell'inganno. Ciò non vuol dire che essa sia di per sé qualcosa di negativo, uno stato da evitare. Usata come mezzo, la confusione è una delle componenti di un processo creativo organico. È il momento in cui materiali, progetti, storie contigue e intenzioni diverse si con-fondono, amalgamandosi le une con le altre, divenendo l'una l'altra faccia dell'altra. Le linee intricate della rotta non vogliono dire che la rotta punti all'intrico. La profusione e la confusione dei materiali e degli indirizzi è la sola via per arrivare all'azione spoglia ed essenziale.


Quando il lavoro è quasi terminato, lui si ferma e dice che ora può davvero cominciarlo. Coloro che lo circondano mostrano stupore e incomprensione. Ma lui intanto lentamente sconvolge e distrugge quel che ha fatto fino a quel momento. Disegna altre scene e figure che si intrecciano o si sovrappongono alle precedenti e le cancellano. Prende una nuova tela e vi dipinge il quadro che ha mentalmente estratto dalle difficoltà in cui si era gettato nel dipingere la tela precedente. Era partito da una divisione dinamica e asimmetrica del rettangolo bianco, con linee che indicavano le sei direzioni dello spazio solido. Poi l'aveva popolato, aveva steso i suoi colori, aveva cancellato, colorato di nuovo, inventato nuove figure, ne aveva trasformate altre. Aveva dipinto velocemente, s'era fermato a riflettere, aveva ricominciato, aveva intravisto una soluzione e poi s'era ricreduto. Sulla tela il sole brillava in un mare azzurro. Poi aveva fatto scendere la notte e l'intera tela era diventata gradualmente nera. In questo momento si è accorto della strada giusta: “Ora posso cominciare. Tutti gli errori commessi fino a questo punto mi insegnano il quadro che debbo fare”.


Non c'è lavoro creativo senza spreco. La proporzione fra ciò che viene prodotto e ciò che alla fine sarà utilizzato deve ispirarsi alla sproporzione fra il seme che, in natura, viene disperso perché una sola cellula fecondatrice riesca a generare un individuo del regno animale o vegetale. Non c'è lavoro creativo senza spreco e non c'è spreco senza la buona qualità di ciò che si spreca.
Kipling diceva che non si impara a scrivere se non si imparara a tagliare. E che per tagliare in maniera fruttuosa occorre che i pezzi eliminati siano d'una qualità altrettanto buona degli altri. Non servirebbe a niente, cioè, scrivere pensando che quel che si scrive può anche venir buttato via. Estrarre il difficile dal difficile significa questo: creare una complessità il cui compito non è di conservarsi, ma di guidare verso scelte ulteriori e rivelarci strade alle quali non pensavamo.
Se si ragiona secondo i criteri dell'economia e del risparmio è un modo di procedere paradossale: ma è semplice buon senso se i criteri sono quelli dei mestieri artistici.


È facile leggere tempesta e meticolosità, disorientamento e confusione, turbolenza e non casuale casualità, enunciate come formule per estrarre il difficile dal difficile. È però facile immaginare come questo processo nella realtà del lavoro sia vissuto come dubbio, disagio e a volte sofferenza.
Durante le prove, quando ciò che pareva già un difficile risultato viene trattato come un punto di partenza, alcuni attori si perdono d'animo. Per l'ensamble è sempre un momento critico. A volte l'irritazione di tutti contro tutti prevale e distrugge. Eppure, anche questo è artigianato. Lavorare non solo stanca ma, a volte, fa male.


Perché dunque lavorare in un modo che può farci stare male, che può mettere a disagio o ferire me e i compagni? Per creare un'opera-in-vita, che mi appartiene, in cui mi riconosco, ma che non abbia bisogno della mia presenza per continuare a esistere nei sensi, nella memoria e nelle azioni degli altri. Per dare allo spettatore qualcosa che ricordi anche dopo che lo ha dimenticato. Per la nostalgia dell'azione spoglia ed essenziale: la goccia d'acqua che fa traboccare il vaso.



le immagini a corredo appartengono all'Odin Teatret Archives




Fondamenti del Teatro
Eugenio Barba
Il prossimo spettacolo
a cura di Mirella Schino
L'Aquila, Texsus, 1999
pp. 261; pp. 13-24

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