“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 24 May 2018 00:00

In bilico, nell'ombra. Dialogando con Enrique Vila-Matas

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Autore di libri di culto come Suicidi esemplari (Nottetempo, traduzione di Lucrezia Panunzio Cipriani) o Bartleby e compagnia (Feltrinelli, traduzione di Danilo Manera), Enrique Vila-Matas è muy barcelonés (lo dirà pure in questa nostra chiacchierata), ma è anche il tipico intellettuale apolide, praticante una letteratura che si alimenta di altra letteratura, surreale, citazionistica e leggera. Da quando la politica catalana ha conquistato le prime pagine della stampa internazionale lui esita a farsi intervistare, forse perché non ha tanta voglia di rispondere a certe domande né di avvolgersi in questa o quella bandiera.

Mesi fa l’ho incontrato a Lisbona (il Portogallo è presente in diversi suoi libri, spesso come punto di fuga ideale), dove portava una conferenza-spettacolo intitolata Bastian Schneider, nome di un “intellettuale intertestuale”, autore fittizio di testi altrui, spacciatore di citazioni per conto di un altro scrittore e autore egli stesso, ma in via di estinzione o in fase di eclissi. Vila-Matas aveva tenuto questa conferenza, la prima volta, il 28 marzo 2017 al College de France, poi nella capitale portoghese, al Teatro Nacional Dona Maria, il 25 novembre. Accanto a lui, sul palco, l’artista francese Dominique Gonzalez-Foerster, presenza discreta ma notevole, ispiratrice anche del libro Marienbad elettrico, recentemente pubblicato in Italia dall’editrice Humboldt (trad. di Elena Liverani).


EVM: "Il lavoro del mio conferenziere Bastian Schneider è quello del cercatore di citazioni letterarie. Una cosa che ha a che vedere con l’impossibilità dell’originalità. Quando diciamo di un libro che è originale, ci stiamo solo servendo di un modo di dire, appunto".


D: È una condizione tipica di questo frangente storico che abbiamo chiamato “postmoderno” oppure Omero aveva lo stesso problema?
EVM: "Certo, anche Omero! Tutto discende da un’antica narrazione orale, nulla è originale. In questo gioco, Dominique interviene nei panni di Marlene Dietrich (citata nel testo) cantando due canzoni, fra cui una scritta da me alla maniera delle canzonette leggere francesi. È la prima che scrivo in vita mia e sarà anche l’ultima, ma forse lo dico solo per dare al pubblico la sensazione di assistere a qualcosa di unico. È una canzone d’amore e di liquore, leggera sebbene sia basata su un testo di Kafka. Nella prima conferenza, al College de France, Dominique vestita da Kafka, con il suo cappello, aspettava in sala l’ingresso del pubblico. E il pubblico del College entrò, vide Kafka in sala e non ci fece caso".

D: Non dev’essere stato facile trasformare Kafka in una canzonetta leggera.
EVM: "È una canzone leggera, ma su un testo che, dall’altro lato, è anche molto profondo. Descrive un momento di felicità, con Kafka che, disteso sull’erba, dice di sentirsi un paria della terra, ma felice. La mia canzone si canta con le mani in tasca e vagheggia un ideale che è anche molto mio, quello di non avere nulla (come Antonio Machado, senza bagagli) ed essere straniero sempre, dappertutto. Lo scrittore non appartiene a nessuna formazione, a nessun esercito".

D: La leggerezza è un tema ricorrente nella sua opera. Ha scritto anche una Storia abbreviata della letteratura portatile (Feltrinelli, trad. L. Panunzio Cipriani ).
EVM: "È tema anche del mio ultimo libro, Mac y su contratiempo (ndr: dovrebbe uscire da Feltrinelli quest’anno, traduzione di Elena Liverani), ma gioca sempre con la profondità. È un rischio che accetto di correre, quello di essere scambiato per leggero, anche se la mia è una leggerezza che può essere profonda. Mi piace quella scena de La signora della porta accanto, di Truffaut, in cui Fanny Ardant dice che la canzoni più stupide sono le più vere».

D: A proposito di canzoni, Un’aria da Dylan (Feltrinelli, trad. Elena Liverani) parlava di Bob Dylan prima che vincesse il Nobel. Dove va la letteratura dopo questo riconoscimento alla canzone?
EVM: "Quando gli hanno dato il premio non ho detto niente, perché ero combattuto tra due sentimenti diversi: da una parte considero Dylan un genio; dall’altra, quando ho saputo la notizia dalla Tv, ho visto che tutto era banalizzato al massimo e il primo pensiero è stato che avessero premiato un poeta minore, facendo un affronto ad altri poeti americani come John Ashbery".

D: I suoi libri sono pieni di scrittori che aspirano fatalmente al fallimento e alla scomparsa. Però portare la scrittura in teatro è un modo in più per esporsi. È una contraddizione.
EVM: "Sono contraddizioni che fanno parte del nostro essere. Walt Whitman diceva: mi contraddico? Sì, e allora?"

D: Ma è meglio o no, per la scrittura, lasciare lo scrittore in ombra o addirittura nell’anonimato, facendo una scelta che oggi in Italia diremmo “ferrantiana” (da Elena Ferrante)?
EVM: "Io sin dall’inizio ho commesso l’errore di fare in modo che mi si conoscesse".

D: Errore?
EVM: "Sì, perché una volta che sei conosciuto non puoi più scappare. È il tema di Dottor Pasavento (Feltrinelli, trad. Pino Cacucci), quello dell’autore che vuole scomparire. Il fatto è che lasci sempre tracce e finiscono per trovarti. È la contraddizione fra lo scrivere e l’apparire in pubblico. Scrivere è il lavoro che mi piace di più, perché è solitario e posso dire quello che voglio. La contraddizione la scoprii quando dovetti dare la mia prima conferenza, perché avevo cominciato a scrivere per fuggire dal mondo, però con le conferenze mi toccava preparare per il pubblico qualcosa che non aveva nulla a che fare con l’attività della scrittura al chiuso delle quattro pareti di casa. Mi accorsi all’improvviso che bisognava pensare in termini teatrali, pensare a qualcosa come una messa in scena".

D: E questo influenza la maniera di scrivere?
EVM: "Forse se non firmi ti senti più tranquillo, nell’anonimato sei più libero. Ma perché, poi? Per parlar male degli altri? Sì, ma non mi pare creativo, è una perdita di tempo. Roberto Bolaño negli ultimi tempi, quando già sapeva che sarebbe morto (anche se noi non ci credevamo), rilasciava interviste molto dure, di quelle in cui dici in pubblico ciò che di solito si dice in privato. Alla fine sprechi molte energie. D’altro lato, quegli autori che si nascondono (o si nascondevano), come Pynchon o Salinger, oggi li si accusa di aver escogitato tecniche di promozione dei loro libri. Insomma non se ne vien fuori".

D: Proviamo a parlare di Catalogna senza parlare di Puigdemont. Parliamo di Federico Mayol, protagonista del romanzo Il viaggio verticale (Voland, trad. Simone Cattaneo), un nazionalista catalano che scappa in Portogallo e qui si perde. Mayol vive quello che in psicanalisi si chiama dramma essenziale: il fatto di non aver potuto studiare a causa della guerra civile spagnola. Possiamo dire che esiste un dramma comune a tutti gli spagnoli che ancora influisce sulla convivenza in questo Paese?
EVM: "Sicuramente. Esiste in tutti i Paesi, però in Spagna è particolarmente accentuato. Il dramma di Federico Mayol era anche quello di mio padre, persona molto intelligente, ma che aveva un suo punto debole nella mancanza di studi universitari. Comunque è successa la stessa cosa anche in Italia e in Germania.  Proprio ora sto leggendo un libro di Mercedes Monmany su tre scrittrici ebree morte giovani a Auschwitz: Irène Némirovsky, Etty Hillesum e Gertrud Kolmar, quest’ultima cugina di Walter Benjamin. Erano tre grandi intelligenze e oggi farebbero parte a pieno titolo del corpus letterario europeo, se non le avessimo perdute così presto, come tante altre".

D: Per tornare, invece, al “perdersi” piacevole, il Portogallo è ancora un buon posto per perdersi? Qui a Lisbona già si parla di “barcellonizzazione” della città, a causa del turismo.
EVM: "Una volta, tanti anni fa, il mio editore portoghese di allora, Hermínio Monteiro, mi telefonò per dirmi che si trovava a Barcellona con una comitiva ufficiale al seguito del presidente della Repubblica, Jorge Sampaio. Venivano, mi disse, per studiare un po’ quello che aveva fatto Barcellona. Vedo che la lezione l’hanno imparata. Con i problemi che da noi sono ben noti, specie il turismo di massa e la mancanza di case per i residenti".

D: In Marienbad elettrico parla di un caffè parigino che si trova accanto a Les deux magots e che le piace proprio perché è rimasto in ombra, intatto rispetto al flusso turistico del più famoso caffè vicino. Ci sarà qualcosa del genere anche a Barcellona, un angolo che i turisti non hanno scoperto e che le piace ancora.
EVM: "Il mio quartiere, sotto alla Diagonal, che ho ribattezzato Barrio del Coyote perché ci viveva uno scrittore, José Mallorquí, che nel dopoguerra fu autore di un ciclo di romanzi ambientati nel Far West e che avevano come protagonista, appunto, El Coyote. Ma Barcellona è una città nervosa. L’ho scritto nel mio libro Dalla città nervosa (Voland, trad. Natalia Cancellieri) che Barcellona è la Bovary delle città, sempre insoddisfatta. D’altronde lamentarsi è un tratto molto catalano. I catalani si lamentano persino del Barça!"

D: Quale di queste tre motivazioni le pare più giusta (se gliene pare giusta qualcuna): uno scrittore catalano scrive in castigliano perché è cresciuto nella Spagna di Franco, perché il mercato del castigliano è più ampio o perché è la lingua di Cervantes?
EVM: "È vero che ho cominciato a leggere e scrivere da ragazzino, nella scuola franchista, in castigliano. E siccome ero molto precoce (a dieci anni già scrivevo libri) ho formato presto un discorso letterario che poi diventa difficile cambiare. Ma l’altro motivo fondamentale è che mia madre mi ordinava di dire sempre la verità, e me lo ordinava in catalano. Quindi per me il catalano resta la lingua della verità, della confessione. Il castigliano è il territorio della finzione".





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