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Wednesday, 09 May 2018 00:00

Impressioni sparse sul “Macbettu”

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Rivedere un’opera teatrale è sempre pratica consigliabile per chi deve poi scriverne un resoconto critico e restituirne una visione attraverso il filtro del proprio sguardo; rivedere un’opera teatrale prima di scriverne diviene poi praticamente necessario se quest’opera è la famigerata tragedia scozzese – benché ambientata in terra sarda – la cui maledizione ti si abbatte addosso al momento della prima visione sotto forma di attacco influenzale. Sicché, dopo un primo incontro con il Macbettu di Teatropersona al Politeama di Napoli (nell'ambito della stagione del Teatro Area Nord), visto in stato di sostanziale intontimento, riprovo a sfidare l’alea che circonfonde la più sanguinosa delle tragedie del Bardo e ne rinnovo la visione al Teatro Comunale di Gubbio. Questa volta la malasorte si prende una pausa, pertanto riesco a godere appieno della visione e a corroborare quel senso potente di ammirazione che già sottotraccia m’era rimasto impresso dopo il primo incontro con lo spettacolo.

Una potenza che ti travolge, a cominciare da quel primo, sempre più assordante boato che ti introduce nel cupo notturno di una tragedia tenebrosa, una tragedia che è il Macbeth, che dalla Scozia si traspone in terra sarda, acquisendone la lingua e rielaborando una propria simbologia scenica, che ne costituisce cifra distintiva; quel boato montante dall’attimo iniziale ti porta dentro la storia per non farti più uscire, avvolgendoti con le sue luci dalle gradazioni calde e digradanti verso la penombra e il buio, sintetizzabili in un ossimoro che possa definire l’evocazione immaginifica di questo Macbettu: il chiarore del buio.
L’ambientazione, dalle brume e le tempeste di una Scozia calata nelle tenebre di un tempo cupo, viene trasportata nell’incubo di una notte sarda senza lume. Nessuna analogia storica strettamente intesa, non c’è corrispondenza tra la Scozia dei clan e la Sardegna dei Giudicati, piuttosto un’affinità atavica, ancestrale, fra culture e mondi chiusi, sia pur di epoche cronologicamente distanti e irrelate; l’universalismo shakespeariano di cui parla Harold Bloom sembra trovare una nuova conferma, spostando l’oscuro cuore del sovrano di Scozia nel petto di un omologo sardo. Sempre ricorrendo a Bloom, egli sostiene che il Macbeth “sembra non essere ambientato tanto in Scozia, quanto nel kenoma, il vuoto cosmologico del mondo descritto dagli antichi eretici gnostici”; ecco, nel Macbettu questo vuoto cosmologico si riempie e si sostanzia di una materia che trova nell’atavico patrimonio coscienziale di una terra il proprio fulcro espressivo. Morte tempo e natura si fondono nel Macbeth, nell’oscura notte che sembra aver usurpato il giorno in una Scozia che è più archetipo mitologico che terra d’ambientazione realistica; allo stesso modo – e nello stesso tempo sospeso – l’oscura notte usurpa il giorno anche nel Macbettu di Alessandro Serra, spostandosi in una Sardegna che diventa anch’essa archetipo mitologico, col suo sostrato di riti lontani che sanno di paganesimo e nei quali pulsa il battito ferace di una storia conchiusa nei confini di un’isola; anche qui morte tempo e natura si fondono.
È una Sardegna, quella che fornisce l’apparato ambientale, che s’evoca attraverso il proprio patrimonio memoriale; quella Sardegna punteggiata di nuraghes, di domus de janas, di fossili che pietrificano in foreste, quella Sardegna in cui sacralità e paganesimo si intridono e si fondono nei riti del carnevale: attingendo a questo patrimonio, Alessandro Serra riprende e riutilizza un apparato simbolico, ricalibrato per evocare lo spirito endemico di una terra con la dionisiaca potenza dei riti del folklore sardo; ma è folklore senza folklorismo, del tutto scevro d’ogni valenza oleografica, strumento d’adesione suggestionale ad uno spirito ancestrale.
Sicché Macbettu è Macbeth; lo è mutatis mutandis, è un archetipo spostato di luogo ma non svuotato del proprio originario senso. È una rilettura scenica che cambia lingua, elabora una propria visione componendo scene destinate a imprimersi nella memoria (ne cito due su tutte: le guardie che s’accalcano grufolanti come maiali attorno ad un bacile e la camminata dello spettro di Banquo sotto i cui piedi si frantuma leggero il pane carasau sul desco imbandito), ma non muta l’essenza sostanziale. Pochi segni essenziali delineano il senso di quanto accade, come ad esempio la giubba che identifica il re, prima indossata da Duncan e poi da Macbettu, una volta che ne ha usurpato il trono, trono che è rappresentato da una piccola seggiola dall’impiallacciatura modesta che viene portata in scena; o ancora i sassi sparsi all’intorno sul palco, a fungere dapprima da cuscini per le guardie e che poi, impilati l’un sull’altro, vanno a comporre una sorta di rudimentale nuraghe, simbolo della costruzione del potere che s’innalza a mano a mano che procede la delittuosa ascesa di Macbettu.
Alla maniera del canone shakespeariano, gli interpreti sono tutti attori maschi (anche le tre streghe sono interpretate da tre uomini), le figure femminili sono espunte, riducendosi alla sola Lady Macbeth, il cui interprete surclassa in altezza tutti gli altri, in ciò rimarcandone il ruolo egemone sul consorte (come anche tanta letteratura successiva ha sottolineato), sulla sua natura “troppu prena ‘e latte de umana bonidade”, e nel quale solo lei potrà inoculare l’ardire necessario, poiché è colei “chi ti potta furriare in oricras su corazu meu, pro ti podere incoronare re”, in questa coppia sterile è lei “l’uomo” ed è dietro di lei che si para Macbettu quand’entra in scena Duncan.
A proposito delle succitate streghe, i tre attori che le impersonano le rielaborano come figure non truci e tremebonde, ma come presenze che stemperano con evoluzioni che suscitano ilarità il tono del tragico; esse rappresentano, coi loro movimenti scattosi, le loro pantomime divertenti, il loro incedere a passettini, il loro insultarsi (“bagassa”, si ripetono fra loro) e sputacchiarsi a vicenda, lo spirito goliardico del carnevale che stravolge il ritmo ordinario dell’esistenza e sovverte, in maniera dissacrante lo status quo; d’altronde, le loro figure sono desunte pari pari dai carnevali sardi (quello di Ottana, in particolar modo), sono sas filozanas, ovvero maschere di strega tipiche – anche nella tradizione sarda si tratta di uomini vestiti da donna – “armate” di forbici e filo; e non sono forse le tre streghe macbettiane una figurazione archetipica delle Parche? Ma sono esse anche sas attittadoras (come nel carnevale di Bosa), ovvero le prefiche preposte alle lamentazioni funebri.
Ma perché questa connotazione giocosa delle tre filatrici del destino macbettiano? Se una delle motivazioni può risiedere come detto nella funzione dissacrante e sovversiva insita nel carnevale dalla cui tradizione sono desunte, c’è poi una frase che nel Macbeth il protagonista eponimo pronunzia dopo l’assassinio di Duncan perpetrato nel proprio castello, ed è “all is but toys”, “tutto si riduce a un giocattolo” (Atto II, scena III), dalla quale si può ipotizzare un senso estensivo, come se questa sequela di morti e sangue finalizzata alla conquista del regno non foss’altro che un perverso gioco orchestrato dal destino (e dalle sue filatrici); e mi pare significativo che, nel finale, mentre la foresta di Birnam s’accinge ad avvicinarsi a Macbettu – così agendo una delle funeste profezie – lo troviamo al fondale a giocare a una sorta di uno due tre, stella (“unu, dues, tre, toccamuro”), ancora intento a portare fino in fondo quell’esiziale gioco lungo la cui scia di sangue egli s’è mosso.
Eppure, questo Macbettu è una tragedia del sangue senza sangue; qui al sangue si sostituisce la polvere; qui non c’è quel sangue “che cola dal corpo degli uccisi, che si raggruma sui volti e sulle mani, sui pugnali e sulle spade” (Jan Kott), questo Macbettu non è, per dirla sempre con Kott, la tragedia dell’ambizione o della paura, questo Macbettu, che si svolge su un palco spoglio, con quattro pannelli di metallo allineati sul fondo che diventeranno deschi imbanditi, una seggiola che entrerà a farsi simulacro di trono e pietre sparse all’intorno a far da cuscini per poi impilarsi in un rudimentale simbolo nuragico, questo Macbettu – dicevo – appare come tragedia dell’uomo in quanto tale, delle sue affezioni e abiezioni più umane, in cui c’entra sì anche l’ambizione, c’entra sì anche la paura, ma è soprattutto la cupa tragedia dell’essere umano in balìa del turbine inesorabile della Natura, di una Natura che agisce attraverso la Storia e il cui disegno si compie con l’ineluttabile travolgimento dell’elemento umano, piccolo e meschino dinanzi a qualcosa che lo sovrasta e di cui, con ingolosita protervia, egli prova a divenire artefice.
È una notte irredenta, quella del Macbettu, tutto avviene in una oscurità dai toni cangianti che le calde cromie luminose sfumano in una sequela desultoria di tonalità che variano di momento in momento, l’uso delle luci – comprese due file di americane che caleranno sul banchetto imbandito a corte – accompagna l’evoluzione drammaturgica con dettagliata minuzia. E alle luci s’uniscono i suoni e le parole, i rumori di fondo di sibili, scrosci e campanacci e il suono della lingua sarda, “sa limba”, in una (o anche due, come quella parlata dal portiere del castello) delle sue varianti.
Uno degli interrogativi che può suggerire il Macbettu è proprio incentrato sulla lingua: perché il sardo è la lingua in cui si declina questo Macbeth? A cosa serve? Serve (penso) a rendere la parola suono senza che perda endemica forza di parola, a farsi eco ancestrale di spinte propulsive primordiali che appartengono a popoli distinti e distanti; è un idioma che dà voce al tragico con suggestiva aderenza e che, anziché rappresentare una chiusura, un arroccamento in se stessa di una tradizione esibita, appare alle orecchie di chi ascolta suono verbale tra i rumori di fondo, giunge come una lingua che parla, sonora, per aprirsi verso l’esterno, in ciò inserendosi nel felice solco di certo cinema sardo degli ultimi anni (basti pensare a Mereu, a Columbu, a cui mi viene d’accomunare Serra per la capacità di far parlare in un misto di lingua e suoni, in un impasto che più che intellegibile all'impronta risulta percettibile ad un livello intuitivo e istintuale).
La Sardegna, con la sua lingua e la sua essenza, pervade di sé il Macbeth, rendendolo proprio, una Sardegna fatta di pietra, ferro e sughero, come le maschere di corteccia indossate ad evocare la foresta che avanza. Partendo da suggestioni ancestrali, il Macbettu restituisce nella chiave visiva di un’estetica affascinante l’essenza universale del dettato shakespeariano. In ciò s’avvale di un ensemble attorale (Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino) di livello assoluto, che splendidamente interpreta e sostanzia la visione registica.
Mentre sonori pugni in luogo degli squilli di tromba percuotono le assi di metallo sul fondo annunciando la fine della vicenda, circolarmente chiudendo con fragore simile a quello con cui s’era cominciato, l’applauso ammirato si confonde con l'eco cupa della tragedia che si spegne come una corta candela.






Macbettu
di
Alessandro Serra
tratto da Macbeth
di William Shakespeare
regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra
con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino
traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni
collaborazione ai movimenti di scena
Chiara Michelini
musiche pietre sonore Pinuccio Sciola
composizioni pietre sonore
Marcellino Garau
produzione
Teatropersona, Sardegna Teatro
con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
lingua sardo
durata
1h 40’

Napoli, Teatro Politeama, 25 febbraio 2018
in scena 25 febbraio 2018 (data unica)

Gubbio (PG), Teatro Comunale Luca Ronconi, 28 aprile 2018
in scena 28 e 29 aprile 2018

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