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Thursday, 12 April 2018 00:00

“Tonya”, alle radici di un dramma feroce

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La vicenda di Tonya Harding è di per sé storia aggressiva, senza sconti, aspra ma genuina, spiattellata ed “eviscerata” senza remore e senza diritto di replica, pur continuando a rimanere un enigma, perché al di là di ogni dichiarazione rilasciata da ciascun personaggio di questo impasto relazionale e professionale, e del giudizio della legge, molte delle oggettive responsabilità resteranno sempre sfuggenti. Ma ciò non costituisce l’unico fondamento della trama esistenziale della ragazza nata a Portland, campionessa in uno sport feroce, il quale in modo più esplicito di altri si compone di danza e di creatività, dentro le acrobazie e le figure impeccabili che una dura ed ininterrotta esercitazione porta a compimento, alla ricerca dell’istante perfetto. Un campo nel quale, come avviene in tante altre discipline, più sofferto e sacrificato è il lavoro alla base dell’attività, più leggiadra e spettacolare appare l’esibizione.

Bisogna però ricordare sempre che la vita e l’arte non necessariamente si intrecciano; la connessione fra le due ha un carattere ambiguo, più complesso di quello che si potrebbe credere, e dalla tipologia di questo rapporto dipende una maggiore o minore corrispondenza, in assoluto o a tratti modificabile, che conduce in certi momenti ad una totale collimazione, in altri alla biforcazione in due strade parallele. Dal punto di vista della pellicola, basata sulle reali interviste a cui le persone coinvolte nelle varie vicissitudini sono state sottoposte negli anni, ciò che emerge è che Tonya ha da sempre avuto un’attitudine fisica e mentale che avrebbe presto potuto portarla a distinguersi nel pattinaggio artistico, ma che sin dall’inizio ha commesso l’errore, se così lo si può chiamare, di rimanere sé stessa, svolgendo nella gioia del suo ineccepibile triplo axel (il primo realizzato da una pattinatrice statunitense), nella tecnica disinvolta e nell’esuberante agilità il proprio intero vissuto, la miseria pratica e culturale della famiglia d’origine, l’insicurezza provocatele da tutti i suoi più rilevanti legami affettivi, a partire dall’atteggiamento apatico e severo, a tratti molto manesco, di sua madre, tesa completamente alla persecuzione dell’obbiettivo di realizzazione professionale della figlia, di conseguenza troppo poco incline a tenerezze e comprensione e molto a rimproveri e grevi mortificazioni.
Tale mole di sincerità priva di filtri, senza alcun ingentilimento o idealizzazione, l’ha portata a divenire un’atleta di pura emozione, a rappresentare un’eccentrica ventata di freschezza e nuova libertà in un mondo castigato, rigoroso, splendido a vedersi ma troppo spesso freddo come il ghiaccio su cui si compiva, asettico e costruito secondo l’implacabile via dell’omologazione e dell’imperturbabilità, la quale non ammetteva giustificazioni in caso di umani disastri o neanche semplici, passeggeri colpi di testa, e non poteva prescindere dall’immagine del singolo e della comunità che esso rappresentava come scintillante stereotipo da cartellone pubblicitario, falsamente candida sino alla fine.
Se è pur sicuro che un certo distacco emotivo produca maggiore concentrazione e di conseguenza una più alta resa, d’altra parte esso rischiava di depauperare un’espressione estetica che personaggi come quello della nostra protagonista sono stati in grado di rendere unica, indimenticabile pur nella frenetica alternanza di alti e bassi, pur nelle cadute di stile e nei pasticci in cui talvolta è rimasta impelagata durante le sue performance. Eppure quello stesso pregio di onestà, la voglia di mostrarsi al mondo per ciò che lei realmente era e che l’ha resa celebre agli occhi degli ammiratori di una simile competizione olimpica ed oltre, è la medesima caratteristica cha ha sempre tenuto a freno la sua possibilità di spiccare il volo in maniera definitiva, imprigionandola in una spirale di fallimenti e tragici epiloghi, impedendole di ragionare con la mente pulita e sì, di stare al gioco dei giudici sulla pista, ma anche di lottare per sé stessa in modo fruttuoso.
E non è un caso che fra le sentenze ad apertura del film ci sia la risposta data a un invisibile intervistatore da quella Tonya di cui è interprete una Margot Robbie di altissimo livello, che ripetendo la domanda cosa diranno di me? Prosegue affermando: “Che sono una persona vera”. La parte, consistente, di vittima, con cui la sportiva ha avuto a che fare nella propria esistenza, vessata dall’abbandono del padre, dalla mancanza della dimostrazione di affetto da parte della madre, dal marito Jeff Gillooly (l’attore Sebastian Stan) per il quale nutriva, ampiamente corrisposta, un’appassionata attrazione, a che a detta della donna aveva dei lati oscuri che comprendevano percosse e prepotenze nei suoi confronti, nonché gravi minacce, ha assorbito molto del suo tempo, forgiando in lei un carattere, come una fisicità, forte e indipendente, ma pure scontroso e turbolento, dal quale sono stati ricavati comportamenti talvolta altrettanto svilenti ed il suo sentirsi autorizzata ad eccedere, addossando anche le colpe strettamente proprie ad una situazione sfortunata.
La sensazione è che le reiterate difficoltà della provincia americana abbiano sì giocato un ruolo di non poco conto, poiché l’emarginazione ed il provincialismo non sono stati colpevoli più vaghi rispetto ai soggetti di questa narrazione, ma tutto questo non si è risolto in una scontata e generica accusa alla società, bensì in un ben diretto avvicendarsi di realtà umane, catalizzate dalla personalità accentratrice di Tonya, che pure senza questo coro a più voci non avrebbe potuto sussistere. L’orchestrazione dei punti di vista ed il ritmo vivace del film, il quale si personifica letteralmente in ogni figura umana, dal personaggio più pregnante a quello più marginale, che di fatto non esiste, dipanando il suo tempo nello svolgersi delle azioni contemporanee alla vicenda narrata e nelle affermazioni posteriori ad essa, sono incalzati dal costante scorrere di trascinanti brani musicali prodotti negli anni in cui il racconto è ambientato (tra tutti l’inaspettata versione americana di Gloria, della cantante Laura Branigan). La musica e le scene si compenetrano con spontaneità e brio, grazie al puntuale tempismo ed all’accurata sintonizzazione con la cadenza dei fotogrammi, in una successione svelta ma mai convulsa.  
Questa commedia nera, segnata dall’amara ironia e dal crescendo di tragicità, tocca il punto più basso dello svolgimento dei fatti nell’infortunio al ginocchio “capitato” alla rivale di Tonya, Nancy Kerrigan, avvolto in un giro di sospetti e colpe apparentemente chiarito a livello ufficiale ma meno a livello ufficioso, a causa delle contraddizioni tra le diverse versioni dei fatti, e per l’appunto ancora, in parte, intriso di mistero. Un accadimento che la stella del pattinaggio pagherà al prezzo più caro di tutti, e più atroce persino rispetto a quello pagato dagli esecutori dell’infimo progetto al quale si dichiarò estranea, con il beneficio del dubbio che seguita ad esistere in noi, fruitori dell’opera cinematografica ed immaginari partecipi della sua reale vita.
La recitazione di ciascun membro del cast, a cominciare da Robbie e dal premio Oscar che proprio Tonya è valso ad Allison Janney, in scena come madre della sportiva, LaVona Golden, è indubbiamente un inestimabile apporto alla molto buona riuscita di questo lavoro, che coniuga la sentita necessità di considerare il diritto al riscatto di un’atleta capace di momenti gloriosi e grande smarrimento, nonché la volontà di revisione delle ingiustizie subite, con la schietta ricognizione delle sue debolezze, dei suoi errori e misfatti, delle sue condannabili gesta e delle sue stimabili e coraggiose scelte, in una dimensione dominata dalle più che drammatiche conseguenze di fin troppo ingenui ma non trascurabili sbagli.
Tali componenti si leggono tutte insieme nel commovente tentativo di sorriso in cui la Tonya del film si prova davanti allo specchio del suo camerino, poco prima di scendere in pista per le Olimpiadi invernali del ‘94, quando l’abilità di immedesimazione dell’attrice riesce a riprodurre su quel viso la smorfia stirata di una convinzione ed una tenacia che non riescono a riaffiorare, perché troppo soffocate dalla sofferenza, dalle delusioni, dall’ansia, dai passi falsi e dai sensi di colpa; quella maschera che ognuno di noi ha cercato di indossare almeno una volta nella propria vita, quando le cose sembravano proprio non voler andare per il verso giusto.

  


  


Tonya
regia
Craig Gillespie
sceneggiatura Steven Rogers
con Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Julianne Nicholson, Paul Walter Hauser, Bobby Cannavale, Caitlin Carver, Bojana Novakovic, Mckenna Grace
fotografia Nicolas Karakatsanis
montaggio John Axelrad, Lee Haugen
musiche Tatiana S. Riegel

produzione LuckyChap Entertainment, Clubhouse Pictures
distribuzione Lucky Red
paese Stati Uniti d’America
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2017
durata 121 min.

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