“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 30 March 2018 00:00

In Giostra, sui treni di Hrabal

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Primo giro di giostra, prima visita ad uno spazio teatrale che schiude le sue porte a Napoli, in una delle strette strade dei Quartieri Spagnoli, uno spazio che colpisce prima di tutto per come è strutturato, per l’ampiezza dell’assito, con i suoi spalti che l’abbracciano su tre lati e per la capacità funzionale della struttura, atta, come ci si accorgerà in corso d’opera della rappresentazione, a sfruttare al meglio anche le proprie pertinenze in funzione dello sviluppo drammaturgico di quel che vi va in scena.

E in scena ci va Treni strettamente sorvegliati, un’opera tratta con sostanziale fedeltà dall’omonimo libro di Bohumil Hrabal e che a suo tempo divenne anche un film – nel 1966, vincendo peraltro l’Oscar nel 1968 come miglior film in lingua straniera – col medesimo titolo, per la regia di Jiří Menzel, che più volte tradusse in immagini su pellicola la prosa di Hrabal.
Ed è nel solco di questo rapporto virtuoso di filiazione tra parola e rappresentazione che va ad inserirsi anche questa riduzione teatrale, firmata da Massimiliano Rossi, che rifacendosi con sostanziale fedele aderenza al testo (e al film) ne riproduce gli aspetti essenziali e riesce nel ricreare quell’atmosfera bilanciata di ironia e dramma che troviamo nelle pagine di Hrabal: venare d’ironia il senso del tragico, che anche con crudezza affiora nella narrazione, è una delle peculiarità hrabaliane che vediamo felicemente riversate su scena; l’ironia praghese, quel tipico animus beffardo e malinconico di cui parla (e si fa interprete) lo stesso Hrabal, si materia d’una tenerezza un po’ cialtrona che prende forma progressivamente nello spessore della messinscena ed è in questo che sta il valore intrinseco dello spettacolo (ri)scritto e diretto (oltre che interpretato) dallo stesso Massimiliano Rossi, nella riproposizione sulle tavole di legno del sentiment che promana dalle pagine di Hrabal, che caracolla fra surrealismo e naïveté, un’evocazione pregna ed eterea ad un tempo, come nelle carni sgonnellate e stampigliate a forza di timbri della telegrafista Zdenička, quelle carni femminili che, per dirla con le parole di Sergio Corduas (che di Hrabal è stato traduttore), “si distendono sui tavoli e canapè ma poi trapassano sui cieli che diventano come matissiani”, oceani celesti come il mare che un macchinista di passaggio si dice incapace di dipingere, ma su cui è facile per il giovane e ingenuo Miloš così come per il disincantato e greve capomanovra Hubička distendere pennellate con lo sguardo per istoriare proiezioni dell’immaginario.
Questa riproposizione – nonché la sua riuscita – passa attraverso due canali fondamentali, a mio modo di vedere, che sono da un lato la suddetta ironia che permea la vicenda infondendo leggerezza a quella che è pur sempre una storia drammatica, vieppiù ambientata in tempo di guerra (siamo nella Boemia occupata dai nazisti); dall’altro c’è un’armonia tra pagina e scena che si traduce nel rendere “fisicamente” la prosa di Hrabal, quella scrittura che affonda a piene mani nel parlato, che tracima in un periodare infinito, senza né punti né virgole, che caracolla in un ininterrotto flusso snodandosi lungo le pagine come un treno che sferraglia lanciato in discesa, e che riappare nell’unità scenica della rappresentazione, che ne ripercorre, come si diceva, i ritmi, portando in successione dinamica ad abitare la scena ben undici attori e che sembra traslitterare sulle assi di legno l’andamento della narrazione, facendone salvi tutti i portati contenutistici, snodandosi in un andamento vagamente picaresco, in un’armonia complessiva dell’ensemble attorale che s’amalgama felicemente seguendo ritmi quasi da pochade.
La storia del giovane Miloš, ferroviere in Boemia in una piccola stazione di provincia in tempo di guerra, è anche una storia di crescita, di iniziazione al mondo dei grandi; anima delicata, che “sfiorisce come un giglio” al primo contatto erotico con la fidanzata, insicuro della propria virilità al punto di arrivare a tagliarsi le vene, ingenuo e candido fino al punto di riuscire a vedere “belli” anche i membri delle SS, assistiamo al suo diventare uomo fino alla prova finale di attentare ad un treno tedesco strettamente sorvegliato (“acutamente seguito”, se volessimo tradurre letteralmente), carico di armi e munizioni. Questa crescita progressiva avviene su una scena dove s’affastellano gli arredi interni della piccola stazione (sedia, tavolo, poltrona, una stufa cilindrica, una pendola) ed esterni (una rudimentale croce di Sant’Andrea, uno steccato dietro al quale c’è la piccionaia in cui il capostazione alleva le linci polacche), con tanto di plastico in proscenio a far concreta – sia pur in scala – l’evocazione di binari, treni e movimentazioni di convogli; in più, il piano superiore della sala teatrale viene utilizzato per mostrare in controluce i dialoghi tra il capostazione e la moglie, in perfetta aderenza al dettato del testo originario.
Nel susseguirsi dell’andirivieni dei personaggi, il tempo – fattore chiave – viene scandito dal persistente ticchettio della pendola, un ticchettio che è anche presagio dell’ordigno che Miloš dovrà innescare; il tempo, così essenziale nel lavoro del ferroviere, è una costante fondamentale di questa storia e viaggia – facile gioco di parole – su un doppio binario: quello del tempo “effettivo” e cronologico, precisamente collocato e connotato da musiche d’antan, dettato dalle cadenze della messinscena e scandito dal ticchettare della suddetta pendola, e il tempo (o i tempi) della vita che progrediscono nella vicenda di Miloš: dapprima c’è il tempo della memoria, col ricordo prima del bisnonno ubriacone, poi del nonno ipnotizzatore, il quale aveva tentato di fermare l’avanzata dei carrarmati tedeschi fronteggiandoli col solo potere dell’ipnosi, finendo ahilui con la testa miseramente tritata fra i cingoli di un tank; c’è poi il tempo acerbo della giovinezza delicata, quello in cui – come si ripete più volte – Miloš è pervaso dal cruccio di non essere un uomo all’altezza (perché “è sfiorito come un giglio”); e infine c’è il tempo della consapevolezza di sé e dell’ingresso nell’età adulta, attraverso l’iniziazione sessuale estemporanea con Viktoria prima (con la quale finalmente non “sfiorisce” al primo contatto) e poi attraverso l’assunzione di responsabilità che avviene accollandosi con calma e lucida consapevolezza il rischio di attentare ad un convoglio strettamente sorvegliato. È una costruzione bilanciata: ai fallimenti in guerra (sia pur del proprio nonno) ed in amore (quello sì tutto suo) dell’inizio, si contrappone il riscatto di Miloš in entrambi i campi alla fine.
Sospeso tra commedia e tragedia, giocando in lepido disincanto con la vita e con la morte, Treni strettamente sorvegliati si dipana in un senso di sospesa leggerezza che accompagna un dramma annunciato dagli scoppi uditi in lontananza e dal riverbero di bagliori sinistri che squarciano la notte. Il clima a tratti scanzonato, picaresco e un po’ sbruffone che promana dall’assito – e che ha il proprio picco nella figura del capomanovra Hubička e nella scena in cui questi imprime i timbri della stazione sulle natiche della telegrafista Zdenička – stempera senza per questo diminuirne di grado il senso di tensione latente e di dramma incipiente. Ironia e movimentazione, i due binari hrabaliani che partono dal romanzo, arrivano in scena con la stessa forza che hanno nell’inchiostro, con la stessa efficacia evocativa che possiedono sulla pagina.

 



Treni strettamente sorvegliati
da
Bohumil Hrabal
progetto, adattamento e regia Massimiliano Rossi
con Giovanni Buselli, Angela Rosa D’Auria, Pietro Juliano/Massimiliano Rossi, Giuseppe Villa, Giuseppe Fiscariello, Adele Vitale, Antonio Clemente, Noemi Giulia Fabiano, Sara Lupoli, Marco Aspride, Michele Capone, Valerio Lombardi
scene e luci Davide Carità
costumi Claudia Citarella
sound design Davide Mastropaolo
movimenti di scena Sara Lupoli
grafica Malive
foto di scena Alessandro Palumbo
trucco Rosa Falco
aiuto regia Vincenzo Capaldo
assistenti alla regia Noemi Giulia Fabiano, Valerio Lombardi
aiuto scenografo Giordana Innocenti
produzione TaRatatà Produzioni
lingua italiano
durata 1h 20’
Napoli, Teatro La Giostra, 26 gennaio 2018
in scena dal 19 al 28 gennaio 2018

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