“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 20 March 2018 00:00

“Scannasurice”: Napoli, i topi e la malinconia

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Una lunga tournée nazionale, svariati riconoscimenti tra cui il cui il Premio a Imma Villa “Le Maschere del Teatro Italiano 2017” per la migliore interprete di monologo e il Premio della Critica 2015, come migliore spettacolo, immensi e commossi applausi al termine di ogni replica. Si potesse sintetizzare così Scannasurice che torna in scena al Teatro Nuovo di Napoli con la regia di Carlo Cerciello dopo oltre trent’anni dal debutto di Enzo Moscato nel 1982, sarebbe bello perché toglierebbe l’arduo compito di aggiungere parole e commenti ad uno spettacolo di difficile descrizione.

Parlare di Scannasurice, infatti, non è semplice; chi non lo ha mai visto lo vedesse, si precipitasse a consultare le prossime date in programma perché non troverà in nessun articolo la capacità di cogliere la potenza che mette in scena.
Una scena angusta, squadrata, uno scannatoio dove il personaggio androgino interpretato da Imma Villa, un po’ femminiello, un po’ sgualdrina, un po’ fattucchiera, vive assieme ad un esercito compatto e brulicante di sorci.
Un tugurio, un ipogeo, una discesa negli inferi dove tra bottiglie vuote, carte sporche, luci votive, buste e rifiuti, la vita si mimetizza, perde valore.
La scenografia è − assieme alla protagonista − un elemento fondamentale di riuscita della pièce: un spazio che è esso stesso racconto della storia. Un microcosmo del macrocosmo-Napoli all’indomani del terremoto dell’Ottanta in cui i napoletani sono rappresentati alla stregua di topi che rosicano, corrono, fanno schiamazzo, si ammazzano per niente, soffrono e ridono, sono presi dalla malinconia, dalla rabbia, dalla voglia di vivere, dall’istinto di morire. Lo spazio è quello di un quadrato diviso in scompartimenti tra i quali il femminiello, protagonista principale della rappresentazione, si muove con passo felino; come la pallina di un flipper, rimbalza senza senso e senza volontà da un angolo all’altro.
In scena vi è dunque un’unica attrice, l’immensa Imma Villa, che dà voce e corpo a vari personaggi e sentimenti napoletani oltre al femminiello: c’è la fattucchiera (la maga) dei Quartieri Spagnoli, ci sono Totore e Nannina, freschi sposi che sono andati ad abitare a salita Concordia 37, e che vengono salvati dal “Munaciello”, che li sottrae al crollo della palazzina; c’è una Madonna raffigurata per strada a cui gli abitanti dei “vasci” affidano le loro preghiere, c’è la Bella ‘Mbriana, ovvero lo spirito protettore della casa e pure il Munaciello, anima più bizzarra e dispettosa, c’è la prostituta che vende il suo corpo in cerca d’amore più che di denaro e che ad un certo punto, ad uno degli studenti che va da lei per un incontro, è capace di dire: “Sposami, amami persino”.
Come Imma Villa riesca a dare voce, corpo e quindi vita a tutti questi personaggi è cosa di rara bravura: vi è in lei la capacità di sposare letteralmente ogni dettaglio, ogni slancio, ogni venatura dell’intero testo di Moscato. La sua interpretazione lascia senza fiato: non è solo la voce che si fa suono, le parole che si rincorrono, diventano note, lo sguardo presente/assente a se stesso, le mani che disegnano storie e stati d’animo, non è solo la postura del corpo, le spalle, le gambe, l’uso della parola e del silenzio, il membro che pare avere tra le cosce, le parrucche che indossa, le pellicce, è tutto questo e molto altro messo insieme. È la eccellente padronanza della lingua napoletana in cui è scritto e portato in scena il testo, è l’intenzione dietro ogni gesto, è lo studio di ogni inclinazione, è il suono della voce che diventa una melodia, è il sali e scendi di ogni gradino di quel quadrato, è la potenza espressiva di una grande professionista. In poche parole assistere a Scannasurice, significa prendere visione di una grande lezione di teatro, una delle più importanti di questi ultimi anni.
Come detto qualche rigo più in alto, la storia di Scannasurice è stata scritta da Moscato negli anni Ottanta all’indomani del terribile terremoto; che senso ha quindi riparlarne adesso, riparlarne ancora? Dopotutto sono passati oltre trent’anni da allora e di quel terremoto, solo i nostri nonni o forse i nostri genitori ne hanno ricordo; probabilmente molti di noi non erano neppure nati. Eppure quel terremoto ha segnato un momento, una criticità, ha aperto una faglia, una voragine, dura a morire. Un terremoto non solo fisico, si intende: al movimento naturale e sotterraneo della crosta terrestre Enzo Moscato col suo testo aveva fatto corrispondere movimenti e scontri in superficie, insomma qualcosa di simile ad un crollo sociale e morale della città, ad una perdita di identità e valori, alla crisi della Sirena Partenope ancorata ai fasti del passato come ad uno scoglio, incapace di nuovi slanci verso il mare, ovvero il luogo della cultura e della conoscenza.
È per queste ragioni che si può facilmente comprendere come ciò che viene rappresentato nel chiuso di un teatro non sia un episodio del passato, archiviato nelle pagine della memoria, ma un taglio terribilmente attuale che stenta a rimarginarsi. Basti pensare, volendo tralasciare il dramma delle numerose vittime e i danni strutturali che quella catastrofe naturale portò alla città, alle conseguenze economiche che ancora oggi Napoli deve scontare: debiti fuori bilancio che la città ha contratto per garantire a quei tempi la ricostruzione edilizia e che ora si trova a distanza di decenni, a dover sanare rischiando addirittura il dissesto, per fortuna al momento scongiurato.
C’è qualcosa di più attuale di Scannasurice?
Probabilmente, purtroppo no.
La storia è forse sempre la stessa, un’accisa sul futuro, un passato che non passa, che anzi ritorna, che compromette alla radice ogni speranza e possibilità di riscatto, come a dire che dall’inferno non si può risalire.
Il sonno/morte del femminiello chiude così lo spettacolo: allora chiudiamo gli occhi anche noi per il dolore che si prova a lasciarli aperti, a vedere che la nostra fatica di ogni giorno non viene ricompensata, che la quotidiana battaglia di Napoli per affrancarsi dai propri mali è persa, non per mancanza di volontà, ma per l’ostinazione sciagurata di un passato troppo presente.

 

 

“Chi so’? Stong ‘arinto? Stong ‘afora? Nun moro, no... ma neppure campo comm’ apprimme: ‘a vista, ‘e mmane, ‘e rrecchie... tutte cose se n’è ghiute... e pure ‘a voce... ancora nu poco... e poi... sommergerà. Affonderà pur’essa”.

(da Scannasurice)

 



leggi anche:
Grazia Laderchi, “Scannasurice”: un requiem sempre attuale (Il Pickwick, 25 gennaio 2015)
Michele Di Donato, Nel ventre cupo di Napoli (Il Pickwick, 4 marzo 2015)
Alessandro Toppi, Ho visto un'attrice (Il Pickwick, 24 febbraio 2016)
Vincenzo Morvillo, “Scannasurice”, sotto il segno di Dioniso (Il Pickwick, 29 marzo 2017)





Scannasurice
di Enzo Moscato
regia Carlo Cerciello
con Imma Villa
aiuto regia Aniello Mallardo
assistenti regia Jack Hakim, Tonia Prisco
scene Roberto Crea
suono Hubert Westkemper
musiche originali Paolo Coletta
costumi Daniela Ciancio
disegno luci Cesare Accetta
direttore tecnico Marco Perrella
tecnico luci Fabio Faliero
tecnico audio Jack Hakim
aiuto scenografo Michele Gigi
foto di scena Andrea Falasconi
produzione Teatro Elicantropo, Elledieffe
lingua italiano, dialetto napoletano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Nuovo, 17 marzo 2018
in scena dal 16 al 18 marzo 2018

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