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Saturday, 17 March 2018 00:00

Roberto Latini e lo smembramento della tradizione

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Leo de Berardinis e Giorgio Strehler. Sono i filtri (inevitabili) attraverso i quali Roberto Latini guarda al Teatro comico di Goldoni. Strehler, sappiamo tutti, ha votato parte delle sue regie e delle sue ricerche ai testi dell’autore veneziano, penetrando a pieno nei caratteri della sua riforma, nella pratica scenica cui Goldoni era già avvezzo prima di essere ufficialmente scrittore di commedie.

Ecco perché troneggia al lato destro del palcoscenico a sipario abbassato un enorme Arlecchino che ricorda quello storico di Ferruccio Soleri; non è un omaggio al Servitore dei due padroni del regista triestino, che lo occupò infaticabilmente per decenni, ma più che altro un’identità scenica e culturale che nel testo rappresentato è colto nella fase di decadimento. Se Il teatro comico esemplifica attraverso la storia di una compagnia il tentativo di riforma goldoniana (siamo intorno al 1751 e Goldoni intuisce finalmente su quali punti agire per il superamento della Commedia dell’Arte), ciò implica il progressivo smantellamento della maschera per eccellenza, quella di Arlecchino, laddove Strehler ne riattiva di nuovo la vitalità rendendola nuovamente protagonista.
Durante la messinscena il grande manichino cade ad ogni trillo di una campana che svela al pubblico un ulteriore livello drammaturgico dello spettacolo: una compagnia che prova la compagnia della trama, livello nel quale Latini ci presenta un fondamentale punto di recisione della tradizione: il disuso della maschera.
In scena su un’enorme pedana obliqua stanno i personaggi principali, essi sono comici e personaggi insieme, colti nella delicata transizione dalle loro maschere fisse dei lazzi a quella che sarà la commedia di carattere. La pedana è quindi quella scena ancora in formazione, non del tutto consolidata, una “navicella” dantesca che indica una peregrinazione simbolica della nostra tradizione.
Latini è Orazio il capocomico, un capocomico che “sostiene” tale parte e che ha un suo doppio, Eugenio, complementare, come complementari sono attore e regista, colui che agisce e colui che dirige. Da qui, probabilmente, l’esigenza di rinvenire più livelli paralleli che risultano secondo la sensibilità della regia, rappresentabili attraverso il testo della commedia. Le battute – perché mai come ora si parla esattamente di battute – non sono scomposte, se non dilatate, ristrutturate talvolta in forma monologante, come la parte di Arlecchino riproposto con la tradizionale amplificazione sonora di Latini, simbolo di un progressivo deterioramento della maschera.
Da un certo punto di vista è come se Roberto Latini individuasse proprio nell’Arlecchino, maschera del personaggio Gianni, apparentemente fra i marginali del testo di Goldoni, il punto di fuga del suo Teatro comico e contemporaneamente guardasse ad Orazio come sguardo esterno; questi ha una pistola, una giacca nera ed una maglia imbrattata di sangue dopo aver eseguito il lazzo della mosca, una traccia morente della Commedia dell’Arte. Latini veste i panni del capocomico, incarnando così un punto di accordo fra i piani paralleli dell’allestimento, ma è anche vero che “sostiene” la parte dell’Arlecchino, come se i due personaggi fossero due facce della stessa medaglia.
C’è una ricerca costante di un punto di equilibrio fra il deterioramento di vecchie forme e il raggiungimento di nuove; l’invaghimento delle “commedie di carattere” da parte della prima attrice Placida/Rosaura (Elena Bucci che impersona anche Beatrice) stride con la lentezza dei suoi gesti che rammentano posture di maniera, barocche; il Lelio goldoniano regredisce ulteriormente in una maschera conforme alla sua fame, ovvero Pulcinella; la cantatrice Leonora nel castrato, figura campale del melodramma.
Tutto ciò va sempre più rarificandosi nella seconda parte, quando le luci chiaroscurali giocano sull’effetto-ombra e i personaggi vanno costituendo man mano una immagine kantoriana, come se le “loro maschere” fossero carcasse e l’Arlecchino un manichino da smembrare come elemento ormai atrofizzato, mentre un’atmosfera che ricorda La Tempesta strehleriana li attornia; la creazione teatrale si pone fra rigenerazione immaginativa e inevitabile sclerotizzazione della tradizione.
Di contro, si provano le scene de Il padre rivale del figlio e gli attori indossano le maschere, riprendono i loro dialetti e le sagome dei tipi fissi mentre d’altro canto eseguono la recitazione su partitura scritta.
Ma è questa rarefazione del secondo atto che segna l’incidenza dello spettacolo di Latini su un discorso che porta avanti in altri suoi lavori. La devitalizzazione delle maschere della Commedia dell’Arte è quel punto di non ritorno che però Strehler ha sfidato, aprendo in Goldoni un varco ancora possibile per l’inesauribile fantasia di Arlecchino. In Latini invece i caratteri sembrano opacizzarsi, divenire quasi umbratili per poi traghettarsi non senza difficoltà verso la nuova maniera di recitar commedie.
Goldoni scrive Il teatro comico con l’intento di rendere parte il pubblico – verosimilmente la nuova borghesia – della riforma e avvicinarlo ad una certa “riflessione” su se stesso che egli vuol mettere in scena con la commedia di carattere. L’allestimento di Latini riprende invece il senso artistico che emerge dalla commedia, riconnettendolo all’ultimo Pirandello, svuotandone le strutture scenografiche, le maschere, la storicità dei costumi, introducendo al nostro sguardo una sorta di senso di finitudine che un po’ ricorda lo stesso metodo di altri lavori (una destrutturazione fondante la sua visione registica e artistica tout court), ma che ora si presenta sotto forma di complesso smembramento fisico e poetico di Arlecchino, alias smembramento della tradizione della maschera dell’arte, nonché di quella strelheriana che lo stesso teatro Il Piccolo “trasporta” anno dopo anno.
Inevitabile non portar via le suggestioni visive e sonore dello spettacolo, pur rendendosi conto che esso è un po’ come lo stesso Arlecchino scomposto in scena; con difficoltà lo spettatore riesce a metterne a fuoco ogni pezzo, essendo pregno di citazioni, di visioni teatrali filtrate attraverso l’attore Roberto Latini. Troppa meta-riflessione diremmo, eppure a guardar bene Il teatro comico è un testo che va necessariamente recuperato da impressioni soggettive e forse anche “personalizzato” egoisticamente dalla regia stessa, per non lasciare che sia puro manuale di drammaturgia di qualche secolo fa.



 


Il teatro comico
di Carlo Goldoni
adattamento e regia Roberto Latini
con Roberto Latini, Elena Bucci, Marco Sgrosso, Marco Manchisi, Stella Piccioni, Marco Vergani, Savino Paparella, Francesco Pennacchia
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
regista assistente Alessandro Porcu
assistente alla regia volontario Matteo Gatta
assistente scenografa Giulia Breno
assistente costumista Gianluca Carrozza
direzione tecnica Marco Rossi
assistenti alla direzione tecnica Giulia Breno, Paolo Di Benedetto, Marco Gilberti
direzione di scena Giuseppe Milani
audio/video Rosario Calì
capo macchinista Giuseppe Rossi
capi elettricisti Claudio De Pace, Gianluigi Ronchi
costruzioni Alberto Parisi
scenografia Mauro Colliva
realizzazione costumi Sartoria Piccolo Teatro di Milano − Teatro d'Europa
capo sartoria Roberta Mangano
sicurezza Michele Carminati
direttore di scena Mauro De Santis
attrezzista Pantaleo Ciccolella, Valentina Lepore
macchiniste Tania Corradini, Eliana Ertugral
elettricista Valerio Varesi
fonico Marco Pasquale
sarta Marisa Cosenza
parrucchiere Maura Corbetta, Nicole Tomaini
coordinamento di produzione Mara Milanesi
foto di scena Masiar Pasquali
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
lingua italiano
durata 2h 30'
Milano, Piccolo Teatro Grassi, 8 marzo 2018
in scena dal 20 febbraio al 25 marzo 2018

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