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Monday, 26 February 2018 00:00

“Battlefield”, una vittoria che sa di sconfitta

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“Questa guerra − chiede il giovane − avverrà su un campo di battaglia o nel mio cuore? Krishna gli risponde: non vedo alcuna differenza”.
Partiamo da queste battute della pièce per avere la cifra di ciò di cui tratteremo nei prossimi righi.
Prima però torniamo indietro.
Festival di Avignone 1985: Peter Brook inscena il Mahābhārata, uno spettacolo della durata di nove ore che segna così un momento di svolta nella storia mondiale del teatro.
Napoli 2018: al teatro Bellini fino al 25 febbraio torna in scena il regista londinese alla veneranda età di novantadue anni per proporre una nuova versione di quello spettacolo che si presenta in una veste decisamente abbreviata – la durata complessiva è di appena settanta minuti − e in una chiava di lettura estremamente universale e trasversale, nonché con un titolo differente: Battlefield, ovvero campo di battaglia.

La storia rimane la medesima dal momento che il riferimento è sempre al Mahābhārata, ovvero al più grande poema epico della letteratura mondiale scritto nel corso di circa otto secoli e che consta di oltre centomila strofe.
Siamo nuovamente dinanzi alla grande guerra di sterminio che dilaniò la famiglia dei Bhārata. Da una parte cinque fratelli, i Pandavas, dall’altra i loro cugini, i Kauravas, ovvero i cento figli del Re cieco Dhritarāshtra. Lo scontro vede l’utilizzo da entrambe le parti di armi di distruzione di massa e si conclude con la vittoria dei Pandavas. Una vittoria amara dal sapore insostenibile di una grande sconfitta umana: milioni di cadaveri cadono sul campo di battaglia. Ma il prezzo più duro da pagare non è la morte di queste vittime, bensì la permanenza in vita del primogenito dei Pandavas, Yudishtira, che dopo tutto lo scempio avvenuto deve salire sul trono e del vecchio re Dhritarāshtra, che ha appena perso tutti i suoi figli.
Zio e nipote si trovano così a condividere lo stesso dolore, l’identico dubbio, il dilaniante rimorso: era davvero necessaria quella guerra o si sarebbe potuta evitare? E dopo tutto il male compiuto, è davvero possibile vivere e non sopravvivere a se stessi e agli altri, riconciliarsi con la propria coscienza, trovare una pace interiore stabile, non apparente?
A distanza di trentadue anni dalla prima versione e di secoli dalla scrittura del poema, le domande dell’essere umano rimangono sempre le stesse, così come gli errori commessi si ripetono, lasciando che la storia si confermi alunna e vittima dell’umano agire, invece di farsi maestra.
Così è chiaro che le orribili vicende raccontate in Mahābhārata potrebbero avvenire anche oggi e nel concreto accadono per davvero: pensiamo ad Hiroshima, o alla Siria, o alla Palestina.
Ancora più chiaro è, inoltre, che i fatti di cui parliamo, le guerre fratricide, gli odi, i risentimenti, i rimpianti, le follie accecanti, la sete di potere, siano tentazioni appartenenti non soltanto all’ordine dei massimi sistemi politici e sociali, ma facciano parte nel piccolo della vita di ognuno di noi: si trasformino in abusi di potere, episodi di violenza domestica, xenofobia, stalking, violenza sessuale, difficoltà di gestire le relazioni umane, scompensi affettivi, fragilità psichiche, ansia, stress, depressione.
È dunque questa estrema attualità delle vicende della famiglia dei Bhārata a garantire un valore universale indiscutibile al poema indiano: ed è questo sicuramente il motivo per cui Peter Brook ha deciso di mettere nuovamente mano alla sua opera somma. Non siamo davanti ad un’operazione di nostalgia, ma al frutto di una sintesi attraverso l’abolizione di dettagli contingenti: è esplicativo che tutto questo Brook lo metta in atto ora in un’età matura e saggia che impone la semplificazione, l’eliminazione del superfluo, l’affermazione del necessario.
Quattro sono gli attori che Peter Brook sceglie per Battlefield: Karen Aldridge, Edwin Lee Gibson, Jared McNeill e Larry Yando.
Pochi sono gli allestimenti: velate le luci, minimi gli oggetti in scena. Qualche palo di legno sul fondo, una panca al centro, il tamburo giapponese suonato da Toshi Tsuchitori, che scandisce il tempo, dà ritmo al racconto, favorisce i cambi.
Fondamentale all’evoluzione della narrazione è il geniale, ma anche semplice utilizzo delle coperte, rigorosamente Ikea; è a quest’ultime che viene affidato il compito di segnare i cambi di scena, dare spazio ai flashback, portare in luce piccole storie quasi fossero parentesi, microracconti nell’immenso poema indiano.
È per esempio dall’utilizzo della coperta come mantello che viene fuori la narrazione della fiaba buddista de Il falco e il piccione: una storia semplice che racconta della bontà dell’antico Re Sibi che piuttosto che consegnare il piccione al falco predatore, decide di immolare se stesso all’animale affamato. Il sovrano sceglie in sostanza di conferire alla sua vita pari valore di quella del piccione. È giusto un atto del genere o è un eccesso di giustizia, un atto di zelo, non richiesto e, quindi, non necessario?
Una storia del genere viene riportato da Brook proprio per riflettere su quanto l’uomo subisca spesso la tentazione della giustizia ad ogni costo finendo col rimanere vittima di questa stessa tentazione e perdendo così di vista il limite esistente tra l’essere giusti e l’essere folli. Come a dire che spesso essere giusti è doloroso e che talvolta è necessario correre il rischio di essere ingiusti, ovvero umani, vivere, accettare la sfida giorno per giorno, non attribuire colpe né a se stessi, né a fattori altri, sapere che ogni essere umano nasce libero di sbagliare, ma anche di fare del bene.
Ma torniamo alle coperte.
È sempre a quest’ultime che Brook dà il compito di dare corpo e voce, attraverso gli attori, ai complicati temi della morte, del tempo e del destino, a cui ogni uomo ricorre per spiegare la vita, invece di viverla e di accettarla per quello che è: imperfetta e mai uguale a se stessa.
Ultima apparizione delle coperte e successiva sparizione delle stesse.
Ora Peter Brook le usa per una causa nobile che si rivolge direttamente al pubblico in sala: verso la fine della rappresentazione, infatti, uno degli attori parla improvvisamente al pubblico chiedendo se tra di loro ci siano dei poveri. Nessuno risponde, segno evidente che i poveri non sono tra loro perché non hanno la possibilità di andare a teatro; così l’attore chiama uno spettatore fra tanti e gli affida l’intero mucchio di coperte chiedendogli di donarlo a chi ne ha bisogno. Ecco che il teatro si fa metateatro e chiede al pubblico un atto concreto di redenzione dal male, un gesto di responsabilità nei confronti dell’umanità: lo spettatore avrà o non avrà consegnato le coperte ricevute a qualche bisognoso? Il dubbio è lecito, la speranza è che le coperte siano arrivate nella giusta destinazione.
Come finisce la pièce?
Yudishtira è al centro della scena ancora a caccia della verità suprema su come gestire la vita e le proprie responsabilità di sovrano; a risposta dei suoi dubbi arriva un vecchio saggio che gli dice di non essere impaziente, di sedere ed ascoltare.
È a quel punto che la scena viene dominata dalle percussioni al tamburo di Toshi Tsuchitori, essenziali e necessarie. Utili alla comprensione dell'umana natura che impiega anni nell’impazienza di conoscere il proprio destino e non considera come unica risposta alla vita, la vita stessa. Uomini impazienti e per questo fragili ed egoisti, alla ricerca di risposte non necessarie e di una giustizia d'essere non sempre indispensabile, molto spesso egoistica. Uomini dimentichi che la vita è un assolo di percussioni, lento e poi intenso, intensissimo, poi di nuovo lento, poi lentissimo. Ad un certo punto finisce.
Battlefield è ormai giunto al capolinea; il tamburo di Tsuchitori manda tutti a casa e ci lascia con un grande dubbio irrisolto: che fine hanno fatto le coperte?




 

Battlefield
tratto da Mahābhārata
e dal testo teatrale di Jean-Claude Carrière
adattamento e regia Peter Brook, Marie-Hélène Estienne
traduzione e adattamento in italiano a cura di Luca Delgado
con Karen Aldridge, Edwin Lee Gibson, Jared McNeill, Larry Yando
musiche Toshi Tsuchitori
costumi Oria Puppo
luci Philippe Vialatte
produzione C.I.C.T. − Théâtre des Bouffes du Nord
in coproduzione con The Grotowski Institute, PARCO Co. Ltd / Tokyo, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Young Vic Theatre / London, Singapore Repertory Theatre, Le Théâtre de Liège, C.I.R.T., Attiki cultural Society / Athens,Cercle des partenaires des Bouffes du Nord
paese Germania
lingua inglese con sopratitoli in italiano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Bellini, 20 febbraio 2018
in scena dal 20 al 25 febbraio 2018

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