“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 10 February 2018 00:00

Half Italie agli Oscar

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In questo fiorente inverno cinematografico, avendo la fortuna di vivere nella “città italiana del cinema” (Bologna), mi sono recata a vedere anche il film di Guadagnino, Call Me by Your Name, con cast, sceneggiatura e produzione internazionali. Il regista è italiano (palermitano con madre algerina), così come italiana è l’ambientazione del film: la provincia cremasca, dove egli vive. Per completezza aggiungo che la storia non è originale, bensì tratta dall’omonimo romanzo di un ebreo sefardita nato ad Alessandria d’Egitto, e di adozione statunitense, André Aciman. Costui ambienta il suo romanzo in Liguria e ciò spiega l’altrimenti più misteriosa usanza di parlare francese della famiglia, ovviamente ebrea (ebrea-americana).

La congruità linguistico-geografica è meno convincente nel contesto provinciale lombardo che in quello ligure, ma tant’è... Altra piccola schizofrenia è il cambio di lingue usate dalla famiglia: abbiamo capito che sono ebrei “superfighi” − colti, cool, open minded, linguisti, storici dell'arte, filologi, grecisti, filosofi, archeologi, musicisti... e chi più ne ha, più ne metta! − ma parlare all’inizio del film in francese e poi, sempre più frequentemente, in inglese (tra loro e col mondo di fuori, che si muove fideisticamente dietro le lingue – e i vezzi o vizi − degli intellettuali ebrei) è un po’ esagerato e, soprattutto, non ha una chiara motivazione, né tanto meno un obiettivo. È puro esercizio di stile, esibizione di stile, anzi.
E veniamo alla storia, riassumibile in poche righe: in un’estate del 1983 la famiglia Perlman, in vacanza nell’enorme tenuta di campagna italiana, riceve come ospite il ventiquattrenne studioso, sempre ebreo-americano, Oliver, che desidera approfondire la sua formazione con Mr. Perlman, esperto classicista. Da lì, passando attraverso un’iniziale antipatia del giovane Elio nei confronti del prestante e baldanzoso americano e attraverso siparietti goliardici estivi tipicamente Eighties (quelli, sì, hanno esercitato sulla sottoscritta un dolce e partecipato ricordo, ma siamo nel territorio della pura soggettività della memoria e dell’emozione), i due si avvicinano. Poi – finalmente, quasi alla fine del film – si uniscono e, da ultimo, fanno pure una piccola fuga d’amore, prima che Oliver rientri negli USA. Il ragazzone è ovviamente fidanzato e, al termine della pellicola, dirà al telefono ad Elio che la primavera successiva si sposerà. Da qui l’adolescenziale – comprensibilissima, eh! – disperazione muta di Elio che piange per gli infiniti minuti finali, immobile, davanti al camino − sempre della tenuta estiva; solo che intorno c’è abbondante neve, per cui evidentemente o la famiglia Perlman trascorre anche le vacanze invernali nella solitaria Pianura Padana imbiancata, o, addirittura, vi si è trasferita. A questo atroce dubbio non so dare risposta.
Il film, al di là della liscia trama dell’amore − non contrastato, anzi assecondato dai genitori − tra i due giovani maschi, racconta in una babele di lingue usate a caso, un'Italia descritta a uso e consumo dello stereotipo novecentesco degli americani. È un’opera che si bea di una costruita realtà scenica che anela alla perfezione ma che non riempie la percezione. L'Italia rappresentata è un’Italia rurale sempre uguale a se stessa, dove però, inspiegabilmente, quasi tutti sono poliglotti. I protagonisti sembrano dei magnanimi colonialisti che godono dei frutti della terra mediterranea e addirittura pescano nei lombardi laghi resti pregiatissimi di statue antiche.
Gli unici uomini eterosessuali sono il povero, eterno (pure pel nome) Anchise e  un insopportabile, isterico, polemico, rumoroso e logorroico uomo di mezza età anti-craxiano ma pro-boh... dipinto dell’italiano medio, sempre per gli immaginari transoceanici. Per il resto, oltre alla storia tra Elio e il giovane Oliver, c’è la comparsata a cena di una coppia amica di famiglia composta da due uomini, e persino il padre di Elio, nell’unico dialogo degno di questo nome del film, alla fine si scopre latentemente gay... una ecatombe dell’eterosessualità, insomma! Gli ebrei sono e sanno tutto, e, soprattutto, non hanno in realtà bisogno di lavorare, perché sono ricchissimi; passano quindi il tempo a leggere filosofia, arte e letteratura in tutte le lingue. E poi vi sono cose messe sulla scena a caso, come il quadro di Mussolini in un androne di palazzo presso il quale i due giovani innamorati si rifugiano in una afosa mattinata estiva dopo chilometri e chilometri di bicicletta, chiedendo un bicchiere d’acqua alla vecchina seduta davanti ad esso. Che dire: il quadro non ha molto senso (né vi è alcun riferimento) storico, né vi è alcuna correlazione con la vicenda filmica, né con la vecchina in questione.
E la scenografia alla Camera con vista? Sempre questa rappresentazione bucolica e storicizzata dell’Italia... ferma però a visioni e ideali ottocenteschi. E poi, la pasta fatta a mano dalle donne del popolo... tutto troppo scontato. Proprio a uso (e consumo, soprattutto!) degli americani.
E il chiamarsi l’uno col nome dell’altro, operazione che oltretutto dà il titolo all’opera? Un espediente strappalacrime che non trova purtroppo riscontro nella trama, né, tanto meno, nel non-pathos che caratterizza il film: lento, noioso, prevedibile, privo di suspense.
A salvare il film la soave voce e la sublime musica di Sufjan Stevens, grande artista che non scopriamo certo oggi, e che è pure troppo in tono con una natura serena e misticheggiante e con una passione fin troppo educata, che quindi passione non si può definire... La sua Mystery of Love in particolare è eccezionale, ma rischia di perdersi nell’autocompiaciuta, piatta perfezione estetizzante del film. Tutto è fin troppo educato, si diceva, tranne quando diventa irrefrenabile auto-erotismo nell’adolescente e desideroso Elio che lo porta a intrattenersi sessualmente con una pesca... La spudoratezza del gesto però si perde in un’atmosfera patetica e risibile: anche questa scena rientra in un mal riuscito tentativo di rappresentare l’erotismo.
L’identificazione del pubblico può avvenire o per vicinanza (etica, politica, personale) alle questioni relative all’orientamento di genere, o invece per un certo sentimentalismo genuino, intatto, post-adolescenziale, non certo per spessore della storia né per altri contributi di tipo storico, psicologico in un senso un po’ più strutturato, o anche solo meramente artistico ma di qualità.
Ovvio che i film possano piacere o meno, possano toccare sensibilità e momenti personali precipui, e ciò resta in un intangibile alveo di soggettività. Al di là del quale, però, esiste critica (anche latu senso... e quindi il suo diritto). E allora, bisogna dire che Call Me by Your Name (il titolo originale è in inglese, sì...) sembra un remake in versione omosessuale, e meno interessante, del celebre – e nemmeno imperdibile − Io ballo da sola bertolucciano. La sceneggiatura è piuttosto banale (tranne, come detto, per il bel discorso delicato e progressista del padre al figlio sull’assecondare se stessi, vivere il dolore, non evitarlo, ed essere ciò che si è), la scenografia da cartolina d’altri tempi, le lingue sono adoperate senza criterio, la storia non appassiona, la regia si autocompiace e si adatta alle richieste, o quanto meno alle aspettative, del mercato statunitense. Gli attori, nei loro ruoli, sono talmente compassati o caricaturalmente prevedibili da rappresentare un conciliante politically correct (e francamente nemmeno il pur bravo e tanto elogiato Timothée Chalamet è stellare, pur essendo candidato all’Oscar come miglior attore protagonista). Sotto tutti questi aspetti, il film è debole e certo non memorabile. La sua candidatura a ben quattro statuette (miglior film, miglior attore protagonista, miglioresceneggiatura non originale e migliore canzone originale − la già citata Mystery of Love di Stevens) mi risulta di conseguenza di ardua comprensione, eccezion fatta per l’ultima nomination, per la quale il premio sarebbe meritatissimo, essendo la canzone un piccolo capolavoro di musica, parole, melodia, talento, delicatezza, in perfetto equilibrio tra loro.

 





Call Me by Your Name (Chiamami col tuo nome)
regia
Luca Guadagnino
soggetto e sceneggiatura André Aciman, Luca Guadagnino, Walter Fasano, James Ivory
con Armie Hammer, Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel, Victoire Du Bois
fotografia Sayombhu Mukdeeprom
montaggio Walter Fasano
musiche Sufjan Stevens
produzione Frenesy Film, La Cinéfacture, RT Features, Water's End Productions
distribuzione Warner Bros. Italia
paese Italia, Francia, USA, Brasile 
lingua originale inglese, francese, italiano
colore a colori
anno 2017
durata 132 min.

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