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Monday, 22 January 2018 00:00

Illusioni, coreografie, apparenze di vita reale

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Mentre Karl (Sandro Lombardi) – un tempo giocoliere, star internazionale al Lido, a Baden Baden, a Londra – mette nel lettore il CD di Mosè ed Aronne, di Schönberg – “Eh, lo so, Brahms lo preferisci a tutti!” – suo fratello Robert (Massimo Verdastro) – ex attore interprete memorabile del Torquato Tasso di Goethe – sembra letteralmente ammosciarsi sulla sua poltrona: già poco prima, nel lungo monologo che apriva questo L’apparenza inganna, di Thomas Bernhard, per la regia di Federico Tiezzi, in scena in questi giorni qui a Napoli, al Teatro Nuovo, l’anaffettivo e solipsista Karl ci aveva avvertito: “Io posso ascoltare Schönberg per ore/lui si annoia...” e così, quasi per ripicca ad una osservazione di Robert riguardante il suo nuovo vestito scuro, inaugurato al funerale di Mathilde, moglie di Karl (“un vestito da società / come tu hai sempre odiato. / − Veramente? / − Sempre odiato questo tipo di vestiti! / − Questo tipo di vestiti? / −Ti sei sempre rifiutat / d’indossare un vestito così / − Veramente? / − Veramente! / − Può darsi che sia vero”) sceglie di ascoltare la musica atonale che profondamente annoia il fratello.

La scena descritta riesce probabilmente a dar ragione del mondo chiuso e asfittico dei due anziani fratelli viennesi protagonisti di questa storia, esemplificando molte delle caratteristiche del loro rapporto, somma di due solitudini che vivono un’apparenza di incomunicabilità – parlando ognuno fondamentalmente di sé e dei propri indicibili e inconfessati fantasmi, chiuso in una realtà che è tale, diventa tale, solo quando filtrata attraverso lo smisurato ego dell’uno o il patetismo dell’altro – Vittima e Carnefice (ma nella pratica è poi difficile distinguer sempre chi rivesta l’uno o l’altro ruolo), finendo per risultare alla fine, come spesso nei lavori dell’Autore viennese, le vite loro terribilmente simili.
I ripetuti spenti anancasmi, le fobie e manie loro, trasfigurate d’energia aggressiva – non era viennese pure Freud? – li caratterizzano in modo tuttavia diverso, obbedendo a connaturale difformità: “Pedante?... preciso!” Karl, molto interessato all’aspetto economico delle cose, ipocondriaco, invece, e melanconico, Robert, arrivando spesso a somatizzare il suo mal di vivere in una gonalgia, una fitta al fegato, un male d’aria affannoso, più idealista e lunare, vive nel rimpianto d’una recita di Lear, ed ora è troppo tardi, dimentica la parte, piange ascoltando Die grosse Glück, la grande, mancata fortuna. “Siamo relitti e crediamo / di esser geni dello spirito”, accomunati da una incipiente e maligna vecchiaia – “noi non dovremmo vivere / fino al punto che per tagliarsi le unghie / abbiamo bisogno degli occhiali” – vivono comunque con orgoglio e ironia d’intellettuali – sovente venata di sgradevole sarcasmo – i loro acciacchi (“con gli stessi occhiali con cui leggo Voltaire / vedo le mie unghie dei piedi!”), rimpiangendo che a tutti e due sia “mancato il calore di un nido familiare”, dopo aver abbandonato i genitori “scandalizzati” dalle loro scelte artistiche: ognuno “si è meritato il suo destino”, spesso in apparente astioso contrasto con l’altro – “... un tipico scapolo: / recitare davanti alla Regina d’Inghilterra! / Ridicolo: per tutta la vita sbagliare la esse... / recitare il Lear, / ridicolo: però il suo Tasso mi piacque / Torquato Tasso di Goethe / sì, mi piacque: era straordinario”.
Andati in pensione, i due si fanno visita il martedì e il giovedì, il martedì Robert va da Karl – “come odio questi martedì! / Ma i giovedì li odio ancora di più!” – il giovedì è Karl che fa visita a Robert: le loro case si rispecchiano simili nella reciproca, complementare diversità, arredate come sono ad immagine e somiglianza dei loro occupanti, ad ulteriore prova dell’impossibilità di concepire alcunché al di fuori del proprio ego; così se l’appartamento di Karl risponde al canone raffinato ed elegante che contempla mobili dalla linea sobria ma un po’ freddi e solenni, pieno comunque di memorie della defunta Mathilde, abiti di lei – che “non andranno all’asta” – fotografie, ricordini e la gabbietta del canarino Mattie, la stanza di Robert è più luminosa, con pochi mobili, qualche tappeto, un mobile bar. In entrambe le case due simmetriche poltrone accolgono i fratelli durante le loro visite, ciascuna con la sua identica abat-jour accanto; un albero di Natale, acceso e dritto al centro della stanza in casa di Robert, spento e sciattamente appoggiato in un angolo nell’appartamento di Karl, rinvia, ancora una volta, alla differenza nella similarità che così caratterizza i due fratelli, sottolineata anche dai vistosi cappotti rossi, identici, che i due indossano quando escono per recarsi dal fratello, segno d’una eccezionalità che sfiora una condivisa eccentricità: perché poi, s’intuisce che altre grandi possibilità di diversivi non sembrano ormai averne, i due, che rivivono insieme anche la presenza di Mathilde.
In effetti al triangolo drammatico del gioco psicologico in cui sembrano ormai definitivamente ingabbiati i due – non so se Thomas Bernhard conoscesse le teorie di Eric Berne, ma a me è sembrata, la rappresentazione teatrale, perfetta eco e calco della rappresentazione psicologica dei giochi di ruolo teorizzati dallo psicologo americano – manca un vertice, quello del Salvatore, cui sembra ben adattarsi la defunta Mathilde. La moglie di Karl, morta da poco, specchio fedele dei loro limiti e fallimenti, è rimpianta dal marito più che altro perché ormai i calzini rotti in punta non verranno più rammendati, ma “certo, lei suonava il pianoforte troppo male... / Mozart, violentare Mozart... / e voleva diventare una pianista! / Di domenica la sonata di Mozart / gliela lasciavo fare... / dobbiamo mettere in conto lo strazio / se viviamo con qualcuno”; più tenero, invece, sembra essere il ricordo di Robert, che ha apprezzato la cognata per le sue qualità, forse l’ha addirittura amata ma, intimorito dal sesso femminino, non ha avuto il coraggio di uscire allo scoperto, di prenderla con sé: questo è quanto si può ipotizzare più o meno fondatamente, perché nei fatti tutto rimane sospeso nel limbo delle cose non dette, sommerso dagli sproloqui sulle questioni senza importanza che i due si vanno dicendo, Karl reso ancora più rancoroso, sull’argomento, dal fatto che Mathilde ha lasciato la “casetta dei weekend” al cognato, per testamento: “Mi dà veramente fastidio / che l’abbia avuta Robert, nel testamento / non a me, ma a Robert, / l’attore che attirava l’attenzione su di sé / più per i suoi malanni / che per la sua bravura”.
Privi ormai della moderazione di Mathilde i due fratelli continuano ritualmente a rinforzare le loro rispettive posizioni, con comportamenti e inconcludenza reciproca, vacuo blaterare che può apparire di volta in volta, visto dalla platea, mortalmente noioso, paradossale e perfino comico, ma che altro non è che dolente riflesso di analfabetismo affettivo e comportamentale, vuota ritualità che pallidamente rimanda ad un passato ricco di contenuti e di arte, ma che oggi è spento, vacuo, àncora di salvezza contro un sicuro naufragio, antidoto alla solitudine, come dice Robert: “Non tanto l’arte quanto la possibilità / di stare regolarmente in mezzo alla gente / per paura di smetter da soli / di andare alla deriva”, gioco psicologico, passatempo dell’anima, ghirigoro dello spirito che imbriglia nel nulla una disperazione altrimenti fatale.
La coazione a ripetere, l’ossessione anancastica che sfocia nel rito maniacale e asfittico giunge all’esito paradossale per cui i personaggi diventano prigionieri dello spazio che dovevano abitare, come il canarino Mattie che Mathilde aveva scoperto, chissà come, cieco ad un occhio, metafora di una umanità talmente cieca da non accorgersi nemmeno di essere costretta nella gabbia delle proprie comode liturgiche credenze, del proprio pantheon di abituali sciocchezze, in un ciclo infinito che non prevede mete da raggiungere, ideali da perseguire, ma solo e soltanto luccichìi ingannevoli di miserrime deità false e bugiarde.
Anche il linguaggio e la forma della comunicazione assumono importanza nel trasmettere questo oppressivo senso di estrema, congelata rigidità: non a caso la musica ha un suo posto particolare nella pièce, oltre a quella dodecafonica di Schönberg, alla citata Die grosse Glück e ai cenni a Mozart e a Wagner, all’inizio si ascolta una romanza dall’operetta Der Obersteiger di Carl Zeller, Sei nicht bös’, un invito a non prenderserla tanto a cuore, nella vita. Ma è la stessa struttura del testo – in versi, che nell’originale tedesco presenta assonanze, rime interne, consonanze ed enjambement – che anche nella forma riesce a dar senso e ritmo alla rete di ripetute e ricorrenti ambiguità – tra verità e menzogna, tra detto e non detto, tra comico e tragico, tra grandezza e miseria – che si esplicitano in una tessitura continua di citazioni e frasi che potremmo definire di emotività preconfezionate, tipizzate e fissate, come cristallizzate in forme chiuse da un canone immutabile, un po’ come nell’opera lirica: e dunque anche qui vediamo, è facile accorgersene, come in una partitura d’opera, rincorrersi monologhi e romanze, caballette e concertati, dialoghi e duetti che danno l’illusione della vita vera ma che invece non solo non lo sono, ma non potranno mai diventarlo, un po’ come l’esilarante dialogo dei pantaloni da accorciare, esattamente studiato, anche nella metrica, come un estenuante duetto che, come un disco incantato, riparte ogni volta da capo in un loop tendenzialmente e virtualmente infinito. Illusioni, “coreografie della vita”, apparenze, solo apparenze di realtà.

 

 

 

L’apparenza inganna
di Thomas Bernhard
drammaturgia Sandro Lombardi
regia Federico Tiezzi
con Sandro Lombardi, Massimo Verdastro
scene Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
produzione Associazione Teatrale Pistoiese – Compagnia Lombardi-Tiezzi
lingua italiano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Nuovo, 18 gennaio 2018
in scena dal 17 al 21 gennaio 2018

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