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Friday, 29 December 2017 00:00

La fine che rischia una giovane compagnia

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I “Randa”, abbreviativo della parola “Randagi”, sono sette amici che fanno musica nei piccoli locali dell'hinterland milanese. Restano in sette fino a quando – notati da Mogol e dal produttore Oscar Prudente e allettati dalla promessa di una “prospettiva discografica a livello nazionale” – diventano in cinque, sacrificando alla stipula di un contratto due dei componenti: cambiano il nome in “Gruppo Italiano” e incidono il primo LP, che viene distribuito dalla Mara&C. (dove “Mara” sta per Mara Maionchi): Maccherock s'intitola; è il 1982. Il Gruppo Italiano fa così comparsa nella televisione commerciale, viene poi ospitato su Rai Uno, è citato come “band rivelazione dell'anno” da Renzo Arbore in un articolo pubblicato da Il Corriere della Sera, moltiplica i concerti a Milano. Sono i mesi del grande turbamento, quelli in cui il sogno di un manipolo di ventenni sembra si stia realizzando in concreto; sono i mesi in cui il Gruppo Italiano – preso dal vortice di questa crescita accelerata – pensa, scrive e incide il singolo Tropicana.

Il testo di Tropicana descrive l'incubo di una distruzione improvvisa: “Ad est” avviene un esplosione durante la quale nessuno reagisce e infatti “l'uragano travolgeva i bungalow” dice la canzone mentre “noi stavamo lì”, come al cinema, come “dentro a un film”. La lava ci divora, insomma, mentre noi balliamo Blue Gardinia, suonata da un'orchestrina jazz; intanto la tivù manda uno spot: “Bevila perché è Tropicana je”.
Del testo – all'orecchio collettivo, facile al fraintendimento – non rimane che il ritornello: Tropicana viene recepita come un canto vacanziero (l'isola, i cocktail, gli hula hop), diventa in un paio di settimane una hit, scala le classifiche, contende a Vamos a la playa dei Righeira il titolo di colonna sonora dell'estate; il Gruppo Italiano conquista le copertine dei settimanali, concede interviste promozionali, amplia il numero dei fan. Di loro cominciano a scrivere i critici; il nome del gruppo circola con ritmo crescente; qualcuno inizia a candidarli a premi e concorsi (il Gruppo Italiano è finalista a Vota la Voce e arriva secondo a Un disco per l'estate); aumentano gli inviti per cui ne deriva la prima tournée.
Il resto di questa storia è un insieme di ansie, di pretese e di fallimenti. La partecipazione prematura ai festival (Sanremo e Festivalbar), l'esigenza di una nuova produzione che risponda alle immediate richieste del mercato (Tapioca, che delude spettatori e critica), la fermentazione progressiva di contrasti interni: “Desideravo fare un genere di musica molto diverso da quello che volevano fare gli altri” ha dichiarato ad esempio Patrizia Di Malta che, del Gruppo Italiano, era la voce principale. Dopo un tentativo di recuperare le sonorità caraibiche di Tropicana (l'album Surf in Italy, sulla cui copertina i musicisti sono immortalati in costume, distesi su asciugamani dai colori acetati) e un quarantacinque giri di scarso successo (Sole d'agosto) il Gruppo Italiano si sfibra, poi si sfalda e scompare. È il 1984. Qualcuno continuerà a comporre e cantare, qualcuno scriverà testi per altri, qualcuno diventerà operaio metalmeccanico.
Di questa storia – durata due anni – oggi cosa resta? Un live in playback, registrato a Super Classifica Show e che su YouTube ha un milione e settecentomila visualizzazioni e qualche riga nei libri dedicati alla musica italiana degli anni Ottanta. Resta inoltre qualche foto ingiallita, restano vecchi articoli e resta il ritornello: “Mentre la tivù diceva / Mentre la tivù cantava / Bevila perché è Tropicana jè”.

 

“Il nucleo della compagnia”, leggo dal sito di Frigoproduzioni, “è costituito da Francesco Alberici e Claudia Marsicano”. Entrambi “studiano presso la scuola di teatro di Quelli di Grock, dove hanno modo di conoscersi”. La progressiva formazione, l'intesa artistica, la scelta di fondare un gruppo indipendente. “Nel 2013 lavorano per la prima volta assieme  e realizzano lo spettacolo SocialMente”.
SocialMente inizia girando per piccoli spazi milanesi, poi viene osservato e recensito da Renato Palazzi che in chiusura d'articolo descrive questo primo tentativo come un segno confortante “sul fronte dell'immissione di nuove idee nel teatro che si fa oggi”. In particolare “è notevole” – aggiunge Palazzi – “lo sforzo di auto-rappresentazione”, che viene “spinto alle soglie di una livida caricatura generazionale”.
La segnalazione di Palazzi contribuisce ad accelerare l'affermazione dell'opera e della compagnia: seguono la partecipazione ai festival, nei quali è più facile entrare in contatto con gli operatori e la critica web, una mini-tournée, le candidature e i premi: SocialMente è finalista a Confronti Creativi, a Teatro Presente, Tagad'OFF e Strasbismi; vince il Premio Anteprima, il Festival Young Station, il Premio OFFerta Creativa e Borsa Teatrale Pinciolli 2014; Francesco Alberici e Claudia Marsicano moltiplicano i loro impegni, il nome del gruppo inizia a girare, aumenta il numero di repliche, le interviste si alternano alle recensioni, la Marsicano sfiora presto l'UBU come attrice under 35. E poi? L'aggiunta di nuovi interpreti, la voglia di continuare il percorso intrapreso, l'urgenza di fare, provare, proporre: da un lato l'ansia e la voglia di non deludere le attese cercando subito qualcos'altro da dire; dall'altra l'esigenza pressante di un nuovo spettacolo che permetta la permanenza in circolo della compagnia.
Frigoproduzioni comincia così a lavorare a La palestra ma “ci rendevamo conto che era sbagliato, che non era il momento giusto per portarlo avanti” – afferma Alberici in un colloquio con Francesca Serrazanetti – “e che stavamo replicando i meccanismi di SocialMente” ovvero: il mercato forza la formazione di una poetica inducendo la compagnia alla serialità dell'offerta, suggerendo la ripresa dello schema che aveva funzionato in passato. Ne viene “una crisi” – contraddistinta da tensioni, dubbi e la sensazione di non uscirne – ed è nel pieno di questa crisi che un giorno capita di ascoltare Tropicana alla radio: “abbiamo deciso di lavorarci”. Centinaia di pagine di appunti, l'intervista all'autrice (Raffaella Riva), la scoperta di alcune similitudini e di certi sentimenti in comune: il contrasto, ad esempio, tra le urgenze creative e la ricerca del consenso, tra il bisogno di un giusto ritmo di lavoro e la paura “di essere fatti fuori” dal sistema, tra la libertà di sbagliare e un mercato che contempla sempre meno la fallibilità. In aggiunta il timore che SocialMente potesse essere ciò che Tropicana è stato per il Gruppo Italiano: il principio dal quale ha avuto inizio la fine.
Non a caso.
Tropicana di Frigoproduzioni comincia ostentando uno spazio di scena privo dei suoi interpreti; nella parte sinistra dell'assito si nota invece caos materiale: due sedie sono accatastate, una chitarra giace sul palco, due microfoni risultano staccati dalle aste. Residui di un'esplosione già accaduta, verrebbe da dire. Ma di che esplosione si tratta? La mia sensazione è che la premessa visiva dello spettacolo confessi al pubblico la crisi che la compagnia ha attraversato cercando di mettere in scena La palestra: i confronti e le liti, le proposte e gli errori, i rilanci e l'abbandono definitivo del progetto. Di quell'opera – che non abbiamo più realizzato – non resta che questo spazio in disordine. In proscenio, sulla destra, campeggiano invece quattro bottiglie di vetro con l'etichetta “Tropicana”: sono la locandina dello spettacolo, rimandano al frutto che deriva da questa crisi.



Tropicana
ha una struttura circolare (si apre e si chiude, cioè, con la stessa immagine, che funge dunque da cornice: il gruppo che fissa “l'esplosione atomica”, rappresentata da una luce giallo-intensa posta nell'angolo destro anteriore del palco); espone la propria teatralità (la relazione coi fari oltre-scena, l'entra ed esci continuo, l'uso dello slow motion, il riassetto a vista degli arredi); ha una drammaturgia che si dipana come una conversazione anti-drammatica, un insieme di ragionamenti che coniuga la denuncia di una condizione in digressioni ironico-contenutistiche, e che alterna dinamiche interne (i dialoghi) a una performatività sviluppata in esterno: ognuno degli attori, infatti, recita frontalmente un monologo sviluppato come un assolo e che serve da confessione: “Il testo l'ho scritto io”; “Io sono la cantante”; “Io interpreto il chitarrista del gruppo”; “Io sono il quarto elemento”.
Così facendo lo spettacolo compie un'autobiografia del presente utilizzando una biografia del passato. Non c'è tuttavia immedesimazione effettiva, ogni mimetismo è bandito, nessuno degli attori finge davvero e fino in fondo di essere uno dei componenti del Gruppo Italiano: ne riprende invece, in termini di sovrapposizione e per analogia, il ruolo umano e artistico perché emerga una crudele e amara dinamica della dissoluzione, il modo nel quale un collettivo di amici sogna, sfiora, afferra il successo nello stesso momento in cui viene a sua volta afferrato, dominato e sta per essere stritolato dal successo: non ne rimarranno infine che i cocci. Così – ad esempio – quando Claudia Marsicano dice “io sono la più conosciuta dell'ambiente. Tutti scrivono di me e sono io quella che vince i premi” aggiungendo che deve stare d'avanti per la propria fisicità e che la questione che la riguarda davvero è che “sono grassa, non che canto da dio” affronta il tema della propria presenza in palcoscenico rifacendosi nel contempo a Patrizia Di Malta, la cantante del gruppo cui toccava per le caratteristiche fisiche, prima che per le indubbie capacità canore, il ruolo di frontwoman; così quando Salvatore dichiara che pulisce il palco, accorda gli strumenti, aggiusta i microfoni, che cerca “di essere di aiuto” come può e che la sua funzione è principalmente quella di “creare equilibrio” narra il proprio arrivo in Frigoproduzioni rimandando tuttavia alla figura di Roberto Bozo Del Bo che – leggo da Wikipedia – era “il collante del Gruppo Italiano con il suo fare istrionico”.
Un'equivalenza potenziale c'è dunque alla base dello spettacolo: non siamo loro (“anche perché il Gruppo Italiano ha inciso Tropicana nel 1983, io sono nato nel 1988, lui è del 1987”) né siamo come loro – sia chiaro – ma saremmo potuti esserlo o meglio: potremmo esserlo ancora. Potremmo cioè essere una delle tante compagnie esordienti alla quale – dopo essere state supportate e pompate dal marketing (i comunicati che annunciano in prevendita il sold out, qualche candidatura ai premi, le prime interviste, addirittura un po' di guadagno e stasera la schiera di critici, seduti in prima fila) – non viene concesso il tempo di crescere, la possibilità di maturare, l'opportunità dell'errore.
Tropicana dunque non mette in scena il topos del fallimento del secondo spettacolo (“Progetti per il futuro?”, “Sto aspettando di sbagliare il secondo film” avrebbe demistificato Troisi in un'intervista dopo il successo ottenuto con Ricomincio da tre); Tropicana invece espone il rapporto costringente tra un acerbo gruppo di teatranti (formato da un autore, un regista, un'attrice e una comparsa) e il sistema nel quale questo gruppo sta entrando a far parte; un rapporto contraddittorio – aggiungo – perché basato, da un lato, su una richiesta spasmodica di innovazione (presunta o effettiva) che sia notiziabile e dunque vendibile e, dall'altro, sulla standardizzazione del rischio artistico perché sia adeguato alle richieste dell'audience.
Non a caso Tropicana inizia con il racconto di un sogno poiché “cominciare con un sogno è un canone artistico”, “lo hanno fatto tutti” – Shakespeare, Modugno, Martin Luther King, John Lennon, il Gruppo Italiano – e prosegue rivelando che i sogni sognati dagli interpreti sono già stati sognati da qualcun altro: “Come te la immagini la fine?” chiede infatti Daniele e la risposta di Claudia è già contenuta in un documentario passato in televisione mentre quella di Salvatore (una città in cui tutte le persone scappano, il cielo si oscura, iniziano a piovere meteoriti) rimanda a Indipendence Day. C'è in questo la dichiarazione di una difficoltà: rispondere alla richiesta incessante  (e reiterata di anno in anno) di una nuova produzione, più nuova delle altre, più nuova di tutte le altre novità teatrali che andranno in scena la prossima stagione. Altrimenti perché dovremmo programmarvi?
Non a caso Tropicana termina alludendo alla trasformazione di un'identità artistica in un oggetto da vendere: la scelta accattivante del nome, la strategia commerciale da adottare, l'utilizzo di una comunicazione retorica, invasiva, battente, anche scandalistica se serve, che si sviluppi per slogan e che permetta l'iniziale circuitazione del prodotto, che verrà offerto ai giornalisti da copia-e-incolla, da intervista promozionale o da trafiletto perché cresca ulteriormente il capitale di visibilità – ciò che Pierluigi Panza in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità finanziaria definisce “effetto di vetrinizzazione” – fino a raggiungere i programmatori dei festival, poi i proprietari dei teatri, infine (si spera) una parte del pubblico.
E nel mezzo? Tropicana offre lembi di litigi creativi (l'autore contro il regista, il regista contro l'attrice, la comparsa che cerca di esistere al cospetto del pubblico); citazioni di meteore artistiche (il brano The Loco Motion cantato da Little Eva, che nel 1962 raggiunge la vetta delle classifiche americane, vende un milione di copie, fa della cantante un'icona stereotipica-dance determinandone in un paio di anni la scomparsa dal mercato discografico); un frammento della Canzone di Azucena dal Trovatore – buono per contrapporre il sacrificio di un'artista, che avanza e che di fa vittima della vampa che stride, alla “folla indomita” che “corre a quel fuoco, lieta in sembianza”.

 

“Ricordo che trascorrevamo giornate intere a parlare, nel freddo di una sala presa in affitto, dataci in prestito o che coincideva con il soggiorno o la stanza da pranzo di uno di noi” mi ha raccontato una volta Tonino Taiuti e lo riporto qui adesso, col difetto della caducità parziale che ha la memoria.
“Ricordo che con Antonio Neiwiller, Silvio Orlando o Renato Carpentieri passavamo il tempo – perdevamo il tempo – a discutere e a metterci in discussione: ore, giorni, settimane a riflettere sull'attore, la recitazione, il testo e la regia, le luci, poi questo singolo movimento del corpo, l'esistenza o la scomparsa del personaggio, il mestiere, questa frase da inserire o da togliere; discutevamo dalla mattina alla sera, senza sosta e senza avvertire la stanchezza: discutevamo del valore del teatro, del motivo per cui avevamo scelto quest'esistenza e della maniera in cui valeva la pena tornare la prossima volta sulla scena”. “Ci aggiravamo poi per spazi minuscoli, semibui, quasi clandestini, perché i teatri maggiori non volevano saperne di ospitarci: ricordo ancora quando Moscato portò Scannasurice allo Spazio Libero di Vittorio Lucariello, a via Martucci...”. “Ci aiutavano a riflettere pochi critici, di cui attendevamo gli articoli per avere un risconto esterno, uno sguardo onesto e competente, che veniva da fuori: perciò già a tarda notte andavamo presso le sedi dei giornali, in attesa delle prime copie in uscita, o al chiarore dell'alba aspettavamo standocene di fronte all'edicola: afferrato il quotidiano, le dita sporcate dall'inchiostro, lo aprivamo direttamente alla pagina che ci interessava e iniziavamo a leggere con avidità, con rabbia e con fame,” per poi tornare nuovamente a riflettere: sulla vita o meglio sul teatro, “che per noi era la vita”.
Erano tempi di una teatralità rara quelli che mi ha raccontato una sera Taiuti, una teatralità che appariva – quando appariva – nel mezzo o al termine di processi creativi lunghissimi, non necessariamente destinati al tutto esaurito, al guadagno per il botteghino privato, alla contabilità del bilancio da certificare; erano tempi in cui il teatro riusciva – ai margini, dove si affannano da sempre i più giovani e gli esordienti – a non lasciarsi condizionare del tutto dai meccanismi dominanti, permettendo a chi cominciava il tentativo (difficilissimo) di provare ad essere coerenti con la propria arte, ancora in formazione. Erano tempi in cui – a sapersela conquistare e difendere, a costo di sacrifici – era possibile una clandestinità fattiva, incerta, non da terziario, liberatoria, quotidianamente fallimentare perché ogni volta rischiosa, nella quale era naturale inciampare nel mentre si cominciava il cammino. Erano tempi in cui il teatro lottava (anche contro se stesso) per trovare altre forme – le proprie umanissime forme – per comunicare in un contesto nel quale tutto stava cominciando ad essere informazione e smercio, svendita in offerta, accumulo di oggetti messi a scaffale e destinati a un acquirente che sarebbe coinciso con la Società intera; erano tempi nei quali – per dirla con Neiwiller – era possibile ancora sottrarsi al “tempo astratto del mercato” per costruire “il tempo umano dell'espressione necessaria”: l'unico modo per dare senso a ciò che altrimenti “muore ogni giorno omologandosi”.
Quel tempo (che ha lasciato di sé tracce intensissime, che solo lo scorrere degli anni inevitabilmente porterà alla scomparsa definitiva) è possibile in questo tempo? Negli anni di una riforma ministeriale che ha finanziato 55 teatri e 154 soggetti produttivi, ai quali ha imposto di effettuare complessivamente 12.095 recite; che ha alzato i massimali, moltiplicato le giornate lavorative, avallato definitivamente la pratica dello scambio e che ha continuato a finanziare a debito inducendo i direttori degli Stabili allo spreco finanziario, che ha puntato sulla stanzialità, saturando il mercato locale, che ha stabilito obiettivi di affluenza da raggiungere e che ha imposto la sovrapproduzione ai teatri supportati dallo Stato – perché lo Stato, numeri alla mano, potesse dimostrare di aver impiegato bene i soldi dei contribuenti – è ancora possibile per un teatrante cercare la propria espressione necessaria? Nel calendario scandito di volta in volta dai bandi (lo strumento con cui la società dello spettacolo sta diventando la società degli eventi) – bandi che impongono a una compagnia il titolo, il soggetto, il tema ora in voga e la durata, il numero di attori impiegabili e il numero di spettatori da ottenere – è ancora possibile per un teatrante ideare, pensare, realizzare liberamente la propria proposta, rischiando davvero nella forma e nel contenuto? Quanto è possibile che un teatrante dica “no, lo spettacolo non è ancora pronto” a un festival in un Paese nel quale i festival teatrali (quasi duecento in Italia) – data la deresponsabilizzazione dei Circuiti Regionali, che non assolvono alla loro funzione –  paiono l'unico mezzo rimasto per far girare e far vedere ciò che egli fa? Come è possibile rinunciare alla megafonia costituita dai Premi, che compartecipano al marketing promozionale imponendoti tuttavia il presenzialismo annuale, l'essere andati in scena – con un nuovo lavoro – tra ottobre ed aprile?  E dove proveranno gli aspiranti artisti di domani se continuano a chiudere i centri di formazione, se per l'improvvisa volontà di un assessore una rassegna scompare, se le opportunità di residenza si riducono, se gli spazi nei quali “farsi fabbri di se stessi” latitano, se i teatri abitati tornano ad essere disabitati e cioè svuotati della quotidianità dell'esistenza? In ultimo: che senso hanno i fondi pubblici quando non vengono impiegati per supportare il rischio compositivo (degli artisti, dei produttori, degli organizzatori); quando non vengono usati per consentire ad esempio a un teatro di  programmare in stagione una compagnia dal nome sconosciuto, un titolo che non si è ancora sentito, un autore alla sua prima scrittura? Sono alcune delle domande che mi restano in testa dopo aver visto Tropicana giacché (anche) dalla visione di Tropicana derivano; domande alle quali non so rispondere.
Mi restano in testa queste domande assieme a due frammenti con i quali chiudo l'articolo: anch'essi, in qualche modo, parlano di ciò di cui parla Tropicana.
Il primo riguarda Alessandro Serra che, nel ricevere di recente l'UBU come regista del miglior spettacolo dell'anno, ringrazia chi ha prodotto Macbettu (Sardegna Teatro) per aver “concesso a chi fa teatro la cosa più preziosa: il tempo”, senza il quale nulla di ciò che poi è avvenuto sarebbe potuto avvenire.
Il secondo è l'ultima parte di un testo scritto da Elena Lamberti, intitolato Spegnersi in assenza di mezzi e pubblicato in La terza avanguardia. Ortografie dell'ultima scena italiana. La Lamberti, dopo aver raccontato “gli ultimi anni” di alcune compagnie degli Anni Zero (da Menoventi a Cosmesi, da Santasangre a Muta Imago) termina elencando le contraddizioni e forzature di un sistema che a suo parere non funziona: “La richiesta di debutti, di site specific, di esclusive in molti festival” ad esempio “costringe alcuni spettacoli a bruciarsi nel giro di un anno, impone alle compagnie una produzione continua di spettacoli e progetti sempre nuovi” mentre i “bandi riservati quasi esclusivamente agli under 35 – lontani ormai dall'essere un'opportunità per una fascia di artisti esclusi da buona parte del mercato – tagliano fuori” autori, attori e registi “colpevoli di essere nell'età di mezzo”, tra i 35 e i 50 anni e dunque “non più giovanissimi e non ancora maestri”.
Inoltre.
“Agli artisti under 35”, scrive la Lamberti, “si riservano molto spesso sezioni o cartelloni specifici all'interno di alcune programmazioni, per i quali i curatori destinano cachet molto inferiori a quelli destinati agli adulti”: si genera così una riserva momentanea di prodotti, confezionati con l'impiego di manovalanza a basso costo e che ha la data di scadenza sull'etichetta. In questo modo e “nel corso di questi anni il fatto di essere giovani ed emergenti è diventato un dato strutturale, convertendo la contingenza dell'elemento generazionale in categoria estetica” e generando uno stato di gioventù forzata che il sistema teatrale utilizza ma di cui non riconosce il valore effettivo tant'è che non permette, alle compagnie che pure contribuisce a promuovere, “il tempo per il consolidamento del proprio linguaggio artistico”.
Una logica che da sempre è propria della maggior parte degli spazi privati e di quei luoghi di spettacolo la cui prima finalità (legittima) è di far quadrare i conti ma che sta cominciando a riguardare anche i teatri pubblici e quel pulviscolo ancora in salute costituito dalle realtà periferiche, dalle rassegne minori, dalle occasioni limitrofe: circostanze e realtà nelle quali era ed è (in casi sempre più rari, spesso più poveri e sconosciuti alle istituzioni) ancora possibile custodire le tecniche e imparare un mestiere, “perdere tempo” per dirla con Taiuti, permettersi una gestazione uterina e dunque comprensiva, tiepida e calma, protettiva.
È (anche per questo) che certe parabole artistiche terminano prima ancora di aver realmente cominciato mentre alcuni tentativi collettivi si frantumano presto, lasciando di sé solo qualche insistenza individuale: conseguenze da mettere in conto al riciclo consumistico che procede a getto continuo e che – come mai prima d'ora, forse – sta raggiungendo e intossicando anche certi margini celati, certe zone più nascoste, della teatralità italiana.

 

 




La foto di Tonino Taiuti, posta a corredo dell'articolo, è di ©DanielaCapalbo; le foto relative a
Tropicana sono di ©AngeloMaggio.

 

 

 

Tropicana
creazione collettiva a cura di
Francesco Alberici
drammaturgia Francesco Alberici
con Francesco Alberici, Salvatore Aronica, Claudia Marsicano, Daniele Turconi
scenografia Alessandro Ratti
in collaborazione con Sara Navalesi
disegno luci Daniele Passeri
aiuto regia Claudia Marsicano, Daniele Turconi
progetto di Frigoproduzioni
coproduzione Gli Scarti, Teatro i
con il supporto di PiM OFF, Residenza IDRA, Teatro di Reggello (FI), Settimo Cielo
nell'ambito di Progetto CURA 2016
lingua italiano
durata 1h 20'
La Spezia, Auditorium Dialma Ruggiero, 8 dicembre 2017
in scena 8 e 9 dicembre 2017

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