“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 13 December 2017 00:00

Di questo inevitabile oblio

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In Empire Milo Rau fa sorgere nella penombra del fondo di scena una palazzina diroccata mentre a metà palco quattro attori, in piena luce, abitano una cucina: la stanza che è già famiglia, la parte di casa in cui c'è più calore, le pareti tra le quali siamo abituati a intrecciare permanenze e confessioni quotidiane. Da questa cucina – allestita veristicamente – i quattro narrano, ognuno nella sua lingua, il posto e il tempo da cui vengono e dicono di una tentata, e personale, Odissea del ritorno: un ricontatto col passato che si rivela fisicamente impossibile poiché il loro luogo d'origine – il Kurdistan, la Grecia, la Siria, la Romania – nella forma in cui lo ricordano è nel frattempo scomparso: inghiottito dagli anni, ridotto in macerie dalla guerra, mutato irreversibilmente dagli uomini e dalla Storia. Quel che ci rimane quindi, perduto il fuoco originario, è la possibilità di farne almeno racconto, per citare Giorgio Agamben.

Il processo di riattivazione della memoria alla base di Empire somiglia, non badando naturalmente ai mezzi tecnici e alla tessitura drammaturgica, a quello che da quarant'anni contraddistingue la poetica di Enzo Moscato: un sopravvissuto alla sparizione del mondo cui apparteneva si definisce infatti Moscato, un naufrago che – certificata la disfatta – si assume il compito dell'evocazione, che si traduce nell'offerta fragile e momentanea del ritroso, di ciò che giace rimosso, di chi nel frattempo è sparito sotto un terremoto cronologico, culturale, politico e lessicale. Eccoli, dunque, i suoi ritornanti. Emma Dante da Vita mia a Le sorelle Macaluso – pensate alle ballerine che si sfrangiano danzando verso l'oscurità, dopo essere state presenze colorate e vocianti in proscenio – ha fatto i conti coi propri morti; Santeramo da almeno un paio di anni, attraverso scritture e riscritture (Il nullafacente, Tito, il recente Leonardo), pone in relazione l'importanza di ogni attimo di vita rimasto con la presenza incombente della morte; Mimmo Borrelli richiama sul palco (sovente incarnandole) le anime perdute di Baia, Bacoli e Torregaveta mentre Daria Deflorian e Antonio Tagliarini – qui, adesso, in teatro – componendo la Trilogia dell'invisibile partono da un reperto che testimoni la scomparsa, da un documento che attesti che la fine (di quel che esisteva) è avvenuta prima dell'inizio (di questo spettacolo): il video di Café Müller di Pina Bausch; i taccuini nei quali Janina Turek ha messo in ordine la sua vita; l'immagine – strappata a un romanzo – di quattro anziane che, nella Grecia della crisi, decidono di farla finita assieme: noi ce ne siamo andate per non darvi altre preoccupazioni.
Esempi di un teatro ricordante, che ha nel ricordato la sua materia; esempi relativi a chi si impegna nel far coincidere (anche fallendo) passato e presente così opponendosi umanamente e artisticamente all'oblio. Esempi ai quali è possibile aggiungere anche Lucia Calamaro: in tal senso basterebbe ricordarsi della riapparizione di Virginie alla fine di Tumore – “Sono tornata; che volete?” − o il racconto, contenuto in Magick, delle madri dei bambini seppelliti al Varano di Roma: madri che se “stanno tutte lì, tutte insieme, belle e brutte, ormai tutte uguali, tutte scolorite dal dolore” e che non vogliono uscire dal cimitero, “non se ne vogliono andare, hanno paura, paura che i figli le chiamino e di non esserci, paura che si sveglino di colpo e si spaventino, paura che chiamino perché vogliono tornare, solo una volta, che poi non chiamino più, e di non esserci state”.
D'altronde “sto capendo questo:” – scrive la Calamaro ne Il ritorno della madre – “Io faccio un teatro per i morti, per parlare l'assenza e la mancanza, per fare compagnia, sentire di nuovo chi non c'è”. Si tratta di “un teatro di evocazione e rivelazione”, composto da “rapporti avuti, non avuti, immaginati, possibili con questi morti, rapporti loro con questa vita”. Così “colmo il vuoto” rendendoli, “se non proprio immortali, un po' meno morti”.
In particolare i morti della Calamaro sono i suoi morti. Il primo è “mia madre Laura, toscana, minuta, bella donna, arrivata nella capitale da un paesino del marmo di Carrara e morta di un Alzheimer precoce a cinquantotto anni”. Una donna – Laura – “morta sola e lontano, senza capire una parola, in esilio, in una clinica per malati terminali a Montevideo, in Uruguay”. Nelle figure femminili del teatro della Calamaro c'è dunque lei, “questa madre infelice e basta”, che “non ha lasciato tracce se non nella discendenza” e che, “senza che nessuno se ne accorgesse, è stata fatta a pezzi e poi mangiata dalla vita stessa”. Di lei “non è rimasto niente”.
Il secondo morto della Calamaro è suo “padre Ennio”, che vive in Argentina, sempre a bordo piscina”: “sfacciatamente fortunato nella sfortuna, personaggio da operetta con picchi da melodramma, sentimentale, vanitoso, di buon carattere, egoista, narciso, niente lo tocca davvero”: si tratta di un vivo sepolto nei recessi dell'anima giacché “io dico a mio figlio che suo nonno è con gli angioletti e non ho più alcun rapporto con lui”.
Sono loro che abitano la scena, che stazionano ai margini del palco o che risiedono tra le quinte di Tumore, Magick, de L'Origine del mondo – i testi della Calamaro che in questi giorni mi sono trovato a rileggere; sono loro che risiedono in una scrittura che usufruendo “del teatro, della sua carne” e del “suo imperativo di presenza”, compone “un'autobiografia di famiglia soggettiva, parziale, caotica, a volte apocrifa” dalla quale – di volta in volta –  emerge la malattia, lo strazio, la vergogna, la spirale di una sigaretta, la voglia di autoreclusione, questi libri che ho letto e i viaggi che non ho fatto, il cibo che ho mangiato stando in piedi davanti al frigo, le serate trascorse tenendo la schiena al termosifone, le notti in cui non sono riuscita a dormire, il dolore alle ginocchia, l'affanno, questo modo di dire, il film visto alla televisione, la citazione di una poesia, il picco d'ansia improvviso e il disfarsi progressivo del corpo, l'ultima parola che non ci siamo mai dette, il bisogno taciuto di te, la condanna di questa mia solitudine.
Ebbene.
In apparenza anche La vita ferma sembra teatro ricordante, l'occasione in cui qualcuno (un padre/marito e una figlia) tenta di tenere ancorato alla vita qualcun altro (una moglie/madre) che si è già inabissato nella morte: ci prova quel tanto che basta, almeno, per farne memoria e spettacolo questa sera. Ma è proprio così? Più ci ripenso e più ho la sensazione di una dinamica diversa, direi opposta: la Calamaro ne La vita ferma non tratta il ritorno di chi non c'è più ma, al contrario, mette in scena la progressiva sparizione di chi c'era, l'erosione lenta ma inevitabile delle persone che abbiamo amato, che ci sono state accanto giorno dopo giorno ma delle quali – così come le foto sbiadiscono, il nero del lutto stinge nel grigio e le lacrime sul nostro volto si asciugano – perdiamo progressivamente i dettagli del viso, quella posa del corpo, l'odore che aveva la sua pelle e il tono esatto della voce, la frase che mi disse guardandomi negli occhi, la nettezza di quel momento che – mentre accadeva – ero certo che non avrei mai dimenticato.


La vita ferma è composta da tre atti e mi sono convinto che il primo ed il terzo siano in relazione oppositiva tra loro.
Nel primo non abbiamo la compresenza tra un vivo (Riccardo) e una morta (Simona) ma la rappresentazione eccessiva del ricordo, quella dominante persistenza di te a tal punto assoluta, dolorosa e insistente che pare quasi che tu ci sia ancora, accanto a me, nella nostra casa, in questa stanza: mentre preparo il trasloco. Non te ne sei ancora andata, dunque, non perché grazie al miracolo (laico) del teatro tu sei tornata dall'aldilà ma perché di te io ricordo ancora tutto, al punto tale da averti davanti agli occhi. Di te ricordo il carattere fastidioso, impegnativo, nervoso; il modo in cui facevi battere la forchetta sui denti quando portavi il cibo alla bocca e la maniera in cui, quando mangiavi la carne, non la masticavi ma la ciancicavi; ricordo la passione per la danza e per i vestiti a fiori, la “fissazione per le fissazioni”, l'abitudine a fare sempre il contrario di ciò che ti chiedevo di fare; ricordo quando piangevi davanti al televisore – sentimentale com'eri –, di quando di notte ti aggiravi in vestaglia per casa, dei caffellatte che prendevi a ogni ora del giorno, lasciando la tazza dappertutto; ricordo i libri che mi hai chiesto in prestito e che non hai mai letto, quelli che hai cominciato e abbandonato dopo il primo capitolo, quelli che hai acquistato tre volte e quelli che hai terminato e che amavi perché si potevano tenere in una mano, piccoli come sono. Ricordo come riposavi al sole, con le gambe chiuse, le palpebre abbassate dolcemente, il sorriso accennato, la testa inclinata sulla mia spalla destra o incassata nel mezzo del mio torace – mentre nostra figlia faceva rumore per svegliarti – e ricordo la tua incapacità di salutare gli altri senza impacciarti, ricordo i tuoi occhi verdi e i tuoi capelli neri, raccolti in uno chignon; ricordo il profumo che usavi e che non mi piaceva; ricordo i dolori che avevi ai muscoli, la tua passione per questa lampada, la poltroncina, la cesta, i quadri orrendi di tua nonna. Ecco, io ti ricordo a tal punto da poter replicare perfettamente la prima volta che ci siamo visti e parlati, al planetario: la tua tuta argentata e la mia camicia incolore, la frase che ho usato per avvicinarmi (“Bello questo cielo stasera”), la mia incapacità di attirarti e la noia che hai provato; ricordo quando ti ho sfiorato con l'indice destro il braccio sinistro e quando abbiamo parlato di nostalgia, ricordo che a un certo punto ti ho stretta ai fianchi, che ti ho invitato a bere qualcosa di caldo e che tu eri convinta che le stelle fossero “tutti i morti, anche i futuri, si, anche quelli che sono ancora vivi”. “Hai capito?” poi mi hai chiesto e io ti ho risposto “Ho capito” anche se non avevo capito.
Così, in mezzo a questi trentuno grandi scatoloni bianchi pieni di oggetti, cioè di cose conservabili – cose che durante il trasporto rimarranno mute e identiche nella loro consistenza inanimata e materiale – ci sei ancora tu: come fossi ancora di carne, come fossi ancora tiepida, abbracciabile, come se con te potessi ancora sorridere, litigare e discutere. Ci sei ancora tu “in questi primi mesi che sono davvero difficili”, “in questi giorni” nei quali – “ogni volta che mi guardo dentro, anche quando starei cercando me, anche quando avrei assoluto bisogno di me” – io “sbatto su di te” e così “il tuo apparire non si controlla più”. “Io mi ricordo tutto” Simona, le dice a un tratto Riccardo: io ricordo “tutto quello che posso”.


Nel terzo atto – in cui il tempo trascorso viene incarnato dalla figlia Alice: ora adulta ed incinta – il corpo di Simona si è fatto cenere, la cenere è stata seppellita in un tumulo ma il tumulo non si trova: “La tomba di mamma dove sta?”. Così abbiamo un marito/padre che non ha “più niente da ricordare” e che alla figlia dice “io non credevo che i ricordi potessero finire, esaurirsi, svuotarsi del loro capitale emotivo, diventare estranei” e abbiamo una giovane donna che invece – troppo piccola per avere immagini chiare, privata com'è stata dal padre di episodi, leggende familiari, fotografie “a cui attaccarmi” – è costretta a realizzare un'idea prefabbricata della madre – “alla russa, in bianco e nero, coi capelli biondi tagliati male, imponente di petto, strizzato in un tailleur gessato grigio topo” – che in niente corrisponde a ciò che in vita era la madre. L'impossibilità pirandelliana che la vita si arresti in una forma, diremmo da cultori teatrali; soprattutto il fatto che il dolore, insopportabile, si fa sopportare mentre il mondo ricorda che occorre procedere: gli studenti corrono stamattina verso la scuola, le auto ingolfano di nuovo le strade di traffico, sul ballatoio i vicini stanno litigando, due amici si siedono al bar all'angolo per prendere un caffè, ieri il Napoli ha perso con la Juve, oggi piove, tra poco è di nuovo Natale.
Così un giorno “la testa va lì e tu non soffri”, ti accorgi che “non senti niente, zero fitte, nessuna voglia di vomitare, solo l'immagine casuale, per lo più quotidiana, della persona una volta così indispensabile” e che da troppo tempo – “da troppa vita” – non c'è più. È la qualità cancellatoria che ha in sé l'esistenza, che ci rivela che ciò che ritenevamo assoluto invece è un effimero e che, per dirla con Ortega y Gasset, ci avverte che “non abbiamo che la nostra storia” ma che la nostra storia “non ci appartiene”.
“Dimenticheranno.” – fa dire non a caso quel poeta della lontananza e del perduto che è Cechov a Ol'ga in Tre sorelle dopo che tutti sono partiti, Mosca è rimasta una chimera, l'opera sfuma e il sipario è già pronto a richiudersi – “Sì, ci dimenticheranno. È il nostro destino, non si può fare nulla”: “il tempo passerà e noi scompariremo per sempre; dimenticheranno i nostri volti, le nostre voci e come eravamo”.
E il secondo atto? Qui la Calamaro offre invece uno scampolo della vita che fu ma non si tratta – badate – di un lacerto qualsiasi: è il momento preciso nel quale la malattia si insinua nella quotidianità modificandone il corso, il proseguimento, il destino: il momento nel quale il corpo di Simona diventa una preda, morso lentamente da un carnefice infra-costole silenzioso.
Ne La vita ferma dunque non c'è quel che abbiamo, ad esempio, in Tumore – l'offerta esplicita di un corpo giunto allo stadio terminale – ma la condivisione del corpo quando inizia a consumarsi, divorato dall'interno; per dirla meglio uso le parole che impiega la Calamaro ne L'Origine del mondo: “Non lo so, non lo so quanto ci mette un libro a cadere dal suo posto nello scaffale, quanti giorni, settimane, ci mette a preparare la caduta, di quanti millimetri scivola ogni giorno prima di raggiungere l'angolazione del suo squilibrio definitivo e cadere”. Ecco: il secondo atto de La vita ferma ci mostra l'inizio della caduta del libro, il primo millimetro di spostamento, il principio del crollo.
Il resto della drammaturgia è una reiterata elencazione di aggettivi (strumenti di una qualificazione parziale, dunque inadeguata e imperfetta); è una trama di ritorni caratterizzanti (dalle altre opere tornano infatti il mestiere dello storico, la paura di sapere della malattia, la passione per il sole, l'insonnia, l'uso degli ambienti interno-esterni della casa, il ricordo del primo incontro, tornano i vestiti a fiori, il citazionismo letterario, l'accenno al Verano, il nome di un amico: “Graziano”); è un continuo accenno alla dimenticanza svalutativa degli altri (esempio: gli autori che abbiamo letto ma di cui storpiamo nome e cognome; i libri di Dostoevskij, che si trovano sempre a metà prezzo; il comodino su cui vengono appoggiati i volumi: un “dimenticatoio naturale”) ed è – il resto della trama – il racconto della cancellazione progressiva delle tracce che lasciamo nel mondo: perché, ad esempio, nel terzo atto il padre regala alla figlia degli “stracci d'autore”? Perché gli stracci – lo spiega la Calamaro ne L'Origine del mondo – “ci parlano indirettamente della Fine”: “Cosa puliscono in fondo? Il nostro passaggio. Se ci pensi bene, ci cancellano. Tutta una vita a cercare di esistere, di definirti, di darti un senso e poi invece una casa pulita, ordinata, è una casa che non dà segni della tua vita di umana” (è in tal senso che va letta la bianchezza assoluta della scena).
Il ricordo di chi abbiamo conosciuto passerà così come noi passeremo e, coloro che ci ricordano, a loro volta passeranno: infine, a meno che nel frattempo non avremo prodotto qualcosa di immortale – a meno che non avremo scolpito La Pietà, scritto Delitto e castigo o composto la Sinfonia n. 9 – di noi rimarrà poco, poi meno ancora, poi quasi niente e, infine, niente davvero.
Così d'altronde la vita si depura dalla vita, lasciandoci andare.



Infine.
Detto della ridondanza letteraria del testo – una caratteristica messa in risalto da tutti coloro che hanno recensito lo spettacolo prima di me (anch'io, in alcuni momenti, ho fatto fatica a seguire il dettato) –; una ridondanza di cui, va detto, la Calamaro è consapevole (“Stia un po' zitta”; “Scusi, ha ragione, esagero sempre, devo stare più zitta” leggo non a caso in Tumore) e la cui spiegazione si trova forse ne L'Origine del mondo quando un personaggio, citando Freud, ricorda che “mentre nel silenzio parla la pulsione di morte” invece “nella parola si annida la spinta vitale”: parlare dunque vuol dire respingere la fine, (r)esistere ancora; detto inoltre della bravura degli interpreti e detto della consapevolezza che la Calamaro, come autrice e regista, ha del teatro inteso come spazio materiale nel quale si sta in scena, al cospetto del pubblico con cui si interagisce direttamente (basta notare che il punto nel quale il marito apprende della malattia della moglie è lo stesso nel quale risiede la tomba della donna) aggiungo solo una considerazione ulteriore che riguarda il vero dramma – la tragedia inevitabile – che contraddistingue il teatro della Calamaro e che consiste nel fatto che si tratta, appunto, di teatro.
Non è letteratura, che resta a scaffale, foss'anche a riempirsi di polvere; non è cinema, proiezione riguardabile; non è musica che, registrata, puoi tornare ad ascoltare quando lo desideri; non è pittura, scultura, architettura: produzioni ordinabili in un catalogo ed esponibili in un'infilata conservativo-museale. Il teatro – quest'arte umana quanto è umana la nostra vita – si disfa col suo darsi: dal buio il teatro proviene, si mostra, parla, agisce, argomenta, mette in gioco se stesso, fa ridere o piangere, scorre, argomenta, si avvicina alla fine spesso indugiando proprio per cercare di non finire, poi comprende, si arrende, retrocede, zittisce, rallenta ogni gesto, si blocca, sparisce, tornando al buio dal quale è venuto, sperando in una permanenza postuma negli altri. Così, da mezzo per ricordare, il teatro (se lascia nel cuore qualcosa; se è valsa davvero la pena incontrarlo) diventa oggetto di ricordo e – come tale – si affida agli unici testimoni possibili: gli spettatori seduti in platea questa sera.
A loro toccherà fare memoria di com'era, salvandone qualche immagine che sarà soggettiva, sfumante, spezzettata. E nel tempo tuttavia anche queste immagini – così come questo articolo – tenderanno a disgregarsi e del teatro che abbiamo veduto e vissuto, del teatro che abbiamo visto vivente, non ne rimarrà nulla.

 

 

 

leggi anche:
Lucia Medri Lucia Calamaro. Dell'insostenibile ricordo (Teatro e Critica, 21 settembre 2016)
Graziano Graziani Il work in progress di Lucia Calamaro e il destino dell'editoria teatrale (Minima&Moralia, 10 febbraio 2016)
Andrea Porcheddu Inequilibrio, Lucia Calamaro e la crisi della sinistra (glistatigenerali, 14 luglio 2016)
Giulio Sonno La mollezza dell'inerzia (Paper Street, 4 luglio 2016)
Massimo Marino Lucia Calamaro: i morti e quelli che restano (Doppiozero, 30 settembre 2016)
Attilio Scarpellini L'ironia, il rumore, l'invisibile (Doppiozero, 7 luglio 2016)
Francesco Bove La vita ferma (L'armadillo furioso, 30 novembre 2017)
Sarah Curati Metafisica del dolore. I vivi, i fantasmi e il ricordo nel teatro di Lucia Calamaro (Paper Street, 1 giugno 2017)

 

Le foto a corredo dell'articolo sono di: ©SilviaBaldini (La vita ferma); di ©MarcStephan (Empire); di ©CarmineMaringola (Le sorelle Macaluso)

 


La vita ferma. Sguardi sul dolore del ricordo.
di
Lucia Calamaro
regia Lucia Calamaro
con Riccardo Goretti, Alice Redini, Simona Senzacqua
scene e costumi Lucia Calamaro
contributi pitturali Marina Haas
assistente alla regia Camilla Brison
produzione Sardegna Teatro, Teatro Stabile dell'Umbria
in collaborazione con Teatro di Roma, La Chartreuse-Centre national des écritures du spetacle
e il sostegno di Angelo Mai, PAV
lingua italiano
durata 2h 30'
Napoli, Piccolo Bellini, 28 novembre 2017
in scena dal 28 novembre al 3 dicembre 2017

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