“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 01 December 2017 00:00

Ricordando un concerto dei Cure

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Correva il giorno 20 giugno 2004, era domenica, e ci fu un evento: Napoli accolse per la prima volta i “sopravvissuti del dark”: i Cure! Provo a riavvolgere il filo della memoria, a giocare col tempo, a fare del passato presente. Scrivo perciò al presente di quel concerto. Come fossi ad occhi chiusi, rivivendolo adesso.

Al venticinquesimo anno di carriera, finalmente, l’unico gruppo della scena dark che non era – e tuttora non è − affondato nelle paludose radici di un’essenza destinata per definizione al (sofferente, sanguinoso) esaurimento, si è affacciato, d’estate, nella mediterranea Napoli, con un concerto per di più all’aperto.
Verrebbe da chiedersi, a latere e a priori: di dark cosa è rimasto? La domanda giusta, forse, è quanto di dark abbia in effetti contraddistinto, nel corso della loro carriera, l’estetica dei Cure. La grande abilità di Robert Smith, infatti, è sempre corrisposta alla sua poliedricità: fin dal principio, il leader dei Cure ha mostrato una salvifica propensione all’agile convivenza di differenti stili: dagli esordi punkeggianti alla breve, intensa fase propriamente dark (con la trilogia, nel triennio 1980-1982, degli splendidi Seventeen Seconds, Faith e – non plus ultra – Pornography) fino al pop punteggiato di venature talvolta color rock melodico e alternativo, talaltra funky e swing.
E tutto questo viene prodigalmente offerto (il concerto, come abitudine ancora resistente, ha avuto la durata di quasi tre ore) all’entusiasta pubblico napoletano. In più, si nota con piacere una ventata musicale nuova nei pezzi del loro dodicesimo album, The Cure: una carica di rock sferzante, una voce e degli arrangiamenti giovani ed energici. Non a caso, infatti, il produttore di quell’album è lo stesso dei Korn e dei Limp Bizkit, Ross Robinson. Sarà l’atmosfera tangibile di festa e allegria, sarà una sua propria solarità derivante dalla tranquillità dell’età matura, ma il timido Robert – anima delicata, irrinunciabile, eclettica della band − a differenza del suo solito e quasi assoluto silenzio nei confronti del pubblico, si lascia andare con le parole (i rituali ringraziamenti, ma anche accenni di dialogo) oltre che con il canto e con la chitarra.
La professionalità e generosità del gruppo, la consolidata collaborazione che è da tempo “complicità sonora”, la vivacità delle nuove canzoni, il ripetuto stupore provocato dalle tante/vecchie perle degli anni ’80 e ’90 rendono questa serata davvero bella. La vicinanza del mare, il calore di Napoli, la brezza estiva che si sente come una carezza sulla pelle hanno fatto il resto, lasciando un dolce ricordo indelebile nella memoria di quanti hanno preso a parte all’evento.
Tra i pezzi storici suonati, Lullaby, Disintegration; From the Edge of the Deep Green Sea, Boys Don’t Cry, Just Like Heaven, Plainsong, Faith, One Hundred Years, A Letter to Elise, A Strange Day, Charlotte Sometimes e l’immancabile capolavoro minimalista e profondo, A Forest: canzoni molto differenti le une dalle altre ma tutte invidiabilmente eterne, importanti per delineare i tratti interiori di un gruppo tra i più originali, acculturati, longevi e sensibili della storia musicale contemporanea.
Napoli e i Cure, dunque: un connubio insolito, azzardato; che nonostante la stridente contraddizione connotativa delle due realtà, o forse grazie ad essa, produsse − allora − una magia obliqua, che tuttora perdura.

 

 

 


The Cure Tour
The Cure
voce, chiatarra
Robert Smith
basso Simon Gallup
batteria Jason Cooper
seconda chitarra Perry Bamonte
tastiere Roger ‘O Donnel
Napoli, Arenile di Bagnoli, 20 giugno 2004

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