“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 16 November 2017 00:00

Storia e scena nella stanza (teatrale) di Punta Corsara

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La Storia
“Nel dopoguerra gli interventi culturali, così come quelli strutturali, rispondono a una sola parola d'ordine: ricostruire. Nella città martoriata sopravvissuta al secondo conflitto mondiale si assiste, fino almeno alla metà degli anni Sessanta, a un periodo di profonde trasformazioni, che avvengono in una realtà politica contraddittoria e instabile. Questa stessa realtà permette di ricostruire fisicamente Napoli attraverso una cementificazione selvaggia e incontrollata, il cui risultato è oggi sotto gli occhi di tutti e di cui, nel tempo, si sono subite le drammatiche conseguenze. Negli anni Cinquanta e Sessanta l'edilizia, in forma speculativa, diventa infatti l'unico settore dell'economia locale in evidente crescita. Si instaura così un clima di autorizzata illegalità che mette solide radici nella coscienza collettiva e raggiunge il suo apice sotto il governo del sindaco Achille Lauro, quando il potere politico inizia ad essere normalmente sinonimo di interesse privato”.

Comincia così La resistenza teatrale di Marta Porzio. Comincia descrivendo le colate di cemento laurine, le stesse narrate – con ottica posillipina – da La Capria in Ferito a morte: “Proprio intorno al '54 l'euforia del boom ha raggiunto anche Napoli e si manifesta nelle forme più schifose. Gli architetti fanno quello che possono, si mangiano il fegato ogni giorno, tutti mobilitati per evitare che una fontana venga trasferita nel posto sbagliato, per salvare una chiesa o un portale dalla distruzione, per far rispettare il Piano Regolatore ma come si fa? Volti le spalle e già è nato un palazzo bruttissimo che opprime una strada, rovina il paesaggio, ti distrai un momento e altri dieci piani abusivi si aggiungono al grattacielo, insomma ti pare di stare nella giungla, le case nascono come la vegetazione tropicale, a caso e senza un'idea e presto Napoli ne sarà sommersa”. “Via Orazio e via Petrarca”, ad esempio, e “la Mostra d'Oltremare, con le fontane luminose”, “le nuove case per i nuovi ricchi”, che “spaccano a metà costa la collina” e “il sottopassaggio”, “il grattacielo col ristorante all'ultimo piano” o “Palazzo Medina”, bucato dall'interno come una mela è bucata da un verme, e dal quale spunta “un muretto di sostegno, una ringhiera stonata, un balconcino abusivo” mentre i tre archi rendono la struttura “sensibile ai fermenti delle stagioni”. Segni con i quali La Capria incide il suo romanzo, segni “ancora discreti in una città dove il vandalo non teme lo scandalo”.
Segni dell'assalto portato a Napoli, il cui “edificio della diversità” – per  citare Goffredo Fofi – “ha cominciato a scricchiolare” a causa di “uno sviluppo edilizio inconsulto” che ne fa non più “una città ma una metropoli”, che “ingloba i paesi che l'attorniano, distrugge un ambiente, travolge un'antica agricoltura, nega servizi e preclude ogni possibile soluzione armonica del rapporto tra l'uomo e il suo paesaggio vitale”. Ne risulta, aggiunge Fofi ne Le lingue di Napoli, “la crisi della destinazione industriale di certe zone”, l'utilizzo del “denaro pubblico secondo interessi specifici privati” (un malaffare che contagia anche “gli strati sociali sino ad allora tenuti lontani dal flusso”) e “la costruzione, l'espansione e l'isolamento di tremendi quartieri periferici, destinati appena sorti, anzi prima di sorgere, al degrado”. “La città” denuncia Generoso Picone ne I Napoletani, “fu governata in spregio alle regole” e venne “devastata dal cemento”; la prova della devastazione è nei numeri: “Tra il 1951 e il 1960 furono rilasciate a Napoli 11.538 licenze edilizie” scrive Chiara Ingrosso, e furono autorizzate lottizzazioni per quasi due milioni di metri cubi coperti “senza alcun obbligo di urbanizzazione primaria mentre dal 1960 al 1967 furono rilasciate 6.230 licenze edilizie solo nelle zone coinvolte dal Piano Regolatore” e, nello stesso periodo, furono concesse lottizzazioni per oltre dieci milioni di metri cubi coperti, ancora una volta “senza obbligo di urbanizzazione primaria” e cioè di servizi di base offerti ai nuovi abitanti. “In definitiva furono edificati a Napoli 496.854 vani, pari a una città grande come Palermo”.
Uno stupro reiterato alla città – col consenso di parte della città – giacché avviene mentre: mentre si ritirano scarpe destre e pacchi di zucchero o caffè; mentre in trecentomila festeggiano l'elezione di Achille Lauro; mentre Nannina 'a chiattona guida lo sciame femminile che esalta, tra le risate generali e nel mezzo del centro storico, le doti sessuali del Comandante; mentre i frequentatori della Piedigrotta si rifanno gli occhi coi carri e i fuochi d'artificio; mentre gli abbagliati dalle star intravedono Napoli come Hollywood e la Dolce Vita al lungomare; mentre il pubblico affolla il Metropolitan, dove c'è il più grande schermo in Cinemascope d'Europa; mentre viene regalato agli americani lo scalo marittimo; mentre hanno successo i musicarelli, i lacrimevoli partenopei, le sceneggiate finanziate dal Comune; mentre i più facili alle illusioni della retorica commentano la diversità atavica di questa città, “perla unica del Mediterraneo”, “giardino sul mare”, “altro Stato dallo Stato”; mentre “Viva Lauro!” urla Totò durante una puntata del Musichiere; mentre vengono assunti altri mille dipendenti che portano la cifra complessiva dei lavoratori comunali a 12.351; mentre i tifosi esultano per i colpi di testa di Jeppson, i cross di Pesaola, i dribbling di Vinicio.
Mentre avviene tutto questo una ristretta consorteria digerente (“una cricca di amici, soci, fedeli e familiari” priva di scrupoli la definisce Percy Allum) composta da politici, burocrati, architetti, ingegneri, speculatori e protetta da una schiera di giornalisti corrotti o corruttibili – le cui redazioni dipendono dal Primo Cittadino (Il Mattino, il Roma, Napoli Notte) – si mangia Napoli: con voracità cannibale, accumulando capitali, censurando quasi ogni dissenso.
Lo stadio San Paolo, la Stazione Centrale, il secondo Policlinico, la fontana di piazza Trieste e Trento, i Colli Aminei, via Tasso, parte del Vomero, Posillipo e Secondigliano, La Loggetta, Ponticelli e il quartiere San Giuseppe-Carità, che squassa i Quartieri Spagnoli, gli edifici che devastano Piazza Mercato, Palazzo Decina, visibile anche da Corso Vittorio Emanuele, e i quattordici piani che all'improvviso governano via Francesco Giordana e ancora Scampia, il Rione Lauro, il Rione dei Fiori e la “Muraglia Cinese” ovvero otto fabbricati, alti fino a sedici piani, che da via Belvedere portano a via Aniello Falcone, toccando via Ricci e via Kagoshima: sono gli apici di un progetto che disintegra la forma originale di Napoli raddoppiandone la superficie urbanizzata, accentuando la segregazione residenziale, inghiottendo la provincia e disfacendo ogni equilibrio ecologico preesistente giacché determina anche “la distruzione irreversibile dei suoli della piana e della fascia costiera, i più fertili del pianeta” come annota Antonio Di Gennaro ne Lo stato della città.
Miliardi ministeriali distribuiti a pochi intimi, clientelismo e corruzione, incuria progettuale, falsificazione delle tavole urbanistiche depositate in Comune e all'Archivio di Stato (le zone agricole, rappresentate in giallo nel Piano Regolatore, colorate di verde da mani ignote e così diventate edificabili) producono dunque un massacro strutturale e culturale che durerà anche dopo Lauro, attraverso Gava e la DC, e che porta fino all'epoca di De Lorenzo, Di Donato e Pomicino.
Si tratta di una “lunga trama di rapporti patologici” tra politica, stampa, professionisti di settore cominciata negli anni Cinquanta e di cui resta traccia – prima ancora che nelle rare inchieste giornalistiche del tempo – nella parola meditata, levigata e scritta di certa narrativa napoletana: è la Napoli di Lauro che fa da sfondo ai racconti e ai romanzi di Domenico Rea, in cui s'ambienta Via Gemito di Domenico Starnone, che appare con Fabrizia Ramondino, che s'intravede in forma modernizzata nell'Eternapoli di Giuseppe Montesano, che torna nelle pagine di Elena Ferrante o viene citata in Non è un paradiso della Cilento; è dalla Napoli di Lauro che sorgono i Granili descritti nel '53 da Anna Maria Ortese ne Il mare non bagna Napoli ed è nella Napoli di Lauro che con la mente, la ragione e il cuore risprofonda Ermanno Rea scrivendo Mistero napoletano; è nella Napoli appena post laurina che si muovono i personaggi dell'Amara scienza di Luigi Compagnone: ecco, ad esempio, “le care signore” che “abitano a Posillipo e che si meravigliano di questo quartiere fatto di case al punto che sembrano incastrate l'una nell'altra. Pure, sono stati i loro mariti a costruire la Muraglia, essi, gli edificatori di Napolimegalopoli, i lords del boom edilizio. Ovunque hanno sventrato, atterrato, demolito” i fautori del boom: “Boom ricostruzione. Monarchia boom. Boom diciotto aprile. I' voglio bbene a Napule, i' voglio salva' a Napule. DC boom: noi vi salveremo dal Comunismo. E boom dei figli di papà: Papà Duce ci dette l'Impero, Papà-papà ci dà la decappottabile. Fanfani boom e boom case, grattacieli e casermoni”.
E il teatro? Arriva dopo. Abituato a fare i conti con la riemersione del disperso, con la marginalità tratta dall'oblio, con i materiali di risulta e gli spettri ritornanti, il teatro coglie soprattutto gli scricchiolii geologico-caratteriali, le fragilità umane e di soglia, i cedimenti lenti e imperscrutabili, il vuoto che si cela sotto la gran massa offerta dallo spettacolo e mette in scena perciò il tema del crollo, del dissesto avvenente o già avvenuto, così intrecciandosi alla restante narrativa che persevera con le conseguenze della politica di Lauro (certi racconti con cui Luigi Incoronato si ridesta dal silenzio che lo avvolge; Malacqua di Pugliese che, nel 1977, romanza la voragine che si squarcia a via Aniello Falcone e che rode un muretto a strapiombo, spacca un marciapiedi, minaccia un vecchio stabile, si mangia un uomo, paralizza una città): non a caso è con un terremoto che comincia la carriera di Manlio Santanelli (Uscita di emergenza), non a caso è nel fondaco di Scannasurece – tra mucchi di terra, pezze vecchie, sacchetti di spazzatura, cartacce, calcinacci, sedie rovesciate, una bandiera del Napoli, bottiglie semivuote – che appare il primo vero Personaggio di Moscato.

 

La Scena
Il cielo in una stanza, la drammaturgia scritta da Emanuele Valenti e Armando Pirozzi, ha una forma esile, è come un piano rialzato di un palazzo o una mansarda dichiarata abitabile, sembra cioè una scrittura sorta in aggiunta all'ampia tradizione drammaturgica su cemento e crollo a Napoli. Una quarantina di pagine, sette scene tenute in una cornice formata da prologo ed epilogo.
In realtà, a leggerla e rileggerla, la drammaturgia svela compattezza: le sette scene, infatti, sono legate l'una all'altra da richiami interni, corrispondenze e riprese di contenuti o di battute; prevedono un andamento in tondo che verrà rispettato da scenografia e movimenti attorali, per cui la fine riporta all'inizio; mostrano, ricercando l'origine vera delle frasi, riferimenti molteplici: dal Vangelo al sacrificio secondo Bataille, da Eduardo De Filippo alla costruzione del ponte d'Arta narrato dal Tommaseo nei Canti greci (“Se non immolate un uomo il muro non prende” leggo lì, “Se non ci immolate un uomo, il muro viene giù” leggo qui), da Tebe, Erinni e Eumenidi del teatro ellenico (c'è il tema edipico nella relazione generazionale che si instaura tra il passato e il presente) a Nicolas Black Elk/Alce Nero − esponente sioux dei Lakota, “tra i più influenti maestri spirituali del XX secolo” e cugino alla seconda di Cavallo Pazzo − di cui torna il concetto della circolarità “dei Poteri del mondo”: “Il cielo è rotondo, la terra è rotonda e così tutte le stelle”.
Cosa narra? Di una riunione di condominio che si svolge nel 1996, dieci anni dopo il crollo di questo stesso condominio. Il palazzo è abitato da sei reduci – oltre che da topi, colombi e scarafaggi – non ha più il tetto, è colmo di muffa e umidità, invaso dalla polvere, ha scale diroccate, pareti di calce e sabbia, mattonelle scrostate, tubi divelti, vetri infranti e tenuti insieme con lo scotch, cornicioni ridotti in briciole ed è sorretto da un insieme di assi di legno che, come per miracolo, ha trovato un equilibrio precario e perciò intangibile: al punto che, uno dei sopravvissuti – “il sotterrato” – dal 1986 non può uscire per non mettere a repentaglio ciò che resta della struttura e comunica perciò con gli altri attraverso un water. Sono questi – una donna che a causa del crollo è diventata vedova, un padre che nella disfatta ha perso sua figlia, il sotterrato, un hippy rimasto agli anni Settanta e una madre con suo figlio ormai adulto – delle rimanenze, uno scarto (sociale e umano) tra gli scarti (edilizi e periferici) di Napoli: si riuniscono, alla presenza di un avvocato, per decidere il da farsi (lasciare il palazzo o continuare ad abitarlo), si ritrovano invece a decidere se liberare o uccidere l'avvocato stesso, rivelatosi il figlio del costruttore.
C'è la Napoli di Lauro, ne Il cielo in una stanza, giacché le scene da flashback riportano al 1955/1956 – anno di costruzione dell'edificio diventato un Tafagno –, torna per allusione il Comandante, si citano il Rione dei Fiori e la Muraglia Cinese, si snocciola la formazione del Napoli di allora; c'è la città post laurina, nella quale la parola “democrazia”, associata alla parola “cristiana”, moltiplica corruzione e malgoverno; c'è in qualche modo anche la metropoli/metropolitana di Antonio Bassolino poiché nel 1996 il sindaco del “Rinascimento” (parola che torna durante lo spettacolo) si avvia a essere rieletto col 72,9%: promettendo al popolo il completamento della rivoluzione iniziata quattro anni prima, dando la sensazione invece di cominciare a gestire per compromissioni e furberie.
Ebbene: sul palco questo testo, a cui viene tagliato qualche momento, cosa diventa?
Da qualche anno mi sembra che Punta Corsara sia una delle poche compagnie napoletane, a vocazione nazionale, contraddistinta da una poetica (discutibile come ogni poetica) che risulta coerente di spettacolo in spettacolo.
Associata – di volta in volta – agli artisti delle saittelle degli anni Settanta, ai tentativi apparsi negli spazi off degli anni Ottanta o ai gruppi dei primi anni Novanta la poetica di Punta Corsara secondo me esprime un legame diretto con un teatro più atavico, lontano anche se perdurante nel tempo della teatralità partenopea: la farsa petitiana e post petitiana – dichiarata tra l'altro dai titoli di altri spettacoli – e quella tradizionalità drammaturgico-attorale (prima che registica) del gioco scenico della quale anche la “ricerca”  e la “sperimentazione” si sono nutrite e che da sempre innerva il tentativo di fare (nuovo) teatro a Napoli. Si tratta della relazione alchemica tradizione/innovazione che da queste parti non produce necessariamente divergenze e opposizioni mentre determina (con)fusioni, impurità, apparentamenti, compresenze, forme diverse realizzate con materiali vecchi e sempre buoni.
Punta Corsara rivela questo tratto nell'uso della macchina scenica, nel travestimento ostentato e dichiarato, con la pluristratificazione metateatrale della recita, l'utilizzo del lazzo, dell'iperbole e dell'esplosione mimica, il fraintendimento lessicale, la compresenza di italiano e dialetto, la coabitazione tra cultura “alta” e “bassa”, la realizzazione di maschere carnali, la passione evidente per la “robba di teatro” e per “l'apoteosi della cartapesta” (corde, funi, pezze, praticabili impolverati, frammenti scenografici, il battito del piede sul legname), l'ammiccamento al pubblico svolto però all'interno di un dispositivo che rimane confinato nel perimetro del palcoscenico evitando così i cliché presunto-contemporanei della frontalità, dei microfoni ad asta, della postazione del tecnico tenuta in palco, dei corpi nudi o seminudi esposti in proscenio.
Il cielo in una stanza propone perciò l'inseguimento, il corpo che si arrampica, cade o scivola, gli attori ora distribuiti nello spazio ora in fila, in cerchio o a schiera; propone il doubling attori/personaggi, l'uso dell'attrezzeria come quinta interna o come botola sviluppata in verticale – altrove momentaneo da cui si entra ed esce di continuo: “prendete la seconda anta a destra” – e propone il gioco con l'invisibile (la neve, la benzina), l'illuminotecnica come sottolineatura drammaturgica (il passaggio da luci calde a fredde quando cade l'escremento di piccione: “è un segno?”), l'associazione del fantastico al reale (uno spettro chiamato attraverso una seduta spiritica), il fermo-immagine individuale (“mi sono incantata”); propone la continua riformulazione di una scenografia composta per moduli, che mi ricorda l'accatasto di scorci di sughero del presepio (e che dunque fonde acqua vera ed “enteroclisma dietro”), per cui gli attori diventano anche i servi di scena dello spettacolo – e qui viene in mente il Prologo eduardiano dell'Arte della Commedia: “Mio figlio Gualtiero, nei panni di Romeo, non dovette inchiodare la ringhiera del balcone di Giulietta, che si era schiodata? Pubblico rispettabile, due minuti di pazienza, se no la povera Giulietta la portiamo al pronto soccorso”.
Il cielo in una stanza propone il monologo detto all'unisono, la stortura linguistica e l'incomprensione dialogica, il falso mostrato falso (un colombo di plastica, la mano che “sembra finta”, le dimensioni irreali di una porta o una finestra); propone il riutilizzo dell'oggetto praticabile (il secchio ammaccato usato come urna elettorale) e l'uso teatrale dell'attrezzeria esposta in uno scorcio pseudo-veristico (un lenzuolo funge da sipario, scoprendo l'avvocato legato a un totem); propone – vecchio trucco – il personaggio anticipato dal rumore emesso fuori scena (gli spari di un fucile), l'ostentazione dello stereotipo (le foto della Svizzera), la degradazione del classico (il teatro di Eduardo, la tragedia greca) che viene associata alla degradazione argomentativa (il peccato mortale paragonato alla “macchia di fragoloni sulla camicia buona”), politica (il canto rivoluzionario taciuto con lo sciacquone) e comportamentale (un personaggio che si pettina i peli dell'avambraccio leccandoli; un altro che usa il fazzoletto per soffiarsi il naso, prima, e asciugarsi il sudore, poi).
Propone infine il villano inurbato, conquistato dalla città e sottomesso alla città, l'essere che pur viaggiando dalla provincia verso il centro rimane comunque periferico, fisicamente proposto in basso sulla scena, la cui condizione perdurante associa resistenza e debolezza, violenza e civiltà, familismo e anti-familismo e mostra sopportazione del sopruso, spirito di sopravvivenza che si protrae per anni, incapacità d'associazione in un collettivo, rabbia recriminatoria, furbizia in accumulo e adeguamento individuale all'andazzo generale (la piscina costruita sul terrazzo, la serra posta sul ballatoio, i posti-auto scavati nei sotterranei e lo scambio tra voto e promessa di lavoro).
Figura che calca con tratti animaleschi un volto (sotto)proletario (il lavoro è uno sfruttamento discontinuo o a nero e non permette ascesa economica e sociale), il villano de Il cielo in una stanza – che pure ha letto i libri, conosce frammenti della Storia, traccia una croce sulla scheda elettorale – vede arrestarsi la sua vicenda a un passo dal possibile riscatto, un secondo prima di dichiarare al pubblico cosa intende fare, con chi vuole schierarsi questa volta. In ciò coerente proprio con i dettami della farsa, che è genere che non edifica, non propone soluzione, non imbastisce – eduardianamente – un finale rifondativo e non espone una conclusione morale nel terzo atto della commedia.
Ma – a differenza della farsa antica – adesso questo villano/proletario domina la scena interamente, senza condividerla col padrone: il Potere ha infatti già programmato, scelto, corrotto, agito, prodotto, accumulato, malgestito e rendicontato e, ora che tutto ciò che ha costruito viene giù, il Potere se ne sta al buio, sfugge all'indagine e al processo, ha fatto i soldi ed è sparito, espatriato in chissà quale paradiso oppure ha cambiato giacca, stemma e volto rendendosi irriconoscibile, ha stretto nuove alleanze, rendendosi ancora necessario, oppure si gode la propria intangibilità, in attesa di trapassare a miglior vita.
C'è questo, infatti, di spaventoso – e di terribile – che ci riguarda in quanto cittadini (e che ancora più riguarda la generazione dei trenta/quarantenni che si aggira adesso tra macerie politico-ideologiche, lavorative, culturali e urbanistiche) ne Il cielo in una stanza: che le responsabilità (certificabili, associate a un nome e un cognome, leggibili nelle date e quantificabili seguendo i flussi di denaro, rafforzate da compiacenze che risultano provabili) vengono scontate solo dal pesce piccolo, confuse nella perenne nebbia del trasformismo o associate all'erede e, nel contempo, restano come un fardello sulle spalle di chi ne rimane vittima.
Se ne stanno a mezz'aria, come pulvisolo inafferrabile, le colpe di coloro che furono i veri responsabili.
In basso intanto persevera, atroce e comica, la lotta quotidiana mentre in alto − per dirla con La Capria − “il cielo, inalterabile”, che “è sempre una gioia immensa, lontana, struggente”, ci sovrasta facendoci da tetto e illudendoci che una bellezza esista, che esista una giustizia.

 

 

 

leggi anche:
Michele Di Donato Coralità corsara (Il Pickwick, 4 agosto 2016)
Viviana Raciti Punta Corsara e la ragione in una stanza (Teatro e Critica, 16 luglio 2016)
Lorenzo Donati Il cielo in una stanza: l'inchiesta surreale di Punta Corsara (AltreVelocità, luglio 2016)

 

 

 

Il cielo in una stanza
di
Armando Pirozzi, Emanuele Valenti
regia Emanuele Valenti
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Sergio Longobardi, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
voce de il sotterrato Peppe Papa
scene Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
disegno e datore luci Giuseppe Di Lorenzo
organizzazione e collaborazione artistica Marina Dammacco
assistente costumista Nunzia Russo
organizzazione generale Roberta Russo
produzione Fondazione Teatro di Napoli, 369 gradi
foto di scena Giusva Cennamo
lingua italiano, napoletano
durata 1h 20'
Napoli, TAN Teatro Area Nord, 4 novembre 2017
in scena 4 e 5 novembre 2017

 


Armando Pirozzi, Emanuele Valenti

Il cielo in una stanza
prefazione di Stefano De Matteis
postfazione di Chiara Ingrosso
Napoli, Monitor Edizioni, 2017
pp. 61

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