“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 27 October 2017 00:00

Grazia Deledda, tra pagina e scena

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Il libro, la vocazione 
Il principio di Quasi Grazia non appartiene all'assito, non coincide con l'incontro tra la regista e gli attori, non ha la forma incerta e nascosta delle prove: ha invece sostanza evidente, è un oggetto concreto che resta e, dunque, funge da elemento a priori dello spettacolo e da testimonianza a posteriori del suo processo produttivo.

Quasi Grazia è innanzitutto il libro pubblicato da Einaudi nel 2016 e scritto da Marcello Fois; centoventitré pagine che paiono rispondere all'abitudine della memoria calendarizzata per la quale – spiando l'almanacco, sfogliando l'elenco degli italiani celebri – l'editoria e il mondo accademico, i teatri e il sindaco del paese si ricordano di un autore o un'autrice – nel caso: i novant'anni dal Nobel assegnato a Grazia Deledda, gli ottanta dalla sua morte – cogliendo l'occasione dell'anniversario per riproporne le opere, allestire rassegne, organizzare convegni, porre in piazza un busto commemorativo; ebbene: alla pratica della celebrazione annuale il libro di Fois prende parte distaccandosene, come un ospite che si accomoda ai margini della festa.
Quasi Grazia è infatti contraddistinto dalla diversità, al punto da aver messo in crisi anche l'editore se leggo dalla quarta di copertina la definizione più vendibile di “romanzo in forma di teatro” mentre si tratta di una drammaturgia vera e propria: con l'elenco dei personaggi, la divisione in tre atti, le didascalie, l'intreccio di battute. Così, mentre venivano pubblicati nuovi esempi di riscavo biografico e di rivalutazione saggistica – Deledda. Una vita da romanzo di Luciano Marrocu; Grazia Deledda. Una vita per il Nobel di Maria Elvira Ciusa; Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere di Rossana Dedola – Fois pensa al teatro come l'unico luogo in cui sia possibile far coincidere il passato al presente, l'unico che permetta alla Deledda, dal buio in cui è stata confinata, di tornare per un'ora e mezza alla luce: “Secondo me gli scrittori devono avere più peso specifico: il celebrarli in assenza è anche un modo di dimenticarli, di toglierli dalla questione mentre invece – poiché di Grazia Deledda bisogna recuperare molto tempo – occorre fare un'azione radicale, portarla in carne e ossa su un palcoscenico. È per questo che ho scelto la forma teatrale” ha infatti dichiarato in un'intervista.
Tre squarci, sottratti all'esistenza e reinventati (riumanizzati) per la scena compongono il testo: l'addio alla Sardegna, che avviene in un mattino di febbraio del 1900; il pomeriggio di attesa che precede la consegna del Nobel, nel dicembre del 1926; il giorno nel quale, in uno studio medico a Roma, la scrittrice e suo marito apprendono che non c'è più nulla da fare se non continuare a vivere finché il cancro, che ammala i seni della donna, gliene concede la possibilità. Con questi tre squarci – confinando l'azione in perimetri chiusi, concentrando il tempo in una relazione dialogica, caricando i discorsi di allusioni alle circostanze di allora e di riferimenti autoesegetici – Fois rende le tracce di una parabola esistenziale che coincide con l'ostinazione artistica: i libri, non a caso, sono caricati nel baule per il viaggio, nella prima pagina di Quasi Grazia; di un libro che sta scrivendo (Cosima) si accenna invece nell'ultima. Per questo all'opera di Fois – tra i tanti possibili – strappo il tema della vocazione.
La vocazione, lo scrive Jouvet in Elogio del disordine, non ha nulla a che fare con la giovinezza, lo stadio originario, il prima in cui si sogna il mestiere; non è una passione adolescenziale, non riguarda lo slancio dell'inizio o quell'insieme di egoismo, vanità e di pretesa ossessiva che contraddistingue ogni avvio – voglio essere un attore o un'attrice, devo diventare uno scrittore o una scrittrice. La vocazione la si misura invece alla fine, quando i giorni sono trascorsi e le opere compiute; è dopo la vocazione: dopo le fatiche, le lotte, i rimorsi, il successo e le crisi, la voglia di abbandono e il ritorno al lavoro, l'ostinazione a dispetto, l'esercizio continuo, i contrasti, la resistenza agli urti e alle scosse, agli insulti degli altri, al piacere effimero degli applausi, al riscatto appagante dei premi. Per questo la Deledda fondamentale del Quasi Grazia di Fois mi pare l'ultima, che non si preoccupa solo di ciò che dovrà lasciare post mortem (la casa di Cervia, adeguatamente tinteggiata; il versamento del conguaglio pattuito al giardiniere; le scuse mancate a un amico; il patrimonio diviso in parti uguali tra i figli; le proprie spoglie, da seppellire a Nuoro) ma che invece è animata da quello che, fino all'ultimo istante, sente come un bisogno, un diritto, un dovere: scrivere. Morire con la penna in mano, come capita a Simone Weil; morire portando avanti la propria recita – cioè il modo nel quale si è scelto di esistere e di appartenere al mondo – come fa l'interprete vecchiatto di Celati, il Minetti di Bernhard o l'attore che in una poesia Ripellino coglie tra le quinte, seduto su una panca, in attesa di entrare in scena ancora una volta, per compiere il suo numero.
È osservandola dalla fine, dunque, che questa storia ostenta la propria violenza e che la sua eroina mostra la propria tenacia. La storia accumula i dinieghi paterni, le rigidità della madre, la protezione limitante dei fratelli, le malignità delle zie e gli sguardi ammonitori dei vicini, la condanna pubblica del prete, il livore dell'intero paese nel quale “la notizia che il nome di lei era apparso stampato sotto due colonne di prosa destò un'esecrazione unanime e implacabile” e “il rogo di malignità”, “le supposizioni scandalose”, le offese a mezza bocca a cui aggiungere – diventata una scrittrice – l'impreparazione della critica, il maschilismo cartaceo di certe firme giornalistiche, l'odio crescente dei Nuoresi – la “puttana” se n'è andata a vivere a Roma, sposata a un continentale, ma insiste a scrivere di noi – e la misoginia dei colleghi, a cominciare da quella manifestata da Pirandello che mette mano a Suo marito per dileggiare la relazione tra Grazia Deledda e Palmiro Madesani, così trovando anche il modo di sfogare la frustrazione tragica dovuta al proprio inferno coniugale. Al centro di questa storia, contro questa storia, c'è lei – Grazia Deledda – che fantastica guardando i quadri di casa o le finestre chiuse, che spia le figure contenute nei volumi fraterni, che ama i quaderni più dei giocattoli, che immagina Roma – “Gerusalemme dell'arte” – osservando l'orizzonte marino, che scova le poesie scritte di nascosto dal padre emozionandosi, che passa le notti in cerca di una frase che non viene, per la quale il freddo non è freddo quando legge e che, leggendo alla luce fioca di un lume, rischia di perdere la vista quand'è adolescente. Lei che in segreto invia racconti alle riviste di moda, in segreto pubblica il primo romanzo, in segreto diventa scrittrice: “Il grosso pacco di libri piombò in casa come un bolide sconquassatore. La madre ne fu atterrita.” – leggiamo in Cosima – “La sera gli girò attorno con la diffidenza spaventata di un cane che veda un animale sconosciuto”.
“A noi ci preoccupava questa cosa di scrivere, di essere sulla bocca di tutti” dice la madre, cancelliera protettiva di una Sardegna ostile, in Quasi Grazia; “Ecco, è proprio questo che non sono riuscita a farvi capire…  che questa cosa di scrivere, come dite voi, per me è la più importante di tutte… è quella che mi ha tenuto in vita” le risponde la figlia, poco prima di evadere dall'isola.
“La nostra vita è una guerra” dirà in una lettera la Deledda a Marino Moretti: una “guerra interiore che ci torce tutti – da anni e anni – guerra di coscienza, di male e di bene, di grandezza, di ebbrezza, di pazzia. E poi tutto passerà, per tutto ricominciare: come fa il mare con le sue calme e le sue tempeste”. Era il 1915 e il pasto delle macchine impazzite, come Pirandello chiama il conflitto militare, era iniziato. Ma non è detto che nelle parole inviate a Moretti la Deledda non facesse riferimento anche all'altra guerra: quella combattuta in nome e a difesa della propria vocazione e della propria libertà.



La scrittrice, in teatro
“È tutta colpa di Marcello Fois. Quando al telefono mi ha detto che stava scrivendo un testo teatrale su Grazia Deledda e che voleva che lo recitassi io, gli ho detto di sì con l'incoscienza con cui si fanno i figli a vent'anni o ci si offre volontari al fronte”. Comincia così il blog – un insieme di appunti episodici e rivelatori – con cui Michela Murgia “invia cartoline” stando in bilico, per la prima volta, sull'orlo di uno spettacolo teatrale.
L'autore del testo dunque ha scelto l'incarnazione del suo personaggio o meglio ne indica il richiamo attuale, chiama in causa chi potrebbe, la persona a cui fin dal principio ha pensato. Lo scrive la Murgia ed è un atto di onestà, innanzitutto: abituati come siamo ad avere a che fare con produzioni che celano i motivi dei propri allestimenti, le ragioni che portano alla composizione di una compagnia, i perché in base ai quali questo ruolo è stato assegnato a questo attore. Ma il blog della Murgia è qualcosa di più: è il progressivo avvicinamento alla sera della prima, è un racconto della scoperta del teatro che non si vede (il training, le prove, la ripetizione, le fatiche e le attese, gli errori, la coabitazione e la confidenza dei corpi, le abitudini, i riti nascosti, il silenzio che c'è tra le quinte e “l'oggetto simbolico lasciato in camerino perché tu sappia che ti attende quando tutto sarà finito”) ed è una conferma – nell'atto stesso della composizione, giorno dopo giorno – della sua unica vocazione, che è quella di essere una scrittrice: nel durante realizzativo dello spettacolo la Murgia non si astiene dallo scriverne semplicemente perché non può. E d'altronde “io del teatro sono una visitatrice occasionale” afferma e, come tale, osserva stando dentro, partecipandovi, ma dando pure la sensazione di dover fuggire talvolta verso la soglia, come per riprendere una giusta distanza: come sentisse il bisogno di stare qui – vicino ma altrove – per osservare, capire, fermarsi un attimo, aprire il taccuino, annotare qualcosa perché qualcosa poi rimanga.
Nel blog risiedono frammenti eterogenei, che rimandano di volta in volta al testo, alle scene, ai suoni o i costumi, ai compagni di recita, alla relazione con la regista, a un mestiere che non è il suo e di cui non è in possesso, a un momento – uno solo – dello spettacolo. A me colpisce quando scrive delle esigenze che lei sente alla base di Quasi Grazia – “fare i conti” con una storia irrisolta, reagire a “ottant'anni di degradazione” e di dimenticanza, restituire la Deledda “alla memoria collettiva” – poiché si tratta dei fondamenti del teatro in quanto teatro: il recupero del rimosso, il furto al silenzio di parole che sembravano destinate a tacere per sempre, il passato (l'unico tempo che davvero ci appartiene) trascinato al presente (l'unico tempo conosciuto al teatro) e la carne offerta alla carne, il corpo (degli attori) dato in pasto visivo al corpo (degli spettatori) perché sia restituita dignità e diritto di esistenza a chi, questi diritti, li aveva perduti. C'è – in questo – la matrice atavicamente ribelle e resistente del teatro, la sua natura antiquata e testarda, il suo senso d'alta giustizia poetica e il paradosso per cui, atto destinato presto a sparire, il teatro si oppone ostinatamente all'oblio. E poi: c'è la questione del femminile.
“Oggi è il 146° anniversario della nascita di Grazia Deledda e io vado in scena per la prima volta nei suoi panni.” – scrive la Murgia il 27 settembre – “Addosso avrò però i miei gioielli, solo tre, non scelti a caso: richiamano altrettante scrittrici particolarmente importanti nel mio percorso perché mi sembra bellissimo onorare il personaggio di Grazia con oggetti che evocano le donne che scrivono oggi”. Gli orecchini che possiede identici anche Sandra Petrignani; il doppio filo di perline con nappina che le ha regalato Chiara Valerio; la spilla donatale da Donatella Di Pietrantonio: segni – è nei segni che si annidano certe verità del fatto teatrale – che evocano in scena le “donne che sanno passare l'eredità della memoria” e che “ricevono riconoscimenti per la loro capacità narrativa”; segni buoni “per rivendicare una genealogia troppe volte negata e ribadire qualcosa che non è per nulla scontato, nemmeno oggi che tutti i diritti sembrano acquisiti: mentre Grazia Deledda lottava per il suo sogno, costruiva le ambizioni perché tutte le scrittrici dopo di lei realizzassero il loro”.
“Non è vero che l'ho inventata io quella storia.” dice la Murgia/Deledda a suo fratello Andrea, in un punto di Quasi Grazia, alludendo al Frankenstein di Mary Shelley; “Ma comunque che l'ha inventata una donna è vero” aggiunge immediatamente.



La regia, lo spettacolo
Per decenni la critica ha promosso la scrittura di Grazia Deledda bocciandola: Capuana ne sottolinea l'inconsistenza dei personaggi, Verga la pone tra gli illustratori dolciastri della società rurale, Petronio ne denuncia l'incertezza compositiva, Cecchi la lingua spampanata, Croce ne sottolinea la modestia, Lawrence l'assenza di energia e Natalino Sapegno, che pure cura l'introduzione ai Meridiani della Mondadori, si esprime più sui limiti che sulle qualità dell'autrice: per tacere degli insulti in forma di recensione che le riservano Ojetti o Scarfoglio. Di volta in volta associata a qualche moda letteraria, la Deledda sembra inadatta a starsene dove questo cenacolo di uomini saggi e maturi ha deciso di collocarla: troppo “favolatrice” per i veristi, troppo verista per i decadenti, troppo decadente per i fabulanti; ora devota quanto una bizzoca alla Bibbia, ora dedita al paganesimo quasi fosse una strega; reazionaria nel far vincere i ricchi sui poveri, rivoltosa quando permette a un cane di azzannare il padrone, a un servo di ribellarsi al tenutario. Non sarebbe meglio provare a comprenderne la poetica senza porla al seguito di qualche scrittore, considerato ogni volta più grande di lei?
Nella regia di Veronica Cruciani a me sembra che la pluralità di motivi diversi o addirittura opposti che contraddistingue i romanzi della Deledda e che ha imbarazzato per decenni i critici letterari trovi una forma attraverso l'espressione in compresenza. C'è la vecchiaia atavica, qui impersonificata dalla madre/Lia Careddu – il cui corpo da Bernarda Alba asciugata assume la foggia del tronco nodoso, di un arbusto plurisecolare vivente – e il naturalismo animista, che si fa mare, pioggia, tempesta e vento in quanto sonoro fuori scena e lampi di luce fredda che tagliano d'improvviso il palcoscenico; c'è la predilezione della Deledda per la rotazione dei luoghi (i cambi scenografici a vista), l'assenza della linearità dell'intreccio (gli interstizi di buio nel passaggio da una scena all'altra), lo smascheramento del gioco narrativo (l'uso visibile dell'attrezzeria teatrale); ci sono il legame linguistico con la terra d'origine (l'utilizzo del dialetto, assente nel testo di Fois), l'attenzione per le relazione tra le figure (i contrasti e gli abbracci, gli sguardi e i silenzi), il gusto per il dettaglio spaventevole (l'eco sonoro di un tocco dato alla sedia), la coniugazione estetica del concetto per il quale “in questa vita come si arriva ci si congeda” (il ripristino, sul finale, dell'assetto iniziale), l'ostentazione della scatola cranica del personaggio (il ritorno dei morti, con i quali si dialoga) e la coesistenza tra gli scorci veristi – volutamente incompiuti – e l'apparizione momentanea di spettri, maschere folklo-totemiche e bestie umanizzate.
A conferma di ciò bastano i primi cinque minuti dello spettacolo, durante i quali ascoltiamo l'originale del discorso che la Deledda pronuncia il giorno del Nobel (funge da formula d'evocazione rituale, da premessa sonora alla visione); notiamo poi nell'angolo anteriore sinistro Michela Murgia che – in quanto Michela Murgia – osserva il pubblico in assenza di quarta parete e attende il completamento dell'allestimento del quale dovrà fare parte (la scrittrice che sta per accedere al teatro), allestimento che intanto sta avvenendo sulla destra, non appena sono terminate le apparizioni che richiamano ai personaggi delle novelle che verranno citate durante la messinscena: La martora, Il cinghialotto e Un uomo e una donna. Così, arretrati i pannelli verso il fondo, viene costituito un interno che richiama la casa descritta dalla Deledda in Cosima: fatta di “camere grandi e un po' basse” coi pavimenti e “i soffitti di legno” e le pareti “imbiancate con la calce” e – di questa casa – si offre la cucina che è, “come in tutte le case ancora patriarcali, l'ambiente più abitato, più tiepido di vita e di umanità”: due corbule appese, la damigiana impagliata e un fiasco per l'olio o per il vino adagiato per terra, una sedia di legno scuro, un bacile di ferro, un canestro di asfodelo, la macchina per cucire – anch'essa di legno – e un graticcio, calato dall'alto con un paio “di corde”, dal quale pendono sette padelle di rame, “accuratamente stagnate”, e due mestoli. Infine “la finestra, munita d'inferriata” verde (da porre in opposizione alla finestra, senza alcuna aggiunta carceraria, dell'albergo svedese).
È in questo modo che la regia si pone al servizio della storia, senza prevaricarla, compartecipando alla rialfabetizzazione sentimentale del rapporto tra il pubblico sardo e Grazia Deledda: un nuovo inizio, si spera, dopo quasi un secolo di relazioni schizofreniche e di rimozioni forzate.
La gestualità rivelatrice (esempi: la rabbia nei passi che contraddistingue l'ingresso in scena dell'Andrea di Valentino Mannias; la dolcezza delle posture e l'abbandono stanco del corpo messi in atto dal Palmiro di Marco Brinzi), l'uso dei canti a tenore che vengono campionati e posti in accordo con i suoni registrati della natura e un'illuminotecnica che alterna caldo a freddo, diurno e notturno,  investendo in pieno i corpi o facendone apparire sul fondale le ombre sfrangiate completano la resa della quale mi colpisce il modo in cui la Cruciani fa della Murgia alternativamente donna di quel tempo e donna di questo tempo: ora la colloca dentro, perché sia il corrispettivo della Deledda di Fois, ora le ritaglia momenti di uscita, frontalità da reading letterario e testimoniale, riemersioni dalla recita perché sia Michela Murgia, una scrittrice che sta scrivendo adesso e che la battaglia, identica e diversa, la combatte nel 2017: quando siede di lato, col libro di Fois tra le mani; quando è in piena luce, in proscenio, mentre il resto degli interpreti è in penombra (“Fanno così loro. Con una faccia ti dicono che ti vogliono bene, con l'altra faccia ti augurano di crepare”); in un passaggio dell'intervista durante la quale il giornalista svedese che interroga la Deledda diventa un giornalista italiano che interroga la Murgia, un passo compiuto da quest'ultima la porta dal centropalco in proscenio e – superata la soglia, cambiata la luce – la domanda diventa: “Quanto c'è della Deledda nella sua scrittura?”.

 

Infine, il futuro
Lucia Medri, scrivendone per Teatro e Critica, afferma che Quasi Grazia “corre il rischio di rimanere comunque confinato in una sottile autoreferenzialità. Assistere al debutto a Nuoro dà infatti la misura di quanto questo spettacolo, nella positiva risposta del pubblico che ha riempito totalmente il teatro per quattro serate, trovi nel territorio di appartenenza un forte sentimento di complicità. Gli spettatori partecipano” – aggiunge la Medri – “ridono o si commuovono perché si rispecchiano, sia nel pregio che nel difetto”. Io mi pongo una questione simile, dopo aver visto Quasi Grazia a Cagliari: come verrà accolto in “continente”? Le capacità d'impatto saranno meno intense? Che forza conserverà, questa vicenda così radicalmente sarda, fuori dalla Sardegna? Qui, sull'isola, anch'io ho notato il tutto esaurito e il silenzio assoluto, l'attenzione commossa, l'applauso partecipato, una parte del pubblico in piedi e il sonoro di qualche fischio di approvazione ma anche – perché no? – di condanna o rifiuto, di negazione ulteriore del ricordo, di ostilità perdurante. E d'altronde “se la sfida nei palcoscenici d'Italia è portare in giro lo spettacolo migliore che possiamo fare” annota la Murgia nel suo blog il 23 giugno, “la sfida a Nuoro è un'altra, più forte e necessaria: riportare Grazia a casa”: a testimonianza della differenza tra farlo qui e farlo altrove.
Tuttavia – lo sappiamo – il teatro non conosce il futuro e chiedersi cosa accadrà è un esercizio inutile: possibile vi siano stroncature approfondite o elogi ben scritti, possibile che qualche polemista usi una replica per puntare la Murgia chiedendo cosa ci faccia una scrittrice sul palco, così attendendola avanzare in proscenio come si attende il nemico uscire dalla trincea, mentre altri si confronteranno criticamente con la drammaturgia, la regia o le urgenze per le quali lo spettacolo è nato.
A me resta la sensazione di una vicenda dal ritorno comunque necessario in un Paese nel quale le donne continuano a guadagnare meno a parità di lavoro eseguito, sono in minoranza perpetua nei centri del Potere economico politico e finanziario, stanno perdendo in diritti (pensiamo all'eterologa e alle minacce “di coscienza” e di fatto che riguardano l'accesso all'aborto) e in cui anche la denuncia di uno stupro subito può essere collettivamente stolkerata perché eseguita in ritardo; a me resta la sensazione di una storia comunque emblematica −  inevitabilmente “didattica” nella forma giacché costruita per episodi e momenti esemplari − che dice (anche) della relazione odioamorosa tra certi scrittori e le proprie terre d'origine quando queste terre diventano argomento costante di racconto (penso a Napoli con Saviano, ad esempio); a me restano, infine, le parole in contrasto che ho ascoltato in foyer: il “maledetta Deledda”, in particolare, pronunciato da un anziano signore ben distinto, e il “è roba nostra” detto da una ragazza a un ragazzo, prima d'incamminarsi insieme all'uscita.

 



Quasi Grazia
di
Marcello Fois
regia Veronica Cruciani
con Michela Murgia, Lia Careddu, Valentino Mannias, Marco Brinzi, Giaime Mannias
scene e costumi Barbara Bessi
assistente scene e costumi Laura Fantuzzo
luci Gianni Staropoli, Loïc Hamelin
drammaturgia sonora Francesco Medda Arrogalla
assistente alla regia Lorenzo Terenzi
produzione Sardegna Teatro
lingua italiano, nuorese
durata 1h 30'
Cagliari, Teatro Massimo, 20 ottobre 2017
in scena dal 19 al 22 ottobre 2017

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