“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 19 October 2017 00:00

Seminare legalità, raccogliere teatro

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Spesso il Male mette in soggezione e induce al silenzio, a guardare da un’altra parte; spesso il Male, seppure non siamo noi a compierlo, seppure a noi stessi crei disagio, pratico oltreché fisico e morale, lo accettiamo con la rassegnazione che s’accorda all’ineluttabile, abbracciando con pavore il nostro senso di impotenza verso ciò che è più grande di noi e inveendo con rabbia verso chi a noi dovrebbe garantire tutela, ovvero lo Stato.

Spesso dimentichiamo che lo Stato siamo (anche) noi e che quelle tutele che spesso invochiamo come dovessero discendere dall’Istituzione in quanto tale, in realtà dovremmo essere noi stessi a garantircele, non solo chiedendole a gran voce a chi vi è costituzionalmente preposto, ma anche agendo nel nostro vivere quotidiano in ottemperanza a valori improntati a civismo e legalità e ai quali, talvolta, noi stessi veniamo meno, diventando più o meno complici, più o meno conniventi, più o meno acquiescenti e omertosi, così favorendo quel sistema che ammorba e vessa la nostra società.
Qualche volta però succede anche che il silenzio si spezzi e che il Male si taccia, anzi, venga messo a tacere e che l’eterna inesausta dualità veda prevalere il Bene. Come quando lo Stato riesce a vincere la battaglia, ad assestare una spallata e, come in questo caso, a confiscare beni appartenuti alla malavita; è il caso della Masseria Ferraioli, ad Afragola (un tempo Masseria Magliulo), un manufatto enorme (parliamo, con le sue pertinenze, di oltre 1300 metri quadri), un tempo destinato a fungere da base logistica per il malaffare, strategicamente localizzato in una zona decentrata e poco accessibile a meno di non esserne preventivamente a conoscenza. Parliamo della più grande struttura confiscata alla camorra e che è attualmente assegnata ad una rete di associazioni affinché le restituiscano vita e funzione sociale. E capita che, facendo “vivere” quel bene confiscato – e quindi di fatto “deconfiscandolo” si dia un segnale ulteriore alla malavita, dimostrando che dove lo Stato interviene, la vita – nel senso più estensivo – può rinascere.
Teatro Deconfiscato, alla sua seconda edizione, è questo seme gettato nel solco scavato dallo Stato nella lotta alla camorra; legalità e teatro sono accomunate da un’istanza simile, la necessità del racconto, della testimonianza: c’è bisogno che la gente sappia, che venga coinvolta. Teatro Deconfiscato, ovvero il teatro portato nei luoghi un tempo destinati all’illegalità, assolve a questo compito – e la risposta del pubblico sta lì a far da testimonianza ulteriore – ed è uno di quei rari casi in cui il teatro sa diventare e può dirsi ‘civile’ endemicamente, a prescindere da tipologia e fattura degli spettacoli che offre in visione; è uno di quei casi in cui il teatro è di per sé atto politico specifico e incarnazione di una funzione civile in aggiunta a quella che per sua stessa natura già possiede.
Una rassegna di tre spettacoli, ideata e diretta da Giovanni Meola e organizzata con cura minuziosa: tre spettacoli nell’arco di sette giorni, da mettere in scena proprio nell’ampio cortile della Masseria, tenendo di scorta il Teatro Gelsomino di Afragola qualora – come poi è stato per Albania casa mia – il meteo si rivelasse inclemente.
Assisto a Albania casa mia, di Alexandros Memetaj e a Dita di dama di Laura Pozone, dopo che ad aprire la rassegna era stato uno spettacolo dello stesso Meola (Il Sulfamidico): tre spettacoli attraversati da un filo comune e trasversale, ovvero tematiche strettamente civili come i diritti umani, l’immigrazione e l’emancipazione femminile, preceduti da altrettanti incontri con personalità di rilievo nel campo dell’informazione e della lotta alle mafie.
Al Teatro Gelsomino, prima di Albania casa mia, ascoltiamo il dialogo tra Paolo Siani – fratello di Giancarlo, giovane cronista ucciso dalla camorra nell’85 – e il giornalista Ottavio Lucarelli: poche parole, ma ficcanti, che ravvivano la memoria di un delitto di camorra che intese zittire chi la camorra la raccontava e la denunciava dalle colonne di un giornale, da una redazione di provincia. Una memoria ‘restituita’ – e ‘restituzione’ mi pare sia una parola chiave, insieme a ‘narrazione’ di tutta questa rassegna – affinché essa si perpetui, così come, attraverso Teatro Deconfiscato si restituisce in visione il teatro, o meglio, un certo tipo di teatro, ad un comprensorio di quasi mezzo milione di abitanti in cui non sussistono spazi teatrali adeguati o che abbiano una programmazione di livello.
E il livello degli spettacoli a cui assistiamo è decisamente buono; i due monologhi che ho modo di vedere, diversi per impianto e fattura, toccano le tematiche specifiche dell’immigrazione – e più in profondità dell’integrazione – nel caso di Albania casa mia e dell’emancipazione femminile – Dita di dama – raccontata attraverso le lotte per i diritti lavorativi di una donna.

Albania casa mia è uno spettacolo in cui un’esperienza di vita si traduce in dispositivo scenico, affidandosi alla voce narrante del protagonista, che si bipartisce in due narrazioni omologhe e sfalsate, che consentono di raccontare diacronicamente i sentimenti contrastanti di chi, in tempi e modi differenti, vive ed ha vissuto in bilico tra una patria d’origine ed una d’adozione.
È un viaggio generazionale, Albania casa mia, un viaggio tra Albania e Italia, tra chi (un padre) attraversò l’Adriatico una trentina d'anni fa o giù di lì per inseguire il miraggio di una vita migliore e chi (un figlio), ormai italiano sebbene nato in Albania, quello stesso viaggio lo compie a ritroso, come a voler recuperare e rimarcare un’appartenenza originaria. Ed è una narrazione bipartita e circolare, tutta incentrata su voce e gestualità dell’attore narrante, che troviamo accovacciato in scena all’inizio, intabarrato nella sua felpa scura con cappuccio calato in testa, che l’avvolge come un fagotto, come l’involto che lo abbracciava quando piccolissimo partì alla volta dell’Italia coi propri genitori; lo ritroveremo nella stessa posizione e con la stessa felpa calata in testa a fine spettacolo, allorquando il viaggio − simbolico e metaforico, oltreché effettivo e reale − approderà lì da dove era partito, dopo aver patito la discriminazione e il dileggio, le difficoltà proprie di chi, pur italiano sulla carta, è percepito come estraneo in parti d’Italia (come il profondo Nordest), in cui spesso si fatica ad elaborare categorie relazionali improntate all’accoglienza ed all’accettazione dell’altro. Memetaj racconta tutto ciò senza troppi fronzoli, ripercorrendo in maniera asciutta e pregnante un’esperienza di vita che è la propria, messa in relazione con quella paterna. Due facce cangianti dell’emigrazione, questo mi sembra di vedere in Albania casa mia, ovvero come muta – fisiologicamente – da una generazione a quella successiva – la percezione dei luoghi e di chi li abita; ma anche, se vogliamo, una mutazione “antropologica” della figura del migrante, che Memetaj ci mostra non nella versione stereotipata dei cliché, ma nella specifica profondità umana di chi, portandosi dietro la propria storia, ne racconta dettagliatamente la frastagliata complessità.
Storia autentica perché reale, ben costruita nell’amalgamare i propri articolati comparti (benché qualche passaggio narrativo risulti più complesso e rischi di far perdere il filo della vicenda), Albania casa mia possiede tra gli altri il merito di suggerire uno sguardo da una prospettiva diversa (e troppo poco frequentata) sul tema dell’identità, guardandovi da una angolazione estremamente umana perché personale e vera.

Analogamente a quanto accaduto prima di Albania casa mia, la visione di Dita di dama alla Masseria Ferraioli (questa volte non condizionata dalle intemperanze meteorologiche), è preceduta da un incontro tra le giornaliste Mirella Armiero e Luisella Costamagna, le quali introducono i temi dello spettacolo focalizzandosi sulla violenza nei confronti delle donne.
Lo spettacolo messo in scena e interpretato da Laura Pozone (coadiuvata nell'adattamento e nella regia da Massimiliano Loizzi) ha però un respiro più ampio, non soffermandosi su quest’unico tema, ma allargando la prospettiva su una più larga considerazione della condizione femminile, anche in questo caso come in Albania casa mia, raccontata in una prospettiva temporale dilatata, che prende le mosse dall’ingresso di una donna nel mondo del lavoro nel finire degli anni '60.
Anche qui ritorna il filo comune della memoria, di una memoria conservata, trovata e infine trasmessa, partendo da un quaderno che custodisce una storia, da una storia che parte da mani di donna, mani dotate di dita affusolate, da dattilografa – “dita di dama”, come savoiardi – e che invece vengono destinate alla fabbrica. Le luci al neon e i pochi arredi di scena suggeriscono ambientazione operaia. Siamo nel 1969 quando la storia, raccontata in una polifonia di personaggi dalla sola Laura Pozone, prende principio; attraverserà la storia del Paese con le sue tensioni, l’autunno caldo e l’epoca del cottimo, che ci riporta in un attimo al “Massa Ludovico detto Lulù” de La classe operaia va in paradiso. Le storie si intrecciano, i fili sono retti sapientemente dall’attrice in scena, che caratterizza abilmente ogni personaggio cui dà voce con gesti e cadenze.
Si parla di donne e di lavoro, di tensioni e di tragedie, referendum sul divorzio e strage di Piazza Fontana, ma lo si fa con una sostanziale leggerezza, infusa alla narrazione dal taglio ironico della Pozone, la quale è abile anche nel gestire le pause ed i disturbi degli aerei che sorvolano con buona continuità Masseria Ferraioli; lei non si scompone, cerca l’interlocuzione col pubblico e tira dritto per la sua strada, mantenendo vivo l’intreccio narrativo, incentrato sulla storia di una donna, sui suoi desideri e sul suo inserimento nella vita lavorativa, sempre più consapevole, attraverso il quale assistiamo alla progressiva crescita di una coscienza di classe, che vede una dattilografa timida e remissiva col tempo trasformarsi in un’operaia attiva e militante.
La storia tiene, senza cali di ritmo né di tensione narrativa e giunge a conclusione riconducendo i fili della memoria al refe originario che li tiene assieme, concludendosi mentre il tono scanzonato e leggero cede in un istante il passo a commovente tenerezza.
Legalità e memoria, valori sociali e loro trasmissione, sono i concetti su cui s’impernia Teatro Deconfiscato, che, in un bene ridiventato pubblico, restituisce attraverso narrazioni teatrali, storie che s’intrecciano a filo doppio col senso complessivo della manifestazione, dando un segnale tangibile di presenza e di persistenza culturale laddove è più urgente, laddove è più necessario.
Restituendo la parola al Bene, mettendo, per una volta, a tacere il Male.





 

Teatro Deconfiscato
ideazione e direzione artistica Giovanni Meola
organizzazione
Napoleone Zavatto
assistente di produzione
Annalisa Miele
progetto grafico
Irene Petagna

Albania casa mia
di e con
Alexandros Memetaj
regia Giampiero Rappa
foto di scena Nina Borrelli
produzione Argot Produzioni
lingua italiano
durata 1h 20’
Afragola (NA), Teatro Gelsomino, 11 settembre 2017
in scena 11 settembre 2017 (data unica)

Dita di dama
dall’opera di Chiara Ingrao
adattamento e regia Laura Pozone, Massimiliano Loizzi
con Laura Pozone
foto di scena Nina Borrelli
produzione Teatro della Cooperativa, Aparte
lingua italiano
durata 1h 20’
Afragola (NA), Masseria Ferraioli – Ex Masseria Magliulo, 14 settembre 2017
in scena 14 settembre 2017 (data unica)

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