“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 04 October 2017 00:00

La poesia, indistruttibile memoria della vita

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Dove c'è esperienza nel senso proprio del
termine, determinati contenuti del passato
individuale entrano in congiunzione, nella
memoria, con quelli del passato collettivo.
(Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire)


La poesia è quel suono che produce conoscenza.
(Michele Sovente)

 
Conto cantanne schiante
Chiagne scuntanno cunte
Sconto cuntanno chiante
Schianto cantanno… punto.
(Mimmo Borrelli; 'A Sciaveca)

 

Da tre anni in Campania c'è un festival che non conosce la messa in pratica degli agganci amico-politici, che non ha Fondazioni dagli organici ingiustificabili, dalle esigenze pantagrueliche e dai bilanci chiaroscurali, che non chiede favori agli assessori di turno; un festival che ha un direttore artistico che non è stato nominato dagli esponenti dei partiti al governo; che non si nutre di finanziamenti estemporanei, da consumare e rendicontare entro il mese di dicembre e finalizzati solo alla pratica dell'evento-per-consenso; che non mira alla produzione di titoli destinati allo scambio, attitudine tacita ma assai frequente (nei grandi come in alcuni piccoli spazi) durante la consueta stagione teatrale.

Da tre anni l'Efestoval produce concretamente il decentramento fisico degli spettatori già teatralizzati imponendo loro un cambio di tragitto, d'orizzonte, d'abitudine e di sguardo (da Napoli, sede del 55% degli spettacoli di prosa che vanno in scena in Campania, verso l'altrove rappresentato dai Campi Flegrei); nel contempo da tre anni – a Bacoli, Baia, Torregaveta e Cappella, cioè lì dove non esiste neanche uno spazio adeguato di scena – questo festival insiste provocando una vocazione teatrale prima assente o taciuta, alimentando il desiderio e la necessità locale e umana di bellezza, e lavorando sul rimosso rafforza l'autocoscienza storico-linguistica e memoriale della comunità di riferimento.
Da tre anni i cittadini si ritrovano attorno al racconto che ricorda il fuoco perduto, per dirla con Agamben: scoprono all'alba il verso emesso dal mare, commemorano vecchie partite di calcio standosene al centro di un campo diventato un parcheggio di cemento, osservano la Napucalisse della metropoli sedendosi su una stuoia e osservandola dall'altra parte del golfo e abitano per una sera antichi cellai, cantieri navali situati ai lati del porto, biblioteche e aziende agricole, scuole elementari, l'esterno di un centro di salute mentale. L'Efestoval – oggi privo di fondi in una regione nella quale immense rassegne di prodotti preconfezionati e grandi teatri commissariati continuano a ricevere invece assegni a sei o a sette cifre – da tre anni associa la qualità dell'azzardo artistico e la coerenza della proposta poetica al rispetto delle esigenze del territorio e lo fa perché è alimentato dall'energia di cinquanta tra ragazze e ragazzi: gli stessi che con le loro associazioni culturali si occupano di queste strade, di queste piazze, di questi parchi e di questi monumenti tutto l'anno, giorno dopo giorno. Li vedo, questi giovani Efesto, riabitare dunque in maniera diversa i posti in cui sono nati e cresciuti e dei quali – standosene di lato, durante uno spettacolo, come capita a chi durante un festival lavora – apprendono le storie, acquisendo un ricordo ulteriore che gli resta.
“La memoria mette insieme, in ascolto” scrive Mimmo Borrelli nella cartella stampa, giacché:
“Memoria è monito di ciò che è dissolto.
Memoria è redimersi. Memoria è cambiare.
Memoria è commuoversi nel sentire un'appartenenza.
Memoria è ripartire dalle macerie.
Memoria è il paradigma dell'urgenza”.
È di questo che provo a offrire una testimonianza.


In uno dei tanti libri che non possiamo più comprare – vittima dalla voracità con cui l'editoria divora se stessa per conto del mercato – Nicola Chiaromonte scrive che la domanda essenziale quando consideriamo la nostra vita non riguarda quanto abbiamo o non abbiamo avuto ma Che cosa rimane: cosa rimane della nostra vita? E cosa lasciamo dopo, nel pezzo di mondo di cui abbiamo fatto parte e nelle persone che ci hanno conosciuto?
Nel volto dei nostri figli speriamo s'intraveda parte del nostro volto, nelle loro pose le nostre pose; restano inoltre fotografie e video e tuttavia, inutile illuderci, “svaniranno come sono svanite a milioni le immagini che erano dietro la fronte dei nonni morti da mezzo secolo, dei genitori morti anch'essi” per citare Gli anni della Ernaux: sì, “tutte le immagini scompariranno” così come, affievolendosi fino a tacere, accadrà ai racconti che faranno di noi, man mano che il tempo avanzerà portandosi via i testimoni della nostra presenza. “La culla dondola sopra un abisso e il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra” annota – in apertura di Parla, Ricordo – Nabokov; “Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante ed è subito notte” Beckett fa dire a Pozzo in Aspettando Godot. Siamo, insomma, destinati all'oblio come ci ricorda Stoner, il romanzo di John Williams, che racconta di un uomo che amò e fu amato, che studiò e trasmise passione per lo studio, che affrontò la sua battaglia quotidiana lottando con tenacia, orgoglio e onestà, ma di cui – dopo la morte – non rimane che un suono vuoto: “Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale” mentre, per i più vecchi tra i colleghi di scuola, egli non è altro “che il monito della fine che li attende tutti”.
Proprio la Ernaux, col suo progetto di scrivere la vita, d'altronde ci insegna che la sparizione individuale puntella anche la sparizione del mondo che ci partorì e che il nostro passaggio accompagna il passaggio di ciò di cui facemmo parte. Simili a pietre, cedendo contribuiamo al crollo del muro, segnandone il progressivo sgretolarsi. Così quando ne Il posto descrive l'esistenza del padre – morto di domenica pomeriggio, nel letto al piano di sopra – la Ernaux inevitabilmente si descrive e descrive le sue amiche, la sua scuola e la sua infanzia, i suoi professori, sua madre e – descrivendo abitudini, modi di dire, atteggiamenti individuali – descrive abitudini, modi di dire, atteggiamenti che sono anche collettivi: perciò nella frase “non ti ho mai fatta vergognare”, detta un tempo dal padre alla figlia, c'è un'intera generazione contadina inurbata, diventata prossima al ceto medio, che ha i calli nelle mani, la sera cena con la minestra e si continua a radere nel lavello della cucina ma che ha iscritto all'università la primogenita, ha spostato il bagno dall'esterno all'interno di casa e, rimpiangendo l'emporio di quartiere, varca la soglia del supermercato.


Giorgio Agamben, in uno scritto intitolato Che cosa resta?, riprende la domanda di Chiaromonte e – come avesse appena finito di leggere Gli anni o Il posto della Ernaux –  la amplia: “Che cosa resta di una vita”, dunque, ma “anche e ancora prima: che cosa resta dell'uomo, della poesia, dell'arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati ad associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile?”. Agamben a questo punto si ricorda di Hannah Arendt la quale – a un intervistatore che le chiese “Cosa resta per lei della Germania in cui è nata e cresciuta?” – risponde: “Resta la lingua”. Ma cos'è “la lingua” che resta, sopravvivendo alla scomparsa del mondo di cui era espressione? “Vorrei rispondere: è la poesia” afferma Agamben. “Cos'è, infatti, la poesia” – prosegue – “se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative?”. Credo, dice il filosofo, che “la lingua della poesia sia l'indistruttibile che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione, la lingua che resta anche dopo l'uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet, la lingua che può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane”. Questa lingua che resta, “questa lingua della poesia”, “non discorre e non informa”, “non dice qualcosa di qualcosa” ma “nomina e chiama” e – in particolare – chiama “ciò che si perde”, riconvoca “ciò che è andato perduto”. Del mondo di cui facemmo parte non resterà dunque che la poesia, la cui lingua è l'unica a opporsi alla dimenticanza.
“Voi sapete che, tanto nella vita individuale che in quella collettiva” – conclude Agamben – “la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che ci resta è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde”.


La stanza-ingresso di una scuola. Alle pareti laterali pendono gli avvisi e poggiano gli scaffali mentre sul fondo c'è una grande porta smaltata di bianco, che gli anni stanno lentamente rendendo decrepita. Davanti alla porta, frontale rispetto a una platea esistente solo per questa sera, è stato montato un palcoscenico con sopra una lavagna, una cattedra e quattro banchi imbustati, dunque in tutta evidenza in disuso: segni materiali di un passato posizionato qui perché sia re-agito. Nell'angolo anteriore destro invece c'è una sedia di legno con accanto buste di plastica bianche, colme di libri.
La scenografia mi suggerisce una contraddizione intestina perché lavagna, cattedra e banchi servono alla recita – ne costituiscono lo spazio allestito – mentre la sedia e le buste mi paiono una reliquia, destinata a essere investita affettivamente dalla pratica del ricordo: sono quel “residuo” che ci rimarrà, nell'anima più che negli occhi, alla fine della serata. Tant'è. Per quaranta minuti Mimmo Borrelli e il suo professore di allora, Ernesto Salemme, fingono la retrocessione cronologica simulando una giornata di liceo: il volto sbarbato, recupero di giovinezza; l'uso di registro e quaderni, i dialoghi fatti di interrogazioni e risposte, i voti, la lezione, gli appunti. Non si tratta che della patina de Il sommo poeta del Petraro: ne è il guscio didascalico, l'insieme di note a margine, la parte informativa. Borrelli e Salemme – in questo modo – ci dicono qualcosa di Michele Sovente e della sua poesia: dei suoi libri, già scomparsi; della passione che aveva per il “puro suono” delle parole; della composizione pentagrammatica dei suoi versi; del fatto che fosse un “cantore di cose” e delle tre lingue che usò (il dialetto di Cappella, l'italiano e il latino), che sembrano corrispondere ai tre piani della palazzina in cui ha abitato (il piano terra, dove parlava in vernacolo con la madre; il primo piano, dove usava l'italiano discorrendo col nipote; il secondo piano dove – “incastrato” com'era, in solitudine, tra la vista della piazzetta del Casale e del promontorio di Miseno – componeva in latino).
Borrelli e Salemme citano Dante e Lucrezio, Vico e Catullo, Leopardi e Montale, accennano all'importanza del correlato oggettivo, mettono in relazione significato e significante, discutono di animismo creativo, rimandano alla babele inconscia di Zanzotto, recuperano i pescatori di Verga, i borgatari di Pasolini, i pezzenti di Viviani. Pirandello, con un'espressione cui dava valore negativo, direbbe che tutto ciò è teatro teatrale, in attesa della messinscena delle vere urgenze della vita vivente. Non avrebbe torto: Borrelli e Salemme non ci hanno infatti convocato all'interno di questa scuola – questa sera – per farci assistere a uno spettacolo in cui recitano la parte di un alunno e di un professore; ci hanno invece voluto qui perché la poesia di cui è talvolta capace il teatro recuperi un mondo scomparso del quale faceva parte, a sua volta, la poesia di un uomo che è scomparso. Così Il sommo poeta del Petraro – protetto da una quarta parete sottile come carta velina –  progressivamente inizia a mostrare spiragli, buchi, poi strappi sempre più ampi dai quali se ne vede la carne: “Tutto cominciò in una giornata autunnale. Avevo diciassette anni quando il mio professore di Lettere, Ernesto Salemme, mi fece conoscere Michele, il poeta. Lo incontrammo nell'androne, abbascio 'u palazzo della sua casa, in piazzetta a Cappella” dice Borrelli e occorre notare, di queste frasi, l'improvviso inciso dialettale, eco sonoro ed emotivo dell'adolescenza e della sua parlata libertaria, spontanea, immediata; “Caro Michele, la tua opera è stata una continua, implacabile lotta della memoria contro l'oblio” – afferma invece Salemme, così congiungendosi ad Agamben e alla funzione che il filosofo assegna al poeta – poi aggiunge: “Con il tuo paziente scavare nella lingua hai portato alla luce i linguaggi dell'inconscio, facendo della nostra parola un viaggio verso orizzonti mai prima conosciuti. Adesso tu sei qui con noi, adesso tu continui a parlare attraverso i nostri corpi, adesso la tua parola ci protegge dalla morte dell'anima”. In quest'adesso, ripetuto tre volte, il ribaltamento de Il sommo poeta del Petraro: terminata la pantomima, con cui si faceva del presente passato, inizia il richiamo memoriale per cui è il passato che finalmente torna al presente: “Parlano 'i ccose” e “u ffuoco appiccia 'i fantasie pe' dint' i ssenghe 'i 'll' anema” – il fuoco accende le fantasie tra le fessure dell'anima – e così quest'anima parla “tante lingue”, “'a lengua r' 'i pisce e chella r' 'u viento”, e lo fa “nel tentativo di non farsi distruggere dal tempo”: è in questo modo che “s'insinua una luce tra le rovine” – “trase na luce 'mmiez 'i rruine” – ed è la luce della poesia, che mostra “figure” che tornano e “ca 'nzieme mettono 'a vita cu 'a morte”.
Sono alcuni dei versi di Nu munno incantato di Sovente, i primi che vengono citati: dall'oblio riemerge la lingua della poesia, dall'oblio risale l'indistruttibile della vita.


Come fosse la ballerina che vidi ne Le sorelle Macaluso, di cui Emma Dante ridefinì la sostanza carnale facendola danzare in controluce dal fondo alla ribalta perché ci riabituassimo piano piano all'esistenza di chi era già morto, di Michele Sovente dal nulla pare di intravedere la sagoma fisica: il “sudore copioso alla fronte”; gli “occhi accigliati”, “veloci e scaltri”; le “gote vermiglie” e il braccio “contratto e fibroso”, “venoso e irsuto”. L'apparizione detta di quel corpo che fu, ancora ombratile, rimanda a un lontano incontro e perciò, della scena accaduta allora, tornano adesso alcuni particolari che ci vengono descritti: “la camicia bianca”, aperta sul petto, sotto la quale si intravede “la maglia contadina della salute”; il mandarino stretto in una mano; le “due buste di plastica bianche” che, simili a “sporte della spesa”, contengono “un'infinita quantità di libri”.
“Questo è il ragazzo di cui ti parlavo”.
“Famme senti', guagliò”.
Borrelli sta costruendo a parole un'immagine perché sia visibile agli occhi di chi siede in platea, così confermandomi che il suo teatro è innanzitutto fiato che parla alla vista perché le pupille intravedano quello che altrimenti resterebbe loro negato. Recupero dell'antico rito del taomai, fondamentale per chi sta cuntando qualcosa, tant'è che riguarda anche i libri: Annie Ernaux, ad esempio, quando nei romanzi si sofferma sugli scatti del tempo passato; Bruno Schulz, che affianca ai suoi racconti i disegni barocchi con cui rende gli incubi che gli assediano la mente; Sebald, che deve interrompere lo scorrere dell'inchiostro con una foto perché il lettore indugi con lo sguardo su quello ch'egli sta dicendo, di pagina in pagina. Letteratura, tuttavia, mentre noi siamo a teatro, qui e adesso, corpi al cospetto di corpi, e dunque esponendosi frontalmente, guardandoci – affiancato da Salemme – Borrelli (alternandoli a passi di Opera pezzentella e 'A Sciaveca, non a caso le sue due opere maggiormente dominate dalla morte come premessa e dal tema del ritorno tra i vivi) dice versi tratti da Carbones, cita Nun ce abbasta e, come accadde vent'anni prima ma facendosi cogliere da una fitta nostalgica nuova, recita La cabaletta.
Reclinando la testa.
Chiudendo gli occhi.
Inclinando le spalle.
Piegando il braccio sinistro verso il torace.
Muovendo la mano destra, perché accompagni la metrica del dettato.
Mutando più volte la voce, così dando la sensazione di uno scavo tonale, di uno sprofondamento temporale.


In un articolo pubblicato su Nazione Indiana Giancarlo Alfano mette in relazione la lingua fatta di lingue di Sovente col bradisismo locale: come i sobbalzi terreno-vulcanici della zona flegrea fanno emergere i diversi livelli storici – “se la terra si solleva le rovine romane emergono a vista,” scrive Alfano, “se la terra invece si abbassa le spoglie delle epoche passate scompaiono” – così la poesia di Sovente pone assieme il dialetto cappellese, l'italiano e il latino. Conferma Giuseppe Andrea Liberti: “Lo sfondo è quello del territorio flegreo, il cui bradisismo contribuisce letteralmente a una riemersione del passato, la stessa che connota questa poesia che sarebbe altrimenti incomprensibile senza tenere conto di tale dato geofisico”. E d'altronde ha scritto Sovente:
“Il tufo in sé nasconde i miei sospiri
e nella lunga salsedine rinnova
la mia rovina”.
Si tratta, conferma dunque Liberti, “di una lingua delle macerie che riemerge dal buio della Memoria e della Terra” e che fa di Sovente un “poeta sismografo”, per usare ancora una definizione di Alfano, giacché egli registra i movimenti tellurici aggirandosi di continuo in zona come un cercatore archeologico, recuperando “frammenti, i preziosi lapilli di una lingua che è tutt'uno con la terra”: così “sostruzioni, aggregazioni, spaccature violente” vengono registrate su carta e nei versi in forma di “suoni e sospiri, voci e rumori” che trasudano dalle macerie, dai resti, dai buchi dei crolli avvenuti, definendo un'autobiografia che nel contempo fa dell'Io un Noi, restituendo dignità di presenza a coloro che sono svaniti.
“Tesso e ritesso l'ordito mio
di tenerezza e oblio
dove la morte attraggo.
Con gesti ripetuti
aggrego gli amici persi di vista
e di svista in svista
incontro daccapo i miei antenati
che come attori muti
fissano una crepa”.
Così ad esempio scriveva Sovente in Pensose facce dilagano, nel 2008. L'anno dopo avrebbe pubblicato Superstiti, con cui nel 2010 avrebbe vinto il Premio Napoli: “Chi sono i superstiti?” gli chiese il 25 ottobre di quell'anno Natascia Festa sul Corriere del Mezzogiorno: “Siamo tutti noi che sopravviviamo alla catastrofe” rispose poi evocando il “senso di solitudine”, la “devastazione” personale e collettiva, l'immagine di “una voragine” culturale a causa della quale gli sembrava impossibile avere “punti di riferimento”.
Furono queste le sue penultime parole.
Le ultime – piangendo, fondendo il sudore alla saliva, colando muco che viene pulito strusciando il dorso della mano destra sulla maglietta scura, come fanno i bambini, e tremando nella gola e nel petto – a conferma che
“Il poeta sa solo non dimenticare,
asciugando il muco dagli occhi e dal naso
con quello scrivere il dolore dello stare
in lacrime lambiccate a fore 'u vaso”
le ricorda Mimmo Borrelli alla platea. Appartengono al Diario dell'abbandono, raccolta di versi di malattia e di speranza che Sovente scrisse standosene disteso in un letto, nell'ospedale di Ancona, nei primi mesi del 2011: novantasei pagine fuori commercio, edite dalla famiglia col titolo A Michele, che compongono un libretto che in sé tiene anche i disegni, gli estremi pensieri e la grafia di un uomo che – come Simone Weil – scrisse fino a che il braccio non gli si arrese definitivamente.
“Sento la pelle squamarsi,
la bocca farsi deserto,
i muscoli sfibrarsi.
Sento improvvisi aculei
nella colonna vertebrale.
Cercano gli occhi
di squarciare
la nebbia”.
E ancora:
“Fragile è la carne,
fragilissima, cedono
tessuti, la pancia
geme, ha strappi, vaga
in una densa nebbia”.
E poi:
“Il cratere sussulta.
Improvvisi crampi intestinali
mi accerchiano, mi rovistano.
Mi cago addosso, piscio
sul pavimento,
sono ridotto a un colabrodo.
La malattia mi va
consumando, implacabile,
si aggrovigliano i ricordi,
in uno squarcio d'azzurro
rivedo una spiaggetta greca
al tramonto. Allora, sì,
che ero vivo”.
“Questa mia carne mi ruta, assediata da farmaci”, ridice Sovente attraverso il corpo e la voce di Borrelli; “Ho le labbra prosciugate”; “Nelle secche è confitta, questa carne, guardata a vista dai rapaci”; “Un sorso, solo un sorso d'acqua che porga un po' di sollievo, un cucchiaino appena di miele capace di opporsi al fiele” e l'insonnia, le flebo, le diagnosi e gli infermieri che lo sollevano, facendo strusciare le divise innevate sul suo corpo inquinato, appestato, “lurido delle cellule, delle amnesie”.
Infine: “Vanno via”.
Segue il silenzio, attonito, collettivo.
Commemorativo.
Così muore un poeta, penso, nel frattempo. Così – penso – la poesia, indistruttibile che resta della vita, resiste e non muore.

 

 

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Alessandro Toppi “Un virusse corrosivo”. Efestoval, Campi Flegrei (Il Pickwick, 16 ottobre 2016)
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Alessandro Toppi L'alba teatrale di Mimmo Borrelli (Il Pickwick, 20 settembre 2015)
Enrico Fiore Quel poeta che abitava in tre lingue come sui tre piani di casa (Controscena, 20 settembre 2017)
Grazia Laderchi I versi del mare (Il Pickwick, 15 settembre 2016)

 

 

Il sommo poeta del Petraro
con
Mimmo Borrelli, Ernesto Salemme
foto Giulia Avallone, Claudia Fiore, Laura Greco, Pasquale Illiano
Università Popolare dei Campi Flegrei “Rosanna Cafaro”, Bacoli, 19 settembre 2017
in scena 19 settembre 2017 (data unica)

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