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Saturday, 16 September 2017 00:00

John Williams: la paziente tessitura della narrazione

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Avete presente, pickwickiani, una storia, seppur drammatica, triste, cattiva, senza che ci sia una benché minima indulgenza o concessione verso pagine, ma che dico pagine, righe, di enfasi retorica eccessiva? Oramai, per John Williams, possiamo utilizzare la regola aurea dei tre indizi che fanno una prova. Perché dopo aver letto Stoner, dopo aver letto Augustus, dopo essersi... rinselvatichiti con Butcher’s Crossing, non ci sono più dubbi: siamo in presenza di un vero fuoriclasse.

Ma cos’è che rende tale uno scrittore (è evidente come le mie siano opinioni e chiunque deve sentirsi legittimato a non condividerle specie se non gradisce il genere stavolta scelto dall’autore statunitense). Qui siamo nel West, quello vero, trasmesso nel grande e nel piccolo schermo per interi decenni grazie alle inquadrature di tantissimi registi e alle qualità di altrettanti interpreti: dall’accoppiata John Ford-John Wayne a quella Sergio Leone-Clint Eastwood. Nel mezzo metteteci quello che volete: gli indiani cattivi poi improvvisamente rivalutati da Soldato blu, il sogno di una ferrovia in grado di tagliare un continente e le sue praterie, i bisonti, la polvere, i villaggi con un’unica strada a dividere gli edifici, il saloon. Ed è proprio in un saloon che avviene l’incontro decisivo fra il protagonista, il giovane Will Andrews che ha lasciato Boston e Harvard per finire in uno sperduto buco di posto, villaggio di frontiera del Kansas, come Butcher’s Crossing, e l’esperto cacciatore Miller che sogna di ritrovare una grossa mandria di bisonti che aveva scoperto qualche anno prima e di cui ha gelosamente custodito il segreto in attesa dell’occasione giusta.
A dire il vero di incontri decisivi Will ne ha due, in questo saloon: il primo con Miller e il secondo con una puttana, Francine. Entrambi sono preceduti da un ulteriore importante momento: il rifiuto di un comodo posto da imbrattacarte negli uffici del commerciante di pelli McDonald. Capito che Andrews ha solo voglia di conoscere il mitico Ovest sulla sua pelle e che la proposta di Miller di una caccia senza precedenti lo attrae, la vicenda procede lineare: Miller, che assume la guida della spedizione, trova tutto l’occorrente per portarla a buon fine, dal carro ai cavalli, dalla polvere da sparo al cibo, arruola il miglior scuoiatore su piazza, Schneider, e il loquace vecchietto Charley Hoge, amante del whisky e assiduo lettore della Bibbia. I quattro uomini intraprendono un lungo viaggio nelle pianure del Kansas diretti nella fatidica valle, che si trova fra le montagne del Colorado, e una volta sul posto Miller dà inizio alla mattanza. Al primo sparo, il romanzo scala magnificamente i gradini dell’epica tragica. Ma, come accennato, senza retorica.
Ho citato, non a caso, Clint Eastwood, anche se abbinandolo al grande Sergio Leone e riconducendolo quindi alla sua prima vita da attore. Ma Eastwood ha poi avuto, anzi sta avendo, una seconda vita: quella da regista. E, personalmente, lo trovo perfetto. Perché la portata dei suoi film non scalfisce la pulizia della regia, la forza evocativa dei temi e dei personaggi è sfruttata senza che derive forzatamente celebrative, indugi didascalici, presunzioni assertive sporchino la composizione. Su tutti, cito Invictus. John Williams ha la stessa bravura.
Quando il romanzo svolta, diventa un succedersi di ossessioni furiose che coinvolgono entrambe le componenti del pianeta: uomo e natura. Miller uccide bisonti con fredda e automatica regolarità, guidato da una foga insaziabile vorrebbe sterminare l’intera mandria, migliaia di capi, per trarre il massimo guadagno dalle pelli, sembra che sfiori la squilibrio mentale ma recupera lucidità nella situazione di emergenza che si genera a seguito della tormenta di neve che sorprende i quattro. Nel frattempo, chiunque legga il libro vede letteralmente la valle e le carogne che si accumulano e che marciscono. L’inverno che arriva è qualcosa di wagneriano e per quanto costringa gli uomini a sopravvivere nei pochi mesi che lo separano dalla primavera, questi diventano un lasso di tempo in cui cambia tutto. Cambia il mercato delle pelli, cambia la frontiera, cambia il mondo. E Miller è spiazzato. Quando rientra a Butcher’s Crossing, con Will e Hoge, non gli resta che abbandonarsi alla furia.
Andrews subirà un radicale cambiamento, causato oltre che dall’esperienza con gli altri nelle montagne, dall’estremo gesto di Miller che lo scaraventa nel mondo dell’irrequietezza. Neppure McDonald o le braccia di Francine, che lo ha aspettato durante la lontananza, potranno placarla.
Se questo è lo svolgimento, non aspettatevi pagine gravide di morali, socio-antropologiche piuttosto che ecologiste, perché Williams ha la forza di plasmare letterariamente perfino l’apocalisse. E procede con la sua essenzialità mozartiana, scandisce i tempi della trama per portare personaggi e lettori ai limiti massimi, perfino della sopportazione, ma come un elastico che tende senza rompere. Williams ci dice con questo romanzo tante cose: che fra noi e la natura ci sono ancora giganteschi fossati di impotenza che nessun uomo potrà mai colmare, che le epoche scompaiono e che la storia è solo il cimitero dei tempi trascorsi, che ogni possibilità di rigenerazione si frantuma dinanzi all’inesorabilità della sconfitta, che l’uomo ha da sempre profanato quanto gli è stato possibile violare. Tuttavia lo fa tenendo perfettamente in equilibrio la tensione e l’inquietudine di un selvaggio romanticismo, che non straripa in sparatorie o reazioni inattese dei bisonti stufi di farsi ammazzare, con il crepuscolare senso della fine. Che a sua volta non produce equilibri consapevoli o baci sotto la luce di stelle cadenti.
Dovete provarne la lettura, mi sto giusto chiedendo se ho reso l’idea. Né troppo romantico da... né troppo crepuscolare da... ma stupendamente romantico e crepuscolare, feroce e intimo assieme, due nature riunite, senza che l’una incida negativamente sull’altra. E questa è la stoffa dei fuoriclasse. Nonché degli scrittori, o degli artisti in genere, coscienti del loro mestiere.

 





John Williams
Butcher’s Crossing

traduzione di Stefano Tummolini
Roma, Fazi Editore, 2013
pp. 360

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