“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 20 July 2017 00:00

Il passato che precipita nel presente

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È un viaggio della memoria interessante quello che intraprende Maurizio Igor Meta, è un viaggio a ritroso che prova a ripercorrere i passi di chi, partito alla volta dell’America in cerca di una prospettiva di vita migliore, ha lasciato dietro di sé la labile traccia, sbiadita dal tempo, di una storia che merita di essere raccontata, perché contiene parte di un’essenza interiore, perché dà corpo a quell’istanza mai sopita di cercare capire chi siamo guardando da dove veniamo.

Il cammino di un uomo, il proprio bisnonno, in un tempo lontano cerca un riscontro al tempo presente: ha camminato quegli stessi passi, Maurizio Igor Meta, li ha ripercorsi seguendo una pista raffreddata dal tempo tentando di infonderle il calore della reviviscenza; per farlo ha compiuto quello stesso viaggio, a un centinaio d’anni di distanza  o giù di lì, provando a ricalcarne le condizioni: nave cargo, niente telefono né Internet e via verso quell’America che era promessa di speranze tenute strette in un sacco.
Racconta questo, Ellis Island, lo racconta assumendo programmaticamente il nome simbolo dell’immigrazione americana, il nome di quell’isolotto artificiale alla foce dell’Hudson su cui venivano sbarcati gli emigranti del primo Novecento, quelli che partivano coi bastimenti tenendo un gomitolo fra le mani, all’altro capo del quale c’era chi li salutava dal molo; partivano alla volta di un eldorado chiamato America, traversando l’oceano, “il mare più grande del mare”. Questo viaggio inscena Maurizio Igor Meta, questo viaggio, questa speranza ed il ricordo lontano, la restituzione memoriale di una fra tante storie, sentita propria perché appartenente al proprio diario famigliare. Dietro un lungo telo a centro scena la silhouette in controluce opera la sua vestizione, mentre un sottofondo di motori evoca il rumorio sordo della sala macchine di una nave. Compare in scena, Maurizio, coppola calzata in capo, piedi scalzi e sacco fra le braccia e procede nel racconto immaginifico del suo viaggio, che si sovrappone a quello del suo antenato; fa suo lo sguardo che fu del bisnonno e racconta di una povertà cilentana, di un bambino orfano a sette anni, dice del luccichio del mare e della vastità dell’oceano, fino alla riva sconosciuta, la vista di Manhattan, la baia, la “prua dell’America”. Il suo racconto s’impronta ad un vivido lirismo nella sua prima parte, la cui evocazione è affidata ad un testo che frammenta la memoria e ad una gestualità che ne affida vivificazione al corpo e al gesto, muovendosi lungo il palco, dimenandosi, rotolandosi e facendo rotare all’intorno il proprio fardello.
Diviso praticamente in due, Ellis Island nel suo sviluppo si volge verso una vera e propria narrazione, quella in cui al viaggio cede il passo la permanenza nei luoghi dove il bisnonno di Maurizio lavorò alla costruzione della ferrovia, insieme a tanti altri immigrati, oggetto del disprezzo degli americani. Due grossi chiodi sfregati in scena evocano la dura opera di manifattura, il lavoro sfiancante per metter giù binari e traversine; racconta della ricerca di quei luoghi, Maurizio Igor Meta, racconta di averlo fatto affondando le gambe in settanta centimetri di neve, in una ferrovia ormai abbandonata, alla ricerca di uno spettro lontano, di quel bisnonno da cui discende e del quale non possiede né una foto né un ritratto, perché la guerra e un incendio si son portati via tutto. Forzare la memoria, questo tenta di fare Ellis Island, recuperare i ricordi che si sono persi e sottrarli alla coltre dell’oblio, all’ingiuria del tempo, per rammentare a se stesso e a chi l’ascolta che il passato precipita nel presente e che, a quell’avo che tornò dall’America portando in dono lo stupore, egli si debba sentire debitore.
È notevole l’uso della fisicità che Meta mette in pratica; più fatica s’avverte nel fitto impianto verbale del testo, in certa sua propensione ad un registro evocativamente lirico che tende a preponderare oltremodo, sebbene dimidiato da una seconda parte che vira in maniera decisa in una direzione espressamente narrativa, mentre rivedibile – soprattutto nella scansione “spezzata” dal drappo bianco in centro scena – è l’uso delle due proiezioni, iniziale e finale, che campeggiano su tutto il fondale.
Nel complesso Ellis Island è un lavoro che lascia intravedere potenzialità interessanti, denunciando qualche limite di tenuta: non convince del tutto, ma lascia l’impressione di poter essere prodromo e base per una crescita possibile. “È per questo che siamo nati, per una lacrima e un sorriso”, dirà in scena verso la fine: ed è prendendo in prestito quella lacrima e quel sorriso che vogliamo raccogliere il ricordo di Ellis Island nell’idea chiaroscurale di uno spettacolo che ha il gusto agrodolce di una lacrima appena sgorgata, di un sorriso appena abbozzato.

 

 



Napoli Teatro Festival Italia
Ellis Island
di
e con Maurizio Igor Meta
collaborazione scena e costumi Alessandra Bonanni
collaborazione suono Danilo Valsecchi
in creation residency presso La MaMa Experimental Theatre New York
produzione La MaMa Umbria International
coproduzione URA_Centro Teatrale Umbro
in collaborazione con La Corte Ospitale
con il sostegno di Kilowatt Festival, Qui e Ora Residenza Teatrale
paese Italia
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Teatro Nuovo, 5 luglio 2017
in scena 5 luglio 2017 (data unica)

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