Print this page
Tuesday, 11 July 2017 00:00

Frammenti di vita, da Hopper al teatro

Written by 

Quando facciamo riferimento a Hopper andiamo subito all'insieme di dipinti con cui – per dirla con una frase di Goodrich, frase che Hopper detestò – egli ci mostra “il volto fisico dell'America” e dunque gli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta delle grandi città, dei villaggi di provincia, delle vaste distese rurali, degli scorci urbani e degli appartamenti arredati con gusto minimalista, squadrato e moderno.

Frammenti separati diventano così il ritratto complessivo di un Paese e – questo ritratto – è stato via via commentato come una storia didascalica, un saggio politico-economico: Gas, ad esempio, con i tre distributori che affacciano su una strada  di campagna diventa la rappresentazione “dell'impatto della modernità sulla natura”, dell'importanza “della benzina nella quotidianità statunitense”, della “desolazione prodotta dalla civiltà di stampo capitalista”. A nulla valgono le proteste dell'autore – “La cosa che mi fa arrabbiare di più è la questione dell'American Scene. Io non ho mai cercato di rendere la scena americana” – così come a nulla vale ricordare che siamo al cospetto di opere d'arte e non di un trattato accademico; a nulla vale osservare che – per restare a Gas – se è vero che c'è il cavallino alato, simbolo della Mobilgas (il realismo!) è altrettanto vero che lo sfondo è un crepuscolo misterico-livido, che la luce è artificiale, che l'uomo presso la pompa ha i tratti del viso appena accennati mentre i ciuffi d'erba secca sembrano anche fiamme, sterpaglie diventate vampe di fuoco.
È il filone critico-sociale applicato alle tele di Hopper, il meno interessante, che poggia le proprie tesi sulla rappresentazione degli esterni, sui paesaggi di rocce e di scogli, di ponti, canali, ferrovie, moli d'attracco e angoli di strade, negozi dalle serrande chiuse, lembi di palazzi e che – quando si trova al cospetto delle figure, sistemate dal pittore in interni appena ammobiliati (uffici, alberghi, stanze domestiche, il patio di casa) – le considera emblema dell'uomo o della donna americana del 1920/1960, cittadini di una realtà artistica intesa come il riflesso diretto della realtà da calendario: quella dell'aziendalizzazione crescente e del crack di Wall Street, dell'urbanizzazione cementizia e dell'isolamento provinciale: “La tradizione critica”, scrive non a caso Orietta Rossi Pinelli, “ha voluto vedere a ogni costo nella pittura di Hopper la registrazione della desolazione americana e – così facendo – non si è accorta invece che nelle tele di Hopper c'è un canto alla vita di tutti i giorni, all'esistenza dei singoli esseri, alle loro storie malinconiche, all'universale fragilità degli individui”.
La Pinelli scrivendone indica quindi il secondo filone critico, quello che nel corso dei decenni sta rafforzando se stesso e che ha per fulcro la commemorazione del frammento dipinto, l'interpretazione dei silenzi inscenati nei quadri. Così l'immobilità corporea degli uomini e delle donne di Hopper diventa il fondamento di inchieste esistenziali: cosa (non) si stanno dicendo? Cosa sta guardando lui? Cosa sta pensando lei? Odia o ama la persona con cui condivide lo spazio? Perché assume questa posa? È triste o felice? Cos'è accaduto tra loro? Da chi prova a rispondere viene una produzione di esistenze ipotetiche, finalizzata a inventare vite di uomini non illustri, per dirla con Giuseppe Pontiggia. Così “Una coppia è seduta in salotto.” – scrive Strand, commentando Stanza a New York – “Lui è chino sul giornale. Lei sta dall'altro lato della piccola stanza e guarda i tasti del pianoforte che tocca con un dito. È una scena di calma domestica, in cui un uomo e una donna si trovano assorti nei propri pensieri e paiono a proprio agio nei limiti del piccolo appartamento. Ma sono davvero a proprio agio? L'uomo è concentrato sulla lettura mentre la donna non è concentrata sul pianoforte”.
Questa propensione letteraria passa al microscopio emotivo ogni muscolo di ogni figura trattando le creature di Hopper come i personaggi di un romanzo in cerca d'autore. Non a caso è la produzione narrativa il genere che – allo stesso tempo – alimenta e viene alimentato da questo tipo di analisi. Stralci di Edgar Allan Poe vengono alternati a stralci di Melville; viene evocato il Wakefield di Hawthorne, che guarda da una finestra la sua vita scorrere senza di lui, o i protagonisti de Il grande sonno di Carver (quel Carver che Aldo Nove si diverte a far incontrare con Hopper in Si è parlato troppo di silenzio) mentre c'è un racconto che Hemingway scrive nel 1933 (Un posto pulito, illuminato bene) che a molti sembra l'anticipazione di Nottambuli, il dipinto che Hopper realizza nove anni dopo: “Era tardi e tutti avevano lasciato il caffè tranne un vecchio seduto all'ombra che le foglie dell'albero formavano contro la luce elettrica. Di giorno la strada era polverosa ma di notte la rugiada fissava la polvere e al vecchio faceva piacere stare seduto fino a tardi perché era sordo e, di notte, c'era un gran silenzio e lui avvertiva la differenza. I due camerieri dietro il caffè sapevano che il vecchio era un po' sbronzo e, pur essendo un buon cliente, sapevano che se si fosse sbronzato un po' troppo se ne sarebbe andato senza pagare, perciò lo tenevano d'occhio.
La settimana scorsa ha tentato di suicidarsi, disse un cameriere
Perché?
Era disperato”.
In fondo non è che il gioco innocente che compiamo quando, stanchi della nostra esistenza, ce ne sediamo per un po' ai margini – magari scegliendo la panchina laterale di una piazza – e ci divertiamo a osservare gli altri che invece continuano a vivere: ne calcoliamo la fretta con la quale camminano, provando a immaginare da dove vengano o dove siano diretti; ne scrutiamo il volto per renderci conto quale sia il sentimento che provano; rubiamo alle loro conversazioni qualche frase per continuarne mentalmente i discorsi.


In Un posto pulito, illuminato bene Hemingway deve far parlare i suoi personaggi: perché in letteratura il silenzio è impossibile e perché nelle pagine avvenga qualcosa. Sappiamo perciò che il vecchio avventore ha tentato d'impiccarsi e che è stato salvato dalla figlia, intuiamo che uno dei due baristi vuole abbassare la serranda per correre da sua moglie, forse per controllarne la fedeltà coniugale, mentre l'altro non ha nessuna voglia di tornarsene a casa, lasciandosi alle spalle il posto di lavoro, che è l'unica circostanza in cui si sente a suo agio.
In mancanza del corpo la narrativa muove il fiato, senza il quale non esiste alcuna storia. In teatro invece può avvenire il contrario: il corpo di un attore può dire – un frammento di storia può dunque esistere – senza che quest'attore emetta mai fiato. È la prima delle riflessioni che mi viene osservando le opere di Hopper: immagino le sue come figure attorali, colte in un attimo qualsiasi di una messinscena di cui è impossibile ricostruire l'andamento poiché non esiste né durata né trama. Quando guardo Gente al sole, ad esempio, dimentico che siamo in America e che la tela è del 1960 e associo i cinque che se ne stanno distesi sulle sdraio ai personaggi di Čechov che, in pieno inverno come sul finire dell'estate, trascorrono le giornate stando seduti, spesso senza parlarsi, immersi nei propri pensieri: assieme, vivono ognuno per conto proprio. Ma siamo all'inizio dello Zio Vanja, nel mezzo de Il gabbiano o alla fine de Il giardino dei ciliegi? Non è possibile dirlo giacché ciò che abbiamo è solo un lampo di vita, un attimo di chissà quale vicenda.
Suggestioni, che mi permettono di tentare di collegare Hopper al teatro: cos'è che avvicina il primo al secondo?
Tralascio la passione che l'artista ebbe per il teatro come luogo e che trova conferma nei cataloghi – Sheridan Theatre eThe Circle Theatre, ad esempio, o Platea, prima fila e Due in corridoio; per limitarmi a qualche titolo – e sottolineo invece: il voyerismo interno ed esterno, basato sul continuo sguardo indiscreto; la definizione di una spazialità semi-perimetrale, che si sviluppa per angoli aperti-e-chiusi e che colloca le figure nel punto studiato della scena; la valorizzazione dell'hic et nunc momentaneo; l'impatto della luce sulle pareti laterali e sull'oscurità; l'artificialità di questa luce che incide sui corpi, ridefinendone l'apparenza: i volti, ad esempio, imbiancati oltre misura al punto che mi sembrano maschere neutre o facce da manichino. E d'altronde: Il teatro del silenzio s'intitola il saggio che Welles dedica alla pittura di Hopper; “come un set teatrale o cinematografico”, dice Elena Pontiggia, Hopper allestisce i suoi ambienti e – ancora Elena Pontiggia – ricorda che se Hopper si è rappresentato attraverso l'altro da sé, ovvero la figura inserita nell'opera, “l'unica modella di cui si servì per i dipinti realizzati dopo il matrimonio” – avvenuto nel 1924 – è la moglie Jo la quale, “grazie al talento espressivo, riusciva a calarsi negli innumerevoli personaggi” di cui il pittore aveva bisogno: “questa donna” insomma “come un'attrice diventava ogni volta una donna diversa”. Non dev'essere un caso, quindi, se Hopper intitola Due attori l'ultima tela che dipinge, nel 1966, e che ritrae un Pierrot e una Pierrette in proscenio: colti nell'attimo prima d'inchinarsi, prendono congedo da uno spettacolo a cui non abbiamo assistito e che coincide con la vita giacché i due commedianti non sono altro che lo stesso Hopper e sua moglie.
Infine, c'è l'assenza di naturalismo.
Ogni tela di Hopper, fissandola bene, rivela aspetti ambigui, tratti equivoci quando non dichiaratamente fasulli: i tagli squadrati di luce, la collocazione geometrica dei corpi e degli oggetti, la natura solo parzialmente identitaria delle figure, certe persistenze illusorie. Un esempio: Tavola calda – che richiama Giovane donna assopita di Veemer, La prugna di Manet e L'assenzio di Degas – colloca una donna vicino all'entrata e davanti a una vetrata ma la vetrata riflette soltanto le file di luci della tavola calda; “il dipinto suggerisce diverse cose”, commenta Mark Strand, “e la più eclatante è che se la vetrina riflette solo ciò che è vero allora la donna seduta è un'illusione”, una presenza passeggera, una proiezione mentale.
Fosse così, Hopper inscenerebbe qui un abbaglio, frutto di una nostalgia o di un desiderio.


F R A M E ha il merito di evitare tanto la tendenza politico-sociale quanto quella romanzesca, che si dedica a ricostruire biografie il più complete e ampie possibili. Serra infatti non genera in palcoscenico una storia, non costruisce cioè una narrazione strutturata in continuità mentre offre lacerti di esistenze che appartengono al buio altrove del retroscena e che, solo per un attimo, a questo buio vengono sottratte: prima di tornarvi per sempre. Strappa una pagina al libro, Alessandro Serra, permettendoci la lettura solo di questa pagina; ci consente l'incontro momentaneo, così com'è momentaneo ogni incontro teatrale; ruba alla vita (che è inconoscibile) un'immagine della vita perché per noi sia possibile almeno osservarla. Così allestisce una stanza di pannelli grigio-scuri semovibili (rimando al nero, base pittorica di Hopper) che si aprono e chiudono permettendo l'ingresso di donne e uomini che si presentano, conquistano posto nello spazio, agiscono al nostro cospetto (anche stando fermi) prima di voltare la schiena, fare di nuovo qualche passo, tornare da dove sono venuti. Luci verticali intanto incidono un angolo, s'impongono lateralmente in forma di quadrati o rettangoli, fungono da alba nascente o da neon casalingo, disegnano corridoi per il transito in assito o inchiodano una figura sul letto, accanto a una scrivania o nei pressi di un portavivande.
C'è una porzione di F R A M E che, in particolare, mi aiuta a comprendere il lavoro svolto da Serra. A un certo punto dalla parete di fondo cala un pannello che – portato in assito – viene usato come separé, muro divisorio e strumento per il gioco teatrale: ne viene una coreografia di apparizioni e sparizioni, d'incontri impossibili, di inseguimenti circolari destinati al fallimento, di compresenze che si ignorano o che non riescono a vedersi, parlarsi, toccarsi. Occhio anche alla parete, tuttavia, perché l'assenza del pannello genera l'esistenza di una finestra nella quale è possibile scorgere il continuo fluire di uomini e donne, che possiamo cogliere solo nel momento in cui passano. È la teatralizzazione del processo compositivo di Hopper, dal quale dipendono sia opere come Sera a Cape Cod – in cui un cane, un uomo e una donna convivono senza appartenersi – sia come Marciapiedi a New York, in cui vediamo una suora affrettarsi spingendo una carrozzina: da dove viene? Dove va? Di chi è il neonato? Perché corre? Ha paura o è preoccupata? Tutte domande che il pittore lascia volutamente senza risposta.


Alla base di questo processo compositivo c'è la riduzione dei dettagli: Hopper, per quanto collochi una figura all'interno di un ambiente riconoscibile, sottrae alla figura e all'ambiente quanti più indizi contestuali possibili. È, per certi versi, lo stesso processo che usa anche Beckett: la scelta della lingua francese perché, essendogli straniera, sia basica e dunque meno precisa; la definizione di personaggi riconoscibili ma dall'identità incerta; la creazione di ambienti pluri-interpretabili: “Strada di campagna, con albero. Sera” per citare Aspettando Godot. Si tratta di un deserto? Del paradiso? Di una porzione di mondo post-atomico? Della pista di un circo? Di un palcoscenico teatrale?
È lo stesso processo compositivo che porta Giacometti a realizzare l'albero di Aspettando Godot sottraendogli rami e fogliame:
“Metteranno in scena una mia commedia. Il titolo è Aspettando Godot. Stanno diventando matti per la scenografia perché a me non va bene niente. Allora ho detto: ci vorrebbe Giacometti” dice Beckett
“Che devo fare?” chiede Giacometti
“Un albero”, risponde Beckett.
Un mese dopo, allestita la scena, i due esaminano l'albero:
“Toglierei quel ramo: è di troppo. Che ne dici?” chiede Giacometti
“Era ciò che ti volevo suggerire: togliere quel ramo” risponde Beckett
“Non dobbiamo avere fretta, però: fammi pensare” dice Giacometti prima di alzarsi, raggiungere l'albero e cominciare a spogliarlo. “Così va bene” afferma infine, quando non ne rimane che il tronco e un ramo soltanto, buono per la gag dell'impiccagione.
Le donne di Hopper leggono libri di cui è impossibile conoscere il titolo; gli uomini di Hopper leggono il giornale ma non riconosciamo di quale giornale si tratti; una donna – in Cinema a New York – se ne sta in piedi, con le spalle poggiate alla parete, mentre tutti gli altri sono intenti a vedere il film: è presumibilmente la maschera del cinema, lo intuiamo dall'abbigliamento, ma non sappiamo quale sia il film proiettato e perché lei se ne stia in tale posa; in Sera d'estate due giovani hanno la necessità di parlarsi, standosene sul patio, ma ignoriamo il rapporto tra i due, l'argomento della discussione e il perché debba avvenire all'esterno di casa; in Mattina a Cape Cod una donna si sporge verso una luce ancora albina: per Jo sta cercando di capire come sarà la giornata; per Hopper invece è “semplicemente una persona che guarda fuori”.
Lo stesso avviene in F R A M E: vediamo un uomo e una donna ma non sappiamo né sapremo mai cosa sono stati e cosa saranno davvero l'uno per l'altra: li scorgiamo adesso e qui, prima che dal proscenio tornino oltre le quinte; una donna gratta le unghie sulla parete e non possiamo che limitarci ad ascoltarne lo stridore; un uomo scrive una lettera, la legge, la piega, poi la riapre, la rilegge, la riduce in brandelli: non comprendiamo cosa abbia scritto, a chi era diretta la missiva, cosa ne ha motivato la composizione e la distruzione. Queste mani che si sfiorano senza afferrarsi sono il preludio a un contatto o sono la conseguenza di un addio già avvenuto? Cosa sta leggendo la donna, seduta sul letto? Dove si trova esattamente il letto sul quale l'uomo adesso si distende? Perché lei piange? Cosa costringe lui a piegarsi su se stesso, come fosse colto da un insopportabile dolore al ventre? Dall'esterno intanto vengono rumori di auto e motorini: dove siamo? Che ore sono? Cosa sta succedendo fuori?
Come in Hopper anche in F R A M E non è possibile avere risposte.
Serra in assito pone solo qualche arredo mentre cinque interpreti/danzatori – bravissimi – danno vita a una serie di partiture individuali, di coppia o di gruppo, contraddistinte dalla solitudine reciproca, dalla mancanza, dalla reiterazione o dall'accenno. Riconoscibile è il rimando alle tele di Hooper – da Le undici di mattina a Stanza d'albergo, da Sole di mattina a Ufficio in una piccola città, Mattino in South Carolina, Motel nel West, Stanze sul mare, Interno d'estate e Una donna nel sole – senza che le tele siano però copiate in toto e fissate, come avviene per gli spettacoli di tablaux vivant: ne restano e quindi tornano più volte un abito rosso o color aragosta, questa posa, la relazione parallela o perpendicolare tra il materasso e la parete, un volto, il cuscino, un paio di scarpe, il cappello anni Venti, uno sguardo nel vuoto, questa mano a mezz'aria, le ginocchia strette al petto, gli occhi inumiditi, il corpo in abbandono, il riquadro di luce che batte in alto a sinistra, un atto d'attesa, le mie dita a un centimetro dalla tua schiena, la frontalità parziale degli autoritratti, un Pierrot stanco, sconfitto e deluso.
In questo modo F R A M E non fa mostra viva dei quadri di Hopper: invece, attraverso la poetica che i quadri di Hopper esprimono, celebra l'importanza dei frammenti marginali o silenziosi; quei frammenti in apparenza inattivi durante i quali ci sembra di sprecare la giornata e noi stessi; frammenti nei quali scegliamo di non far parte della gente e del mondo, contiamo le disfatte passate o ci prepariamo al prossimo esame; frammenti in cui facciamo la conta delle sofferenze, ci incolpiamo per le nostre ingenuità, elenchiamo i torti subiti, stabiliamo se un amore o un'amicizia hanno ancora diritto d'esistere; frammenti in cui misuriamo distanze e separazioni, prepariamo il ritorno o la fuga, decidiamo se affrontare la battaglia o dichiarare la resa.


L'ultima istantanea è per un coriandolo di carta che invece di finire dove finiscono tutti gli altri − alle spalle dell'attore che li ha lanciati in aria − si produce in una traiettoria differente, ondeggia, poi si deposita non nel retroscena ma in assito, sporcando d'imperfezione la purezza grigia del pavimento. È l'imprevisto minuscolo che conferma il teatro come fatto umano e momento presente, altro dalla fissità della composizione pittorica o letteraria. Vita vivente, direbbe Pirandello, come il sudore che a metà spettacolo inumidisce le tempie di un attore; come i piedi di un attrice che − posti sull'orlo della sedia − non stanno fermi ma tremano, impercettibilmente.

 

 

 

 

N.B.: le foto di F R A M E, poste a corredo dell'articolo, sono di Alessandro Serra e Salvatore Pastore e sono tratte dalle gallery di Cantieri Teatrali Koreja e Napoli Teatro Festival Italia.

 

Leggi anche:
Andrea Porcheddu, Alessandro Serra e la regia da Edward Hopper a Shakespeare (glistatigenerali, 27 maggio 2017)
Maria Cristina Serra, Hopper tra cinema e letteratura (PAC, 7 marzo 2013)

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
F R A M E
progetto e ideazione
Alessandro Serra
regia, scene, costumi e luci Alessandro Serra
con Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro
realizzazione scene Mario Daniele
collaborazione ai movimenti Chiara Michelini
organizzazione Laura Scorrano, Georgia Tramacere
produzione Teatro Koreja, Compagnia Teatropersona
paese Italia
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Nuovo, 11 giugno 2017
in scena 10 e 11 giugno 2017

Latest from Alessandro Toppi

Related items