“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 08 July 2017 00:00

Tre modi diversi di deludere

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Il mio Napoli Teatro Festival, edizione 2017, comincia con un filotto di spettacoli nei cortili di Palazzo Reale, due al Cortile d’onore ed uno al Cortile delle carrozze, per la precisione. Sin dal primo appropinquarmi percepisco, rispetto alle più recenti edizioni della rassegna festivaliera partenopea che, almeno nell’approccio, qualcosa è cambiato: la città sembra “accorgersi” che c’è un Festival di teatro, lo percepisci e non è soltanto un discorso di cartellonistica, in una Napoli che peraltro, coi suoi cantieri di lavori in corso sembra uno scavo a cielo aperto; qua e là qualche drappo disteso sulle impalcature campeggia a dichiarar presenza del Napoli Teatro Festival.

Si parte dal centro di Napoli, Cortile d’onore, una sera d’inizio giugno; l’aria umida della sera placa ogni speranza di refrigerio, affidato solo a qualche sporadico refolo; moschini e zanzare sono avventori non paganti e – com’è ovvio – appaiono più interessati agli spettatori che agli spettacoli, ma pazienza.

Il primo spettacolo a cui assisto è I malvagi di Alfonso Santagata, un tentativo di messinscena che parte da Dostoevskij per condurre un excursus attraverso la malvagità connaturata all’animo umano. Mettendo in relazione Memorie dalla casa dei morti (l’opera che portò Tolstoj a paragonare il bagno penale ivi descritto ad un girone dantesco dell’Inferno), e Delitto e castigo, il lavoro tenta un percorso ambizioso che, partendo dalla scrittura cerca di seguire un filo sotterraneo che miri a legare tra di loro elementi topici della concezione umana (e psicologica) dostoevskiana.
Il percorso messo in atto per perseguire tale fine è affidato ad una scollata galleria di personaggi che si susseguono sulla scena senza riuscire a confluire in compatta concezione drammaturgica; la regia si limita all’accumulo in successione di queste figure, fra le quali, ben distinguibile dal brandeggio di un’ascia, spiccherà proprio il Raskol’nikov di Delitto e castigo. Ma la sequela dei personaggi che si alternano su una scena fosca, cui fa da corona un finestrone sul fondo in cui passeranno senza una ben chiara funzione alcuni dei protagonisti, non riesce a staccarsi dalla pagina con l’autonomia della messinscena, rimanendo ad un livello di verbalità concettosa e motteggiante, che riesce a malapena a farti immaginare il buon Fëdor che misura, coi passi e cogli occhi, il perimetro di questa casa di contenzione in cui è confinato dopo essere stato graziato in punto d’esecuzione dalla condanna a morte. Ne viene fuori uno spettacolo statico, frontale e slegato, nel quale la figura cardine della seconda parte (il Raskol’nikov che spunta da sopra una panca, sotto una coperta), oltre a risultare non del tutto aderente all’essenza letteraria, non riesce a emergere sulla scena come figura delineata a tutto tondo, in tutta la sua complessità.
Spettacolo che si trascina faticoso, col respiro grosso di una regia in affanno nel vano tentativo di tradurre in azione le ombre dei personaggi dostoevskiani in quanto emblemi del lato oscuro dell’umano, rimanendo però acquattato nell’ombra, prigioniero delle sue buone intenzioni.

Stessa location per uno spettacolo di fattura completamente diversa: Tempi nuovi di Cristina Comencini che, nel suo impianto completamente tradizionale, fa messinscena da vocazione paratelevisiva per teatro di ampio consumo; dei tre spettacoli presi in esame in quest’articolo è quello che, per una logica meramente comparativa, risulta il più dignitoso, quantomeno per la componente attorale che lo anima, ma siamo comunque dinanzi ad un lavoro che non convince affatto, sia per la convenzionalità della drammaturgia, senza guizzi e infarcita di battute da sit-com che ben difficilmente suscitano più di uno scialbo sorriso, sia per una regia che opta per una concezione assai tradizionale della scena, improntandosi ad un interno borghese dei nostri tempi che fa molto commediola spicciola da teatro commerciale. Il paradosso, in tutto ciò, è che – incentrandosi il tema di Tempi nuovi proprio sul rapporto fra presente e passato, sui cambiamenti della società contemporanea e su chi, faticando ad adattarsi alle trasformazioni, continua ad avere “un piede nel passato ed uno nel presente” – con la pretesa di parlare del moderno, lo si faccia optando per l’obsolescenza di un linguaggio teatrale retrivo. Se poi a ciò si aggiungono talune forzature drammaturgiche incastonate in una dinamica familiare fatta di stereotipi alto borghesi e cliché superficiali e un gioco sin troppo scoperto e prevedibile, quantunque poco credibile, il quadro complessivo, abitato da una famiglia del nostro tempo (padre storico di professione, madre giornalista, una figlia che confessa lo “scabroso” segreto d’essere lesbica e un figlio studente svogliato) alle prese coi cambiamenti della società ai tempi di Internet, si rivela come un esercizio di maniera, abbastanza superficiale e insulso. Le attorialità dei due protagonisti, Ennio Fantastichini e Iaia Forte, appaiono mortificate da una drammaturgia (e da una regia) che li confina in una dimensione convenzionale, in cui non riescono, loro malgrado, nemmeno ad essere brillanti a causa di un testo davvero povero sia di spunti concettuali che di momenti comici che riescano a rendere godibile la leggerezza di una serata di teatral disimpegno. Tempi nuovi sconfessa la novità che porta impressa nel titolo per offrire immagine di una persistenza di teatro passatista, privo però di aspetti positivi di cui anche uno spettacolo tradizionale può essere portatore.

Infine è la volta di Ritals (italiani), di Mario Gelardi, il cui titolo prende il nome dall’epiteto dispregiativo con cui all’estero venivano designati gli immigrati italiani e trae spunto da un episodio di cronaca del finire degli anni ’60, allorquando una ditta svizzera convocò per una selezione degli aspiranti muratori alla stazione di Palermo per essere selezionati e poi partire subito verso la destinazione lavorativa oltrefrontiera. Mario Gelardi traspone l’evento nella stazione di Napoli – che diviene lo sfondo scenico della rappresentazione  – nello stesso periodo storico, mettendolo in relazione con lo sbarco dell’uomo sulla luna, seguito passo passo da una radio portata in scena da uno degli aspiranti lavoratori, i quali entrano progressivamente a formare un quadro d’insieme che si mantiene su un livello di caratterizzazione stereotipa ed oleografica.
Abiti e canzoni d’epoca servono a ricreare il contesto temporale, così come il linguaggio adoperato e le situazioni raccontate ci riportano ad abitudini e costumi di un tempo memoriale; gli aspiranti lavoratori sono lì in attesa di un selezionatore che dovrà vagliarne le candidature e, nel mentre, tratteggiano le loro microstorie. La campitura dei personaggi resta però un quadro che non si riempie appieno, drammaturgia e regia restano ancorate ad un convenzionalismo che non è aiutato da una recitazione che, nel complesso, si attesta su livelli piuttosto scolastici, eccezion fatta per i più esperti Agostino Chiummariello e Michele Danubio; il monologo apologetico affidato a quest’ultimo, poi, aggiunge un surplus retorico che appesantisce d’un ulteriore gravame la messinscena, al cui senso e al cui valore, che vorrebbero (e potrebbero) mettere le vicende di ieri in relazione con le emergenze di oggi, non giova una resa complessivamente piatta.

Tre spettacoli che, in forme e maniere differenti, lasciano uno strascico di delusione e lasciano le mie mani in attesa di scoccare il loro primo applauso, agitate solo nel tentativo di scacciare qualche insetto più insistente. Resta pertanto una perplessità iniziale sulle prime opere prese in visione in questo Festival; quest’edizione partiva sulle macerie di quella dell’anno scorso, rispetto alla quale ha almeno in abbrivio mostrato qualche leggera miglioria strutturale – in verità, far peggio della scellerata edizione targata Dragone sarebbe stato alquanto arduo – ravvisabile come si diceva in una migliore percezione che si ha dell’evento in città ed anche in una maggiore partecipazione del pubblico, senz’altro facilitata da una politica dei prezzi al ribasso che può e potrà favorire un avvicinamento ulteriore degli spettatori al Napoli Teatro Festival; ma per fidelizzare davvero un pubblico è auspicabile che si lavori meglio sull’offerta qualitativa, verso la quale si può essere parzialmente indulgenti in considerazione del fatto che si tratti del primo anno di direzione da parte di Ruggero Cappuccio, ma bisogna necessariamente tenere conto che un Festival che voglia ricreare attorno a sé attenzione e interesse necessita di un avanzamento non solo qualitativo, ma anche sotto il profilo della identità artistica.
Si vedrà.

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia

I malvagi
da
Fëdor Dostoevskij
ideazione e regia Alfonso Santagata
con Sandra Ceccarelli, Carla Colavolpe, Massimiliano Poli, Alfonso Santagata, Tommaso Taddei, Giancarlo Viaro
assistenza tecnica Antonella Colella
organizzazione Franco Coda
produzione Katzenmacher soc. coop.
col sostegno di Ministero Beni e Attività Culturali, Regione Toscana, Comune di San Casciano V.P., Comune di Gavorrano
paese Italia
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Palazzo Reale – Cortile d’onore, 8 giugno 2017
in scena 7 e 8 giugno 2017

Tempi nuovi
scritto e diretto da
Cristina Comencini
con Ennio Fantastichini, Iaia Forte, Marina Occhionero, Nicola Ravaioli
scene Paola Comencini
costumi Antonella Berardi
co-produzione Compagnia Enfi Teatro, Teatro Stabile del Veneto
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 20’
Napoli, Palazzo Reale – Cortile d’onore, 12 giugno 2017
in scena 11 e 12 giugno 2017

Ritals (italiani)
scritto e diretto da Mario Gelardi
con Ciro Burzo, Agostino Chiummariello, Riccardo Ciccarelli, Michele Danubio, Antonio Della Croce, Annalisa Direttore, Irene Grasso, Nicola Orefice, Alessandro Palladino, Fabio Rossi
e con gli allievi della Bottega teatrAle del Nuovo Teatro Sanità
elementi scenici Armando Alovisi
costumi Alessandra Gaudioso
luci Paco Summonte, Alessandro Messina
assistente alla regia Antonio Della Croce
produzione Nuovo Teatro Sanità
paese Italia
lingua italiano, napoletano
durata 1h 20’
Napoli, Palazzo Reale – Cortile delle carrozze, 16 giugno 2017
in scena 15 e 16 giugno 2017

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