“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 28 June 2017 00:00

Dal Globe al Bellini. Note sul progetto

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Premessa
Nei primi tre giorni del Napoli Teatro Festival il Bellini è diventato uno spazio elisabettiano: il palco sviluppato in profondità per quattordici metri e dunque disteso fino alla metà della platea, sul fondo la facciata a più porte, in proscenio quattro botole che portano al sottopalco; trenta panche di legno sono state invece sistemate in circolo, al posto delle poltrone di velluto, mentre le fila dei palchetti sono state illuminate soprattutto in verticale, con luci vagamente più fioche.

Il pubblico in questi tre giorni ha assistito a sei spettacoli, due per sera, e ha colmato la sala dalla prima panca all'ultima sedia del loggione restando dalle tre alle quattro ore ogni volta; ha fatto pausa rimanendo in platea e così assistendo all'adeguamento del palco operato dai tecnici tra uno spettacolo e uno spettacolo oppure chiacchierando nei corridoi o ancora uscendo in foyer, varcando l'uscita, respirando il fresco serale prima di tornare di nuovo in platea, dove ha vissuto eventi e sentimenti in continua alternanza tra loro: la bramosia crudele di Potere e la comicità dello scambio di persona; la violenza dello stupro e i desideri licenziosi di due signore “perbene”. Non solo: il pubblico ha osservato che la botola in cui si accumulava la terra per la sepoltura di un imperatore è diventata un bacile per la raccolta del sangue e che dov'era posizionata la grata di una prigione sorgeva idealmente una foresta; ha notato attori in più vesti, passati di ruolo in ruolo e di commedia in tragedia; si è confrontato con temi in comune e in contrasto e con stili di regia differenti; ha inteso dialetti prima e dopo aver ritrovato il lessico di Shakespeare; attraverso l'ascolto di un battito ritmico ha compreso l'arrivo di un esercito, ha capito che l'ombra serviva a fare da soglia e che un rettangolo di luce era un corridoio per l'uscita dell'attore; ha osservato una donna farsi statua per poi tornare ad essere una donna mentre nelle aste per microfoni ha intravisto fucili e – nel volgere delle tre ore serali e dei tre giorni del progetto – ha viaggiato dalla Roma di Giulio Cesare alla New York anni Trenta per tornare, dopo essere stato in Sicilia, Boemia e chissà dove, di nuovo a Roma con Tito Andronico.
Arrivata la mezzanotte, terminati gli applausi, il pubblico è uscito rimanendo a lungo fuori al Bellini: più a lungo di quanto accade di solito durante il resto dell'anno. Dovrebbe bastare questo non voler tornare subito a casa per farci comprendere che Glob(e)al Shakespeare è stato qualcosa di diverso: un'esperienza, più che una serie di messinscene poste in accumulo. Perciò non ha per me senso recensire gli spettacoli nella loro singolarità (il momento sarà quando torneranno ad ottobre, ognuno per una settimana di repliche); preferisco invece riflettere sull'iniziativa nel suo complesso, appuntandone qualche aspetto.


Del Globe
Il Globe è un mistero più di quanto si pensi. Il fatto che ne esista la ricostruzione a Londra, e una copia della copia a Roma, produce in noi la stessa convinzione illusoria che genera osservare il più famoso tra i ritratti di Shakespeare: riconosciamo a prima vista l'uno e l'altro ma continuiamo a non sapere davvero e fino in fondo che forma avesse il teatro, che aspetto avesse il drammaturgo. Così, se nei riguardi di Shakespeare possediamo tre ritratti che sono, per dirla con Bill Bryson, “due opere scadenti di artisti che lavorarono anni dopo la sua morte e un dipinto che invece è più convincente ma che potrebbe immortalare qualcun altro”, al Globe vengono di solito associati “uno schizzo approssimativo dell'interno di un teatro con cui però Shakespeare non ebbe mai a che fare”, “un dubbio panorama di un artista che forse non ha mai visto Londra davvero” e “un disegno eseguito anni dopo che Shakespeare aveva abbandonato la scena e che mostra un teatro per il quale lui non aveva mai scritto”. Conferma Loretta Innocenti: “I resti del Globe sono lontani dall'essere eloquenti: la sezione scavata è talmente piccola che ha dato luogo a diverse ipotesi di ricostruzione. Molto resta ancora oscuro, restano molti misteri, non ultimo quello del teatro e del suo palco”. Nonostante questo “il Globe resta il teatro elisabettiano su cui più hanno fantasticato gli studiosi” facendone, per usare un'espressione di Andrew Gurr, “l'elemento materiale della vita teatrale di Shakespeare che sia stato maggiormente frainteso”.
Non ha quindi senso usare il Globe come riferimento strutturale e non ha senso neanche rifarsi alla storia del Globe per comprendere di che legno fosse fatto, quanto fosse ampio il suo palco, dove fosse esattamente la cassetta nella quale veniva raccolto l'incasso. Mi sembra più interessante invece chiedersi: cosa ci racconta la vicenda del Globe? A me pare ci siano almeno tre aspetti che riescono a parlarci ancora: l'importanza della stabilità; il valore dell'assito come strumento di rivendicazione identitaria e professionale; il palcoscenico come luogo e occasione per la trasmissione del mestiere.


La stabilità
“Nella notte nevosa del 28 dicembre 1598, durante un inverno così freddo da far gelare il Tamigi, gli attori si incontrarono a Shoderitch. Avevano in mano lanterne, armi, spade, pugnali, punteruoli, asce e altri oggetti simili”. Quella notte, ci dice Greenblatt, il piccolo gruppo – “aiutato da qualche delinquente assoldato a questo scopo” – si posizionò intorno al perimetro del Theatre e cominciò a smontarlo: pezzo per pezzo. “Alle prime luci del mattino caricarono le travi sui carri e cominciarono a trasportarle dall'altra parte del fiume, verso un appezzamento non lontano dal Rose Theatre”. Nei mesi successivi il carpentiere Peter Streete riciclò i pezzi rubati costruendo il Globe che, quindi, nacque esattamente come nacquero gran parte dei versi di Shakespeare: col riutilizzo extra-ordinario di materiale esistente. Tralasciando la causa legale che ne derivò, questa storia ci fa comprendere l'importanza che per gli attori stava assumendo il teatro in quanto edificio: per esso erano disposti ad assoldare criminali e ad aggirarsi di notte con loro, erano disposti ad impugnare utensili da falegname, a sudare in un lavoro che non era il loro lavoro, a caricarsi sulle spalle le travi, porle su un carro e attraversare un fiume gelato.
La stabilità non è soltanto l'indirizzo iper-produttivo adesso in voga per decreto ministeriale (quello che obbliga i Nazionali, ad esempio, a fare l'80% delle repliche in regione saturando il mercato, inducendoli a prezzi da svendita); la stabilità significa che gli attori hanno uno spazio nel quale prendersi il tempo necessario per lavorare sul testo, sulla presenza e la relazione, sulla voce e sul gesto; significa avere un tetto professionale sopra la testa e un vero palco sotto i piedi sul quale provare, fallire, riprovare ancora; significa che hanno un luogo che è casa, fabbrica, bottega, studio, rifugio, utero protettivo; significa che possono coniugare l'urgenza in durata e che possono farlo in condizioni adeguate.
Con la stabilità gli attori elisabettiani smisero di recitare nei cortili delle locande, su assi di legno sistemati su barili di birra legati tra loro, e non è un caso dunque se la Innocenti scrive che “la storia delle compagnie e del teatro inglese è una storia di stabilità”, se John Orrell indica nella “sede stabile” uno degli elementi materiali posti in premessa alle poetiche elisabettiane, se Greenblatt arriva a scrivere che “un giovane attore o un aspirante autore, arrivato a Londra, deve aver pensato, entrando in città, di essere morto e di essere giunto nel paradiso del teatro”.
Di più: c'è una relazione diretta tra il sorgere delle strutture, la nascita delle parole, l'interpretazione in proscenio di queste parole al cospetto di un pubblico eterogeneo e pagante. Pensate alle battute di un testo di Shakespeare: sono adeguate allo spazio fisico nel quale vengono recitate – alle sue attrezzerie disponibili, alle sue misure concrete – e quando notiamo il rigore dell'entra-ed-esci dei personaggi dobbiamo pensare che era calcolato sui minuti che un attore impiegava per andare nel retro, cambiarsi d'abito, mutare belletto, tornare in assito interpretando un altro ruolo, magari entrando dalla parte opposta da cui era uscito: in che modo sarebbe avvenuto nel cortile di una locanda? Se, come dice Gurr, “le informazioni più sicure sui palcoscenici elisabettiani sono quelle che si possono ricavare da commedie e tragedie” è perché le commedie e le tragedie ebbero un loro luogo concreto e specifico di nascita, crescita e messa alla prova. Così King, analizzando 276 opere inscenate tra il 1599 e il 1642, dimostra che 87 necessitavano solo del palco, che 45 impiegavano anche lo spazio del “balcone”, che 42 utilizzavano almeno una botola e 102 lo “spazio segreto” per le “apparizioni” dei personaggi: le trame, cioè, ad un tempo dipendono da e dicono dell'importanza degli elementi strutturali e ambientali a disposizione. Così, tornando a Shakespeare, scopriamo che i 28 casi in cui usa lo spazio superiore del Globe producono una media di trentasette versi e un massimo di tre attori ogni volta impiegati e, questi attori, sovente interpretano figure che dormono, studiano, sono morte o è come se lo fossero.
Ecco cosa produce la stabilità, dunque; ecco la relazione edificante e poetica tra la pratica artistica e lo spazio in cui avviene.


Siamo attori!
Siamo abituati a collocare i drammaturghi elisabettiani in taverne malfamate, seduti accanto a criminali e prostitute. Ma questa è una degradazione di mestiere, quella che  Jean Duvignaud definisce “declassamento sociale”, derivante dall'aver scelto il teatro.  Robert Green, John Lyly e George Peele sono stati alunni di Oxford e Cambridge e provenivano da famiglie borghesi; Thomas Kyd era figlio di un notaio, Thomas Heywood apparteneva a quella che definiremmo classe media mentre la madre di Ben Johson sposò un capomastro. Fletcher era figlio di un pastore futuro vescovo di Londra, il padre di Massinger era al servizio dei Pembroke mentre Thomas Middleton nacque da un gentiluomo. Il padre di Cristopher Marlowe era mastro calzolaio e borghese di Canterbury, quanto a Shakespeare sappiamo molto di sir John: la bottega, l'ufficio, gli incarichi pubblici, il denaro dato a tasso d'usura, gli alti e bassi economici, le multe e i debiti, le compravendite di lana e di cuoio, il matrimonio con la figlia di un possidente terriero. È quando scelgono il teatro che quest'uomini decadono o meglio: entrano a far parte del novero infame dei nullafacenti, dei sediziosi, degli uomini dai quali guardarsi e ai quali è proibito riunirsi negli angoli scuri della città ed è negato aggirasi liberamente, previo permesso nobiliare o imperiale. I drammaturghi – e con loro gli attori – finiscono fuori la terra consacrata dalla moralità vigente, diventano elemosinanti, vittime della legislazione che punisce i viandanti e li seppellisce oltre confine. La costruzione dei teatri – avvenuta non a caso nelle zone in cui sorgevano cimiteri, prigioni, discariche, i locali della prostituzione e quelli in cui puntare sulla lotta tra orsi e cani – consente loro di rivendicare l'identità professionale, di iniziare un processo di riconoscimento del mestiere. Siamo autori, siamo attori, siamo artigiani ed artisti.
Non che sorga una corporazione specifica, sia chiaro, ma i teatri iniziano a qualificare agli occhi della collettività i teatranti come lavoratori specifici e gli spettacoli non più solo come intrattenimento amatoriale ma come lavoro (ed affare). Per questo Gurr scrive che “la storia di come gli attori si costruissero spazi in cui recitare a Londra durante la grande stagione teatrale inglese costituisce di per sé una storia della professione” mentre Mullaney afferma che “la recitazione diventò un'arte quando si estese oltre i confini della city”, quando cioè nacquero i teatri elisabettiani: fu così che “gli attori, da una vita vagabonda e girovaga”, naturalmente non eliminata del tutto, “passarono a condizioni di maggiore riconoscibilità professionale”. Conferma Wickham: “Tra i fatti certi dei teatri elisabettiani il più importante è il loro carattere professionistico”: a Londra era ormai chiaro che “c'erano attori che cercavano di guadagnarsi da vivere rappresentando regolarmente drammi a un pubblico che pagava in contanti per assistervi”.
Protetti ad un punto dal Potere regale e obbligati per decreto a ottenere una licenza, cosa che “favorì la nascita del professionismo”, i teatranti poterono per la prima volta rimarcare per merito – e non per vergogna – la loro diversità. Che in ciò avessero un'importanza capitale i teatri lo comprendiamo da molti indizi, anche poetici. Esempio. Il monologo di Teseo, contenuto nel Sogno di una notte di mezza estate, contiene il passaggio “la penna del poeta dà loro forma (shape) e all'etereo nulla dà dimora (habitation) e nome (name)”. Nel lessico teatrale elisabettiano la parola “shape” indicava anche il costume, “habitation” la sua posizione in palcoscenico e “name” la pergamena sul petto dell'attore, che ne rivelava l'identità. L'identità dell'attore è ribadita dal posto assunto in quest'abitazione che chiamiamo “teatro”: è ciò che gli dà forma, al pari della penna del poeta.


Insegnami, su questo palco
Della formazione attorale e drammaturgica di Shakespeare sappiamo poco, quasi nulla, e dunque procediamo per deduzione ed ipotesi: i libri che ha consultato, gli incontri che ha fatto, gli attori che ha ammirato o disprezzato, gli spettacoli di cui è stato spettatore prima di mettersi a scrivere e recitare egli stesso, le compagnie di cui ha inizialmente fatto parte. Anni assenti a una biografia che di per sé non può essere raccontata che in forma di romanzo. Sappiamo invece di più in linea generale: che c'erano fanciulli e adolescenti che venivano inviati ai teatri o si legavano alle compagnie come apprendisti; che questi giovani restavano mesi o anni presso spazi teatrali dove venivano accolti, istruiti e impiegati in ruoli via via più importanti; che esistevano “compagnie di ragazzi” che “costituivano delle scuole di recitazione e che fornivano nuovi attori alle compagnie di adulti”, in particolare per recitare le parti femminili. Lo testimoniano i copioni dei suggeritori, nei quali talora – accanto al ruolo – è segnato non il nome dell'apprendista ma quello del suo maestro; lo testimonia il diario di Philip Henslowe, che annota la somma di quaranta scellini pagata per un giovane giunto a bottega. Non sappiamo come si svolgesse la scuola di teatro, sappiamo tuttavia che il teatro era la scuola per chi voleva farlo e che la lezione avveniva in assito: la pratica quotidiana costituiva il processo di educazione e apprendistato con cui insegnare il mestiere. Sostituzioni momentanee, osservazione costante, presenza e partecipazione alle prove, in futuro forse un costume, ti tocca questo ruolo, devi dire queste battute.
Possedere un palcoscenico, o abitarlo stabilmente, significava dunque anche mettersi nelle condizioni di formarsi stando accanto ad attori più esperti, respirando a pieni polmoni parole composte dall'autore a stretto contatto col palco e rimaneggiate di volta in volta dalla compagnia, in funzione della prossima replica e delle necessità di mercato. È quella trasmissione del teatro che avviene da pelle a pelle e che diventerà, secoli dopo, eredità familiare o passaggio generazionale, insegnamento impartito dal padre al figlio, dal primattore di ieri all'interprete che dovrà recitare domani.


Al Bellini
Ebbene: la stabilità, la valorizzazione del proprio status professionale e il palco come luogo/occasione formativa mi sembrano caratteristiche fondamentali del Glob(e)al Shakespeare: perché per più di un mese sei gruppi hanno avuto a disposizione una residenza quotidiana; perché il progetto è nato, cresciuto, si è messo alla prova ed è apparso al pubblico in quell'altrove perenne che sempre è un palcoscenico, non cedendo tra l'altro alle lusinghe festivaliere della collocazione in luoghi turistici o in scorci da cartolina; perché la creazione parallela dei sei spettacoli ha previsto l'alternanza/compresenza – nello stesso spazio, allo stesso tempo – di drammaturghi, registi, compagnie ed interpreti diversi per luogo di provenienza, storia professionale, attitudini, scelte fatte ed esperienze maturate in passato. Così non solo un giovane interprete può essere il protagonista d'una delle sei opere, non solo una giovane attrice può dividere il palco con colleghi di cui fino ad ora aveva sentito solo parlare ma – non di rado – è capitato che gli allievi della Factory del Bellini venissero accolti alle prove, perché osservassero la nascita intima e progressiva della messinscena, talora prendendovi parte: sostituendo un attore assente quel giorno, imparando a dare le battute necessarie al proseguo del lavoro, partecipando a questo momento della trama.
C'è, inoltre, un aspetto ulteriore: la coabitazione. Siamo abituati a pensare alla sala prove come un eremo, un a-parte segreto, un luogo inaccessibile nel quale visitatori ed estranei (fossero anche di settore) non sono ben accetti. Luogo-rifugio dalla logica dell'evento da allestire e da vendere; spazio di contrasto alla celerità produttiva commercializzata; possibilità di gestazione del tutto privata, durante la quale l'errore è necessario e lo spreco (d'azioni, energia, tentativi) è fecondo. Il Bellini non ha solo moltiplicato questa dimensione per sei ma – nell'ottica di un progetto che ha un valore maggiore di quello costituito dalla somma dei suoi spettacoli – ha generato inoltre una condizione di compresenza quotidiana per cui registi, drammaturghi ed attori sono entrati in relazione tra loro incrociandosi, conoscendosi, parlandosi ed osservandosi di continuo. Due registi che discutono durante una pausa; interpreti di spettacoli differenti che fanno riscaldamento assieme; il continuo “come sta andando?” con cui l'uno s'interessa al lavoro dell'altro; lo sguardo dato alle prove altrui, lo scambio di consigli, le chiacchierate svolte ai margini del proprio turno, l'accumulo dei diversi copioni ai lati del palcoscenico o sulle panche posizionate in platea e il lavoro che devo compiere stamattina tra gli zaini, gli appunti, un disegno che i colleghi impegnati il giorno prima hanno lasciato in sala. È in questo e altri modi che la coabitazione è diventata contaminazione; è per questo che ogni volta, le compagnie impegnate questa sera, hanno sentito l'esigenza di ritrovarsi in proscenio unendosi in un inchino collettivo al cospetto del pubblico: più labile è parso il confine tra il mio spettacolo e il tuo, più intensa è stata la sensazione d'essere parte di un insieme che va ben oltre il gruppo in cui sono o per il quale sono stato scritturato.
Questa comunanza è rara: lo è a Napoli – dove è facile conoscersi sul piano relazionale, più difficile riconoscersi su quello artistico –, lo è in Italia dove le occasioni di contatto e confronto stanno progressivamente riducendosi tra teatri che chiudono, pratiche di residenza ora impossibili, festival che faticano a sopravvivere, un dibattito pubblico che s'infervora soprattutto sul FUS o sui privilegi economici e un decreto che è stato concepito tenendo conto più delle necessità amministrativo-finanziarie e di certi equilibri geopolitici che della qualità effettiva della proposta e delle condizioni nelle quali autori, registi ed interpreti avrebbero bisogno di lavorare. Venuti meno i movimenti politico-culturali unitari e le tendenze estetiche collettive “il teatro contemporaneo” – non a caso, scrive Gerardo Guccini – “risulta irriducibile a logiche professionali condivise. Manca il terreno sotto i piedi della norma. Anche i modi di rappresentare e di interpretare sono talmente dissimili che gli stessi attori-interpreti-di-personaggi-scritti, gli stessi registi-di-testi-drammatici, non si riconoscono l'un l'altro, non si confrontano, non si spiano, non si considerano appartenenti a una stessa arte”. Così “ognuno” – continua – “tende a sentirsi il depositario di una tradizione sospesa e a negare al collega, che rappresenta testi accanto a lui, il diritto di associarsi alla difesa del mestiere che pure li accomuna”.
Al Bellini è avvenuto l'esatto contrario. Questo – ed è importante sottolinearlo – non necessariamente ha prodotto vicinanze stilistiche o scelte formali condivise né ha generato omogeneità qualitativa negli esiti finali (anzi: si sono notate disparità evidenti) ma Glob(e)al Shakespeare, per usare le parole di Graziano Graziani, ha determinato “risultati importanti dal punto di vista ecologico” giacché anche l'incontro artistico che si traduce solo in uno scambio momentaneo resta “un tassello importante dell'ecosistema teatrale, perché produce embrioni di visioni estetiche, pratiche, politiche: ovvero degli elementi che attivano per l'intero sistema la possibilità di modificarsi e progredire”.


Sul sistema e sul pubblico
Senza entrare ancora nel merito del Napoli Teatro Festival l'esperienza del Glob(e)al Shakespeare si colloca come un unicum all'interno della rassegna: in una programmazione di spettacoli costituita soprattutto da singoli eventi di scena, da titoli ospitati e dal finanziamento di coproduzioni locali finalizzate alla realizzazione di opere che ritroveremo in cartellone durante l'anno (buone magari anche per facilitare lo scambio teatrale) il Bellini si è distinto per proposta ed azzardo: più facile sul piano organizzativo, più sostenibile su quello economico (e più furbo in termini meramente autoreferenziali) chiedere e ottenere dal Festival il sostegno al proprio spettacolo, da piazzare agli abbonati e far circuitare in Campania o in Italia nei mesi invernali. Invece i fratelli Russo hanno pensato in termini di progetto, di possibilità condivisa e di stimolazione al sistema; hanno così moltiplicato le possibilità di accoglienza, avviato o rafforzato pratiche di relazione tra le strutture e le persone, hanno scelto la condivisione del proprio spazio e hanno dato importanza al processo creativo – alla possibilità di lavorare di più, meglio ed assieme – prima che al risultato che ne sarebbe derivato sul piano produttivo. Si tratta di un'azione politico-culturale che incide sul contesto di riferimento ricordandone tra l'altro alcune problematiche (dalla mancanza di spazi di prova alle rare occasioni di residenza formativa). A beneficiarne è stato il Festival stesso che – durante le tre serate – è stato ciò che un Festival dev'essere: un'esperienza, che ti viene voglia di rivivere.
Linfa necessaria, così strutturato Glob(e)al Shakespeare, per coloro che ne hanno fatto parte ma anche per gli spettatori. Per i primi si è trattato di confrontarsi con un autore in comune su un palco in comune che – in partenza il più nudo e neutro possibile, com'è giusto che fosse – ha indotto i drammaturghi a (ri)scrivere nel mentre delle prove e i registi e gli interpreti a confrontarsi con l'inedita estensione spaziale, a sfruttare al massimo l'attrezzeria basica a disposizione (botole, porte, spazi laterali, sottopalco, luci e costumi, qualche raro segno scenografico) e a lavorare sugli elementi irrinunciabili del teatro shakespeariano: la parola ed il corpo, cosa che ha reso di fatto gli attori fondamento e metro di misura di tutto quel che è accaduto. Per i secondi invece si è trattato di vivere un'offerta inedita per modalità di fruizione: la durata di ogni serata, la successione di due trame, la diversità della proposta stilistica e la possibilità dell'immediato confronto qualitativo, la continua alternanza di comico e tragico, l'indotto ritorno a stretto giro (da un giorno all'altro) nello stesso teatro – pena altrimenti la perdita dell'unica recita di quell'opera – sono fattori che hanno contribuito a destabilizzare positivamente lo spettatore, riducendone la propensione all'abitudine, sollecitandone la curiosità, l'attivismo partecipativo, il desiderio di vedere ancora, di esserci anche domani. È così –  più che attraverso la politica dell'abbonamento a basso prezzo e senza cedere al mainstream mediatico e quantitativo – che davvero si (ri)forma il pubblico teatrale.

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Glob(e)al Shakespeare
un progetto di
Gabriele Russo
scene Francesco Esposito
costumi Chiara Aversano
light designer Salvatore Palladino, Gianni Caccia
sound designer G.U.P. Alcaro
coproduzione Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini, Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia
Napoli, Teatro Bellini, dal 6 all'8 giugno 2017

 

 

Giulio Cesare
adattamento
Fabrizio Sinisi
regia Andrea De Rosa
assistente alla regia Dario Farooghi
con Nicola Ciaffoni, Daniele Russo, Rosario Tedesco, Isacco Venturini
in scena 6 giugno (data unica)


Una commedia di errori
adattamento
Marina Dammacco, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
regia Emanuele Valenti
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
voce registrata Adriano Pantaleo
musiche originali Giovanni Block
uno spettacolo di Punta Corsara
in scena 6 giugno (data unica)


Racconto d'inverno
adattamento
Pau Miró, Enrico Ianniello
regia Francesco Saponaro
assistente alla regia Giovanni Modena
con Luigi Bignone, Rocco Giordano, Tony Laudadio, Mariella Lo Sardo, Vincenzo Nemolato, Francesca Piroi, Marcello Romolo, Leonardo Antonio Russo, Eduardo Scarpetta, Edoardo Sorgente, Petra Valentini
in scena 7 giugno (data unica)


Otello
adattamento
Giuseppe Miale di Mauro
drammaturgia Gianni Spezzano
regia Giuseppe Miale di Mauro
con Viviana Altieri, Francesco Di Leva, Martina Galletta, Giuseppe Gaudino, Adriano Pantaleo, Andrea Vellotti
e con la partecipazione del Gruppo Giovani O' Nest: Camilla Carol Farias, Antonio Coppola, Armando De Giulio, Emilia Francescone, Lisa Imperatore, Raffaella Nocerino, Ralph P, Nunzia Pace, Francesco Porro, Mimmo Sabatino, Carlo Salatino, Anna Stabile
cura del movimento Anna Carla Broegg
musiche originali Ralph P
uno spettacolo NEST-Napoli Est Teatro
in scena 7 giugno (data unica)


Tito
adattamento
Michele Santeramo
regia Gabriele Russo
con Roberto Caccioppoli, Antimo Casertano, Giandomenico Cupaiuolo, Gennaro Di Biase, Piergiuseppe Di Tanno, Maria Laila Fernandez, Fabrizio Ferracane, Daniele Marino, Francesca Piroi, Leonardo Antonio Russo, Filippo Scotti, Isacco Venturini
assistente alla regia Francesco Ferrara
in scena 8 giugno (data unica)


Le allegre comari di Windsor
adattamento di
Edoardo Erba
regia Serena Sinigaglia
con Mila Boeri, Annagaia Marchioro, Chiara Stoppa, Virginia Zini, Giulia Bertasi
consulente musicale Federica Falasconi
scene Federica Pellati
costumi Katarina Vukčevič
assistente alla regia Giada Ulivi
in scena 8 giugno (data unica)

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