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Thursday, 28 March 2013 20:06

L’UOMO, L’AMBIENTE, LO SGUARDO E LA FOTOGRAFIA. Pensieri intorno al “paesaggio” ritratto da Aniello Barone

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Quando si cerca di vedere dentro al paesaggio, di scorgervi le cose più remote, insieme a quelle più evidenti che si raggruppano nei primi piani del panorama, si estende sempre la vista come un morbido manto coprente, che elargisce delle sensazioni quasi tattili, concrete, al nostro occhio. In quel velocissimo momento in cui si tenta di abbracciare tutto insieme, senza, al tempo stesso, perderne in dettagli, l’organo della vista è sensibile alla materia come e più della nostra mano. Scorre sul terreno, sulla strada, scavalca ostacoli, s’impantana nei fossi e nelle depressioni per risalire come una lenta alluvione fin sul ciglio dei promontori e delle colline, o per impennarsi sui ripidi spigoli di un alto edificio.
Esso si svolge in un moto continuo, s’immerge ed ondeggia nei fluidi, si sofferma solo un istante su ogni forma per poi scorrere, avanzando fino al margine estremo dell’orizzonte, fin dove è lo stesso occhio a trovarsi di fronte al limite di ciò dietro cui non si può più guardare, quell’estrema lontananza che le immagini del nostro spirito riformulano in una favola, in un mito d’immaginazione che percepisce più di quanto il nostro sguardo riesca a possedere tutto in una volta.
Può accadere lo stesso quando il paesaggio è raccolto e restituito dalla patina della pellicola fotografica?

Come ogni opera d’arte, una manciata di fotografie scattate da un singolo artista, ci riconducono al mondo globale della fotografia, alla dimensione umana che fa del dato oggettivo dato umano, che interpreta, assimila, rappresenta, racconta o trasfigura il paesaggio. Se ci soffermiamo sui quattro scatti di Barone in mostra alla Nea, probabilmente il nostro pensiero si adagerà come l’occhio, come il manto coprente, sulla materia riverberata e ricomposta dalla carta baritata.
Ci riproponiamo lo stesso approccio che avremmo dinanzi al paesaggio “in carne ed ossa” poiché non esiste una via differente, e perché la luce riflessa a volte può brillare di luce propria, l’aria fotografata sapere di aria e la terra di terra ed anche lo scempio può risultare tangibile come se ne fossimo sopraffatti en plein air, come al momento storico dello scatto, quel millesimale tempo di scorrimento del diaframma dell’apparecchio fotografico. E c’è naturalmente dell’altro, quell’ “altro” che volge lo sguardo in arte. Il dato naturale mostrato in queste fotografie non combatte con i rifiuti urbani che lo tartassano o gli si pongono accanto quali beffardi prodotti umani. La natura è immobile, ritratta nella sua impassibile grandezza e compostezza. Ella non si ribella, del resto non spetterebbe a lei farlo. La spazzatura, lo sporco, il disgusto non appartengono al suo mondo, quello in cui tutto si trasforma e non c’è spazio per il rifiuto, l’avanzo e lo scarto, inutili assassini della vita. Il mostruoso spettacolo è quello perciò più inconcepibile entro l’ottica della realtà naturale.
Nell’immagine che ci è posta dinanzi agli occhi, sulla parete della sala espositiva, i solchi della terra battuta che convergono in prospettiva fino ad un muro basso, il quale non arriva a stendere un pietoso velo sulla vergogna della società umana, sui suoi osceni e sbriciolati rifiuti, è giusto ed assoluto come in un antico dipinto. La squallida muraglia che infesta le solide erbacce, chiude una quinta scenografica essenziale ma tersa ed efficace, chiude e ad un tempo apre il dibattito angosciato ed angosciante su ciò che l’occhio è costretto a rilevare, lì dietro, oltre quella chiara ed artificiale barriera, introdotta dall’eleganza di due alberi spogli, dalle linee sofisticate. Se qui il contrasto non è violento e la luce non è drammatica, la scena non costituisce però l’incontro pacificato fra due elementi, ma solo l’evidenza della loro eterna estraneità. Si tratta dell’infinita amenità della natura, della la sua altera e meravigliosa distanza dalle bruttezze estetiche e morali le quali, in fin dei conti, sogliono coincidere. Tuttavia il disgustoso tappeto di scorie che non sarà mai neppur contemplato dal paesaggio, verrà sempre a porsi in modo vile come un’innaturale e paradossale interferenza del mondo, questo lo sguardo non lo può ignorare ma può riuscire a  sostenerlo e trasfigurarlo soltanto in virtù di un accostamento alla purezza dell’erba, degli alberi, all’armonia delle linee della terra. Il cumulo è solo ad una superficiale prima apparenza accostabile ad una forma naturale.
Ancora nell’altro scatto è la lontananza estrema a trasfigurare gli alti blocchi smussati di rifiuti alla fine del paesaggio, sono la luce e l’erba di queste immagini, calati in momenti analitici e documentari, in altri soprattutto poetici, ad isolare, circoscrivere ed astrarre il contesto di questo dannoso ed amaro degrado, immersi nella soffici sfumature del bianco e nero. L’occhio ha l’occasione di cogliere la sottile e penetrante bellezza del paesaggio esaltata e riscoperta attraverso i contrasti con la laidezza dell’immondizia umana. Subito dopo esso ha bisogno di spaziare oltre la siepe, più che mai, ed immaginare il mondo distante, una natura pulita ed intatta, ancora affettuosa e suprema padrona in armoniosa convivenza con le strutture umane.
L’unica possibilità che abbiamo di capire ed agire fino in fondo per riappropriarci dello spazio incontaminato dell’ambiente, il quale appartiene anche a noi e dal quale dipendiamo, è nella capacità di lettura ed interpretazione di un sguardo minuzioso come quello di un investigatore e sensibile come quello d’un poeta. Ma anche sul piano estetico, nelle presenti fotografie, al di qua come al di là dell’orizzonte, la natura è destinata, prima o poi,  a vincere e, pur essendo noi gli unici soggetti che possano attivare il senso dell’immagine, siamo sempre e comunque noi i soli a perdere quando non riusciamo a rintracciare le origini dell’umanità del nostro sguardo in quello più ampio della nostra madre terra.

 

Paesaggio

di Aniello Barone

Nea Art Gallery

Napoli, dal 15 marzo al 10 aprile 2013

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