“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 04 May 2017 00:00

La cicatrice dell’angoscia nel corpo della parola

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Si accendono le luci e illuminano una scena livida, segnata da tonalità cupe e invasa da una terra grigia, ctonia, quasi fosse il residuo di un’oscura apocalisse. La scolta emerge dal buio e comincia a narrare il dolore e l’ansia delle sue veglie, segnate dall’attesa della flotta di Agamennone. Le sue parole echeggiano come un cupo e scandito rimbombo nelle orecchie degli spettatori, assuefatti al misterioso silenzio. È l’inizio dell’Agamennone di Eschilo, la prima tragedia dell’Orestea nella messa in scena del Teatro Nazionale di Napoli (dove ha debuttato nel novembre 2015) per la regia di Luca De Fusco, rappresentata al Teatro Verdi di Padova dal 26 al 30 aprile scorsi.

La prima tragedia vede il ritorno di Agamennone alla sua città, Argo, dopo aver espugnato Troia: ad attenderlo è la moglie Clitemnestra che, assieme all’amante Egisto, gli tende una trappola mortale. Agamennone cade sotto i colpi di Clitemnestra, colpevole, agli occhi della regina, di aver immolato la figlia Ifigenia per permettere alla flotta greca di salpare con vento propizio alla volta di Troia. La seconda tragedia della trilogia, le Coefore, narra l’arrivo ad Argo del figlio di Agamennone, Oreste (insieme all’amico Pilade), il quale – dopo essersi fatto riconoscere soltanto dalla sorella Elettra – uccide, per vendicare l’assassinio del padre, Clitemnestra ed Egisto. Nelle Eumenidi, infine, Atena istituisce il primo tribunale democratico della storia per giudicare Oreste colpevole di matricidio. Le Erinni, le dee della vendetta, perseguitano e accusano Oreste, il quale viene invece difeso da Apollo. Oreste alla fine verrà assolto e le Erinni verranno da Atena trasformate in Eumenidi, dedite al culto della dea e a far prosperare la città di Atene.
Nella rappresentazione del Teatro Nazionale di Napoli viene messa in scena l’intera Orestea: oltre tre ore di magica e affascinante atmosfera che avvolge noi spettatori e ci conduce quasi in una dimensione parallela, dominata dalle tonalità sinuose e lancinanti della tragedia antica. Infatti, la suggestiva messa in scena di De Fusco, dalla rappresentazione tragica greca, riprende anche l’alternanza di recitazione, canto e danza. L’universo della tragedia eschilea viene ricreato grazie a un allestimento scenico che ci porta dall’oscurità arcaica e irrazionale fino alla luminosità razionale della prima istituzione democratica, l’Areopago. Se nell’Agamennone, a dominare la scena, come già accennato, sono colori cupi e terrei, e sullo sfondo campeggia tetra l’oscura porta della reggia di Argo, nelle Coefore e nelle Eumenidi l’intera scena è ‘illuminata’ da una videoinstallazione sulla quale vengono proiettati, grazie a mini-telecamere, i volti degli attori che stanno recitando. L’atmosfera di magia è inoltre alimentata dalla recitazione di bravissimi attori, fra i quali è doveroso ricordare interpreti del calibro di Mariano Rigillo, Gaia Aprea, Mascia Musy, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Angela Pagano e Enzo Turrin. L’eccellente dizione attorale scandisce in limpide immagini vocali il testo eschileo nella scorrevole traduzione realizzata da Monica Centanni, studiosa di letteratura greca da sempre particolarmente attenta anche alla messa in scena del teatro antico. È necessario citare, infatti, almeno la sua realizzazione, assieme a Margherita Rubino, nel 2005, di un interessante saggio-documentario video sulla traduzione dell’Orestea di Pier Paolo Pasolini (1960), dal titolo Gassman, Pasolini e i filologi. Pasolini tradusse la trilogia eschilea (col titolo di Orestiade), su richiesta di Vittorio Gassman e del regista Luciano Lucignani, per una messa in scena del Teatro Popolare Italiano al Teatro Greco di Siracusa nella primavera del 1960. La versione pasoliniana si distinse, all’epoca, per la dichiarata impronta teatrale che la allontanava dalle altre traduzioni, altisonanti e retoriche, realizzate da accademici e filologi classici. La traduzione di Pasolini, arricchita da scintillanti figure di suono, era finalizzata a rendere più comprensibile possibile, per uno spettatore contemporaneo, la fitta rete di epiteti di carattere mitico e geografico presenti nel testo eschileo. L’anticonvenzionale messa in scena del Teatro Popolare Italiano, inoltre, era caratterizzata da elementi ‘primitivi’ e arcaici realizzati per mezzo di maschere tribali africane (che fece drizzare i capelli al filologo Enzo Degani, feroce ‘censore’ del testo pasoliniano), rifiutando in toto l’approccio in stile peplum  al mondo antico.
Probabilmente un’eco dell’innovativa traduzione pasoliniana si fa sentire anche nella resa testuale di Monica Centanni: anch’essa, infatti, è finalizzata alla messa in scena, “in consonanza con le scelte poetiche del regista” – come scrive la stessa traduttrice – “nel rispetto del carattere dei personaggi  e del talento degli attori”, senza appiattire il testo verso una dizione ‘alta’ e sublime. E, continua la Centanni, la parola eschilea appare veramente satura di un’angoscia che costituisce una vera e propria “cicatrice incisa nel corpo linguistico”. Infatti – dice Eschilo – la sapienza poetica è acquisita a prezzo di una sofferenza presente in ogni parola: è l’atroce e sublime legge del pathei mathos (la conoscenza a prezzo della sofferenza). L’angoscia, la sofferenza, il dolore, risuonano in ogni parola detta dai personaggi, soprattutto nell’Agamennone. La sentinella (Enzo Turrin), all’inizio, inaugura la tragedia con parole cariche di ansia e stanchezza, mentre anche i gesti e la voce dell’araldo (Claudio Di Palma) e dello stesso Agamennone (Mariano Rigillo) risuonano di stanchezza e saggezza acquisita dopo grandi sofferenze. Agamennone, nella magistrale interpretazione di Rigillo, giunge a terra mentre sentiamo in sottofondo lo scrosciare delle onde, aggrappandosi al busto di un gigantesco cavallo (a rappresentare il famoso Cavallo di Troia, grazie al quale i Greci hanno espugnato la roccaforte nemica). La sua voce, come il suo corpo, appare inizialmente piegata, piagata dallo sforzo sovrumano del viaggio per mare e, lentamente, mentre il corpo si innalza in posizione eretta, anche la voce si innalza fino ad assumere una dizione limpida e solenne, degna del re degli Achei. L’angoscia promana anche da ogni singola parola di Clitemnestra (Mascia Musy), nelle cui allocuzioni la resa della traduttrice si ammanta di allitterazioni e figure di suono. Una terribile angoscia riveste inoltre le invocazioni di Cassandra, interpretata dalla bravissima Gaia Aprea che, con tonalità opposte, rivestirà anche il ruolo di Atena. Cassandra urla, si dimena, canta il proprio dolore di terribili profezie non credute. Dopo l’uccisione di Agamennone e di Cassandra, sul vestito scuro della regina si diffondono cupe macchie rossastre, come se fosse sporco di sangue, per effetto della luce color porpora che promana da una scia luminosa sul palco che precedentemente aveva mimato il tappeto rosso disteso per l’arrivo del re. L’Agamennone si chiude quindi in un’atmosfera cupa e angosciosa, un’atmosfera color terra e sangue sulla quale si leva trionfante l’arcaico potere matriarcale.
La centrale scia sanguinolenta, nelle Coefore, assume tinte bianche e azzurre trasformandosi in una sorta di fiume luminoso. Entra in scena Oreste (Giacinto Palmarini) e il suo arrivo è annunciato da uno schermo posto sullo sfondo del palco sul quale viene proiettato l’ingresso sulle scene del figlio di Agamennone accompagnato dal fedele amico Pilade (Gianluca Musiu). Oreste si fa riconoscere dalla sorella Elettra (Federica Sandrini) e, assieme a Pilade, successivamente, spinto soprattutto da Apollo (Claudio Di Palma) uccide Clitemnestra ed Egisto. La nuova atmosfera di vendetta e di liberazione dai due usurpatori trova i suoi accenti più significativi nel canto e nelle danze del Coro di donne, guidato dalla Prima Corifea (Angela Pagano) che innalza il suo racconto e il suo canto. Dopo il matricidio, però, Oreste viene perseguitato dalle Erinni, le terribili dee della vendetta, e fugge dalla scena incalzato dalle oscure divinità.
Nelle Eumenidi, infine, l’angoscia ctonia che aveva trionfato nella prima tragedia viene gradatamente spazzata via dalla razionalità della dea Atena. La scena, all’inizio, appare comunque segnata ancora una volta da palpiti di angoscia rappresentati dalle Erinni, le quali si sono pressoché impadronite del tempio di Apollo: la Pizia (Anna Teresa Rossini), dopo aver solennemente pronunciato le sue parole iniziali, si ritrae spaventata di fronte ai terribili esseri. Le Erinni, secondo il grecista Vincenzo Di Benedetto, sono la rappresentazione visiva più pregnante del senso di paura che si sprigiona dal ghenos, dalla famiglia di stampo matriarcale: esse, infatti, perseguitano Oreste in quanto uccisore della madre. Tali divinità, nella rappresentazione eschilea, indossavano una maschera atta ad incutere paura e rappresentavano un’assoluta alterità poiché – continua Di Benedetto – non corrispondevano a nessun modello né umano né divino. Anche nella messinscena di De Fusco le Erinni vengono concepite come portatrici di distruzione e angoscia: il regista, infatti, come scrive nei suoi “appunti di regia”, aveva “da tempo immaginato le Erinni come antenate dell’Isis e non a caso il loro ingresso nel tempio di Atena coincide con la distruzione virtuale di una statua” (mentre imperversano le Erinni va in frantumi il volto della statua di Atena che campeggia nello schermo sullo sfondo). De Fusco afferma poi che, mentre la compagnia stava allestendo lo spettacolo, giunse la tragica notizia dell’uccisione, da parte dell’Isis, del capo archeologo di Palmira Kaled Assad. Ed è proprio alla memoria di Assad, contemporaneo “discepolo di Atena che ha tentato di far ragionare le Erinni, purtroppo senza riuscirci, pagando con la vita il suo amore per l’arte e la cultura”, che lo spettacolo è idealmente dedicato. Negli ultimi momenti della tragedia appare in scena, con accenti solenni, la dea Atena, interpretata da Gaia Aprea che indossa un costume metallico e sfolgorante, dalle connotazioni futuristiche. L’attrice che, con tonalità ben diverse già aveva interpretato Cassandra, conferisce alla dea una perfetta caratterizzazione razionale, sottolineata anche dall’eleganza della sua dizione che scandisce ogni singola parola quasi sillabandola. Anche la posizione del corpo, improntata ad una geometrica rigidità dalla quale promanano una calma sovrumana e una incredibile forza interiore, rappresenta visivamente la razionalità di cui Atena si fa interprete. Ella istituisce il primo tribunale della storia, l’Areopago, invitando i cittadini di Argo ad esprimersi col loro voto, favorendo Oreste oppure le Erinni. Gli schermi sullo sfondo inquadrano contemporaneamente Oreste e le Erinni e, quando Atena chiama al voto gli astanti, vengono mostrate delle inquadrature del teatro come se gli spettatori fossero i cittadini ateniesi. Oreste verrà assolto e le Erinni trasformate in Eumenidi, dedite alla prosperità della città: la calma razionalità di Atena, alla fine ha vinto, è riuscita ad avere il sopravvento sull’irrazionalità arcaica delle Erinni. E, bisogna ammetterlo, è riuscita anche la sfida della Compagnia del Teatro Nazionale di Napoli: tutti noi spettatori usciamo affascinati dal teatro, consapevoli di aver assistito non solo ad uno spettacolo ma a un evento armoniosamente magico che per più di tre ore ci ha incantati per mezzo dell’arte della parola, della musica, della danza e del canto.

 

 

 

 

 

Orestea
(Agamennone – Coefore – Eumenidi)

di Eschilo
traduzione Monica Centanni
regia Luca De Fusco
con
Mariano Rigillo, Mascia Musy, Angela Pagano, Gaia Aprea, Claudio Di Palma, Giacinto Palmarini, Anna Teresa Rossini, Paolo Serra
e con Paolo Cresta, Patrizia Di Martino, Francesca De Nicolais, Gianluca Musiu, Federica Sandrini, Ivano Schiavi, Dalal Suleiman, Enzo Turrin
e con le danzatrici della Compagnia Körper (Chiara Barassi, Sibilla Celesia, Sara Lupoli, Marianna Moccia)
scene Maurizio Balò
costumi Zaira De Vincentiis
coreografie Noa Wertheim
musiche Ran Bagno
luci Gigi Saccomandi
suono Hubert Westkemper
adattamento vocale Paolo Coletta
video Alessandro Papa
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
in collaborazione con Teatro Stabile di Catania
lingua italiano
durata 3h 25'
Padova, Teatro Verdi, 29 aprile 2017
in scena dal 26 al 30 aprile 2017

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