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Tuesday, 02 May 2017 00:00

Valdoca: la libertà e la bellezza dei "Giuramenti"

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Un tappeto bianco di rami sopra un corso d’acqua: così si presenta una scenografia esondante, che va ben oltre il palco: le lenzuola bianche raffiguranti alberi e fiume ricoprono infatti le poltrone in sala. Il pubblico è seduto tutto nelle gallerie dell’elegante Teatro Bonci di Cesena. Ancora una volta, dunque, come già nel precedente Porpora, l’utilizzo degli spazi, e il loro senso, è anti-canonico, quasi espressionista, potrei azzardare a scrivere, visto l’intrinseco messaggio di vitalità, anarchia, creatività, necessità di esplorare oltre la norma, già presente nelle sole modalità di disposizione scenica, nell’estetica apparente, immediatamente, e a tutti, visibile.

È una democraticità coreografica, nel senso che da subito vi è un messaggio inequivocabile, perché visivo e non verbale – e quindi diversamente intellegibile, o non intellegibile affatto – di trasgressione, di rivoluzione, e c’è un rimando alla natura, presenza importantissima in quest’opera, tanto da essere definibile sua co-genitrice, visto che l’opera di cui mi accingo a scrivere è nata da un ritiro di qualche mese di tutta la compagnia tra i colli riminesi. Lì si sono raccolte le presenze e le voci.
“Glielo diciamo?”
“Cosa?”
“Che abbiamo più di cent’anni
che sappiamo volare”
“Non ci crederebbero”.
Inizia così Giuramenti, l’ultima fatica del Teatro Valdoca, con un gruppo di giovani che si interroga su come dire agli altri – che non possono capire, perché chiusi nelle strette catene dell’ordinario – che la loro vita potrebbe essere immortale, che a loro riesce ciò che la fisica materialistica e il senso comune ritengono impossibile.
“Cosa diciamo allora?”
“Parliamo del più e del meno.
Solo così non hanno paura”.
È già allora nell’incipit dell’opera il suo nodo problematico, ontologico ed espressivo; in una parola, la sua essenza. Da un lato, la difficoltà di ricevere credito e credibilità da parte di chi abbia il bisogno impellente di essere altro dalla massa, di trovare tutta la propria energia e specialità, di essere fino in fondo e del tutto se stesso e di dovere scendere ad argomenti banali, pur di esprimersi e parlare con gli altri; dall’altro, e ancora prima, la volontà insopprimibile e la necessità intrinseca di comunicare, di parole da dare. Comunicare altro non è che “mettere in comune” (in latino cum è con, munis è ufficio, funzione, dovere). L’importanza della comunicazione, dunque, attiene al sociale, perché contiene la responsabilità di  includere l’altro. E non può essere allora un caso se l’ultima raccolta poetica di Mariangela Gualtieri, del 2015, s’intitoli Le giovani parole... Le parole d’ordine del nuovo, coinvolgente spettacolo del Teatro Valdoca sono essenzialmente due: comunicazione e gioventù, praticate e compiute attraverso il collettivo – il “coro” – (che è ricerca di nuova coesione, di comunicazione in una società composta da troppe individualità sfilacciate e sfibrate e quindi prive di anima).
Mariangela Gualtieri lascia spazio a un gruppo di ragazze e ragazzi per esprimere, in maniera peraltro mai esplicitata, il suo giuramento, un giuramento, com’ella stessa ha dichiarato, al teatro ed alla vita.
Vediamo e sentiamo cantare a cappella questi dodici giovani (otto ragazze, quattro ragazzi) seduti in cerchio la splendida So Real di Jeff Buckley, un pezzo che parla dell’amore e della paura di amare, che può essere comparata alla paura di essere se stessi e di comunicarlo all’esterno. L’inizio trasmette una certa cautela del gruppo. Il collettivo è in fieri, ma ha bisogno di tempo per formarsi. Lo si vede infatti nella lentezza estrema di un ragazzo su dei mini-trampoli: egli si muove morbido e silenzioso, fervido e attento, scrutante i secoli. Ed anche in questo si leggono nell’aria le non parole della Gualtieri, il suo pensiero. Ombre e forme disegnano la notte, questa figura solinga sembra la notte e sembra un albero, sembra un agguato e sembra un mimo.
Nella notte i rumori hanno altri spessori, altri rimbombi, altri sapori, altre ripercussioni; soprattutto, altre ripercussioni. Che non sono soltanto le percussioni del gong che campeggia nella sua semplice sovranità sonora e simbolica in fondo al palco ma in posizione centrale; che sono le ripercussioni delle nostre parole nel mondo. Le parole, il tono, il timbro, il contenuto, la forma, diventano proiezioni di noi nello spazio che ci circonda e che ci accoglie, che talora ci respinge o ci ignora. E diventano, le parole, obiettivo e tragitto, rivendicazione e canzone, unione, rinnovamento, rivoluzione.
Rivoluzione nello – e dello – spazio canonico. Nella naïveté non solo anagrafica, come la Gualtieri ci tiene a sottolineare, della gioventù. Il Teatro Valdoca esprime attraverso la gioventù, la parte più sana, cioè, incontaminata, attiva e reattiva, l’esigenza di mettersi insieme, di cercare insieme un senso in questo desolato, isolato mondo.
“Che cos’è, io chiedo, questo sentire?” è l’ascolto della sensibilità, che inizia dal corpo, suo medium, e la consapevolezza della sofferenza che da essa può derivarne. “Cerchiate la vita, fatele un segno” è invece l’asserzione dell’amazzone che segue l’urlo dell’autoaffermazione e dell’invito alla fiera espressione di sé attraverso gesti, anche violenti, e parole, anche dure, in nome di una fortificazione dell’essere, per contrastare proprio possibili paure. La piccola amazzone dice: “Fatemi del male, ma non poco, non poco... fatemi quello che siete”. Ancora una volta c’è un richiamo alla spietatezza, che non è disumanità, bensì richiesta di rinuncia alla commiserazione attraverso l’autenticità. Da qui solo può venire la sanità dei rapporti, la mancanza di pretese e aspettative, la possibilità di acquisire vigore duraturo.
“Mi esercito continuamente / Mi esercito al niente fino / Al mio colore puro”, conclude l’amazzone. La richiesta è quella di una purezza priva di mediazioni di comodo, l’idea che solo così si possa arrivare all’essenza. Subito dopo il coro invoca, compatto, la rivolta, desidera il “seme della tempesta”. È il passaggio probabilmente più toccante dell’intero spettacolo, l’affermazione della bellezza dell’intangibile, del suo anelito perché simbolo di verità, contro la corruzione della materia. “Spaccare voglio questa convinzione di concretezza, la dittatura dell’apparenza...”.
“Voglio affermare l’incertezza mia / Il metafisico sentire mio”. E condividerlo con i compagni. E partorire, figli fisici oppure no. L’anima esiste, ed esiste nell’espressione primigenia di sé e nel rapportarsi agli altri.
Un mitico ritorno al passato, agli elementi, ai sentimenti: “Il dialogo fra me e qualcosa che in me / È vivo d’una vita più antica della mia”. La riappropriazione della natura si erge a solennità simil-divina.
L’inno alla rivolta è la rivolta delle mani. Le mani fanno, le mani indicano, le mani incontrano, le mani si uniscono. E l’inno alla rivolta è portato a compimento dall’amore, forza incontrastata, che muove l’universo a partire dal due che si fa uno, e continua a stravolgerlo e a dargli nuova linfa vitale, perpetua, con il bacio e con l’opposizione. Il bacio è messaggio universale, il no per la Gualtieri è “benedetto”, immagino perché mantiene intatta la dignità personale. E se si ha la dignità, ci si può temporaneamente smarrire, ma non si perde il proprio sé originario. E quando arriva la solitudine, ci dice la Poeta, bisogna chiedere all’acqua, allo scoglio, agli elementi del creato.
Quando parlano di Amore, i ragazzi danno le spalle alla platea (forse perché l’amore è una cosa da non esibire, di cui non sprecare un attimo, né uno sguardo altro che possa togliergli l’interezza) e si abbassano gli abiti fino alla vita. L’Amore è nudo, è l’essenza.
Giuramento d’amore alla vita. Giuramento per la vita all’amore.
Piedi radicati per terra per guardare e afferrare il cielo.
Per avere, bisogna chiedere. Le verità elementari, quelle del benessere e dell’equilibrio, cioè dell’auto-amore, sono semplici.
“Sono sola. A chi chiedo...?”
E al ribadire della ragazza: “Sono sola e senza parole”, l’altra voce le risponde:
“Tu sei senza silenzio.
Chi è senza silenzio
non trova le parole”.
“Cosa chiedo? A chi chiedo?”
“Chiedi al tuo silenzio di tornare”.
Per ritrovarsi, occorrono solitudine e silenzio; le parole nascono nello spazio vuoto, nell’assenza. Lo spettacolo interroga e chiama in causa spazio e tempo. Lo Spazio è il futuro, ma è anche il passato: è idea di ambizioni e proiezioni galattiche ed esalazione di ciò che siamo, pensiamo, viviamo. Esalazione, perché respiro del Tempo e di ciò che produce: non sempre e non soltanto bellezza, anche corpi fatti a pezzi, inganni, dolore, prigionia di animale catturato, violenza del più forte su ragazza, tutto nell’indifferenza di Dio. “Dio? È un bambino, ti dico. Non sa – non vede. Tutto gli sembra un gioco”. E sono allora le parole di Büchner, pronunciate in tedesco su un giaciglio in ferro – bellissima scultura di Francesco Bocchini – posto su di una pedana a dare il senso, solenne, del trambusto terrestre: “Come fresca respira / E meravigliosa splende / La creazione / Che si porta / Attraversando il caos”.
La parte finale dello spettacolo è un crescendo ritmico e tonale che ha una densità rivendicativa di battaglia, di frontiera. Con il sotteso intento di abbatterle, le frontiere dell’anima, attraverso canti di tradizioni popolari intonati in varie lingue e attraverso la solidarietà. Solidarietà urlata di nuovo all’unisono dal Coro alle donne sacrificate, in nome di un arcaicismo maschilista, a ruoli subalterni, private di libertà, quando non sottoposte a violenze; solidarietà urlata a tutte le persone di altri luoghi – luoghi di povertà, luoghi di guerra – persone che soffrono la lontananza dai loro luoghi del cuore. Una solidarietà che mostra tutte le sue sofferenze, date dalla partecipazione emotiva al dolore altrui, ma che si rende necessaria in virtù proprio della responsabilità che la comunicazione porta con sé in quanto veicolo di contatto che forma e tiene insieme una comunità, incarnato dalla parola, dono fatto esclusivamente all’uomo, bene sommo e pericoloso al contempo, che ha in sé il privilegio dello scambio e della comprensione, della creazione, dunque, di valori e della costituzione dell’etica.
Questa Romagna mite e riservata, che quando si fa sentire, si solleva con un moto organico e lo fa con voce di potere, rappresenta l’alchimia tra diversi quali sembrano essere Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi, presenza leggiadra e volatile la prima, con un timbro vocale esile, presenza spessa e vulcanica la seconda, dalla vitalità contagiosa. È una Romagna che riflette e accoglie, che unisce e crea.
Generare, partorire, sono parole che ritornano come a voler sancire l’importanza del dare vita, il messaggio della fertilità che col suo entusiasmo primigenio e proiettivo può salvare il mondo. A partire dal Vuoto. Superandolo. Grazie all’immaginazione e alla volontà di vivere. Grazie all’unum – che è unicum – del coro, grazie – ancora una volta – all’Amore. “Ho più di cent’anni e tutto m’innamora” è il manifesto (del) possibile del Valdoca. Che ancora una volta regala immagini, sentimenti, visioni alte e cristalline.

 

 

 

 

Giuramenti
regia, scene e luci
Cesare Ronconi
testi Mariangela Gualtieri
drammatuegia del corpo Lucia Palladino
con Arianna Aragno, Elena Bastogi, Silvia Curreli, Elena Griggio, Rossella Guidotti, Lucia Palladino, Alessandro Percuoco, Ondina Quadri, Piero Ramella, Marcus Richter, Gianfranco Scisci, Stefania Ventura
guida del canto Elena Griggio
costumi Cristiana Suriani
proiezioni Ana Shametaj
costruzioni in legno Maurizio Bertoni
scultura in ferro Francesco Bocchini
foto di scena Maurizio Bertoni, Ana Shametaj
produzione Teatro Valdoca
con la collaborazione di L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Teatro Petrella di Longiano
con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Cesena, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
lingua italiano, tedesco
durata 1h 40'
Cesena (FC), Teatro Bonci, 14 aprile 2017
in scena dal 12 al 14 aprile 2017

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