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Thursday, 27 April 2017 00:00

In nome degli ultimi

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Entrando in sala, il protagonista di Giuseppe Z. ci aspetta già in scena, di spalle al vocio allegro degli spettatori che adagio prendono posto; mentre mi accomodo noto che uno degli attori – Salvatore D’Onofrio – è lì seduto in prima fila, iniziando così col conferire un primo significato dichiarato allo spettacolo, che individuerò in corso d’opera nell’intento di trasfondere un senso di inclusione del pubblico nella storia inscenata; la scena, ancora in penombra, mostra a metà palco un’impalcatura metallica sotto alla quale Peppino Mazzotta, è accomodato di spalle su una panca senza spalliera; un faro in alto ne illumina in chiaroscuro la figura.

E sarà questa figura emblematica d’uomo mite il perno attorno a cui ruoterà la messa in scena. Ma chi è Giuseppe Z.? È un ‘ultimo’ come ci dice quella sola iniziale del cognome, “né anarchico né comunista”, come dichiarerà lui, è un uomo dal passato indefinito e dal futuro incerto e del quale vediamo rappresentata al tempo presente la vicenda progressiva che lo porta ad incarnare un ruolo antisistemico.
Peppino Mazzotta tratteggia un personaggio che, incarnando tale ruolo, porta avanti ragionamenti che sembrano possedere una logica inoppugnabile, per quanto finiscano per scontrarsi con il senso comune e – soprattutto – con le leggi costituite allorquando il nostro decide di compiere un gesto “estremo” e di esplodere cinque colpi di pistola in un parco. Ma non è un terrorista, Giuseppe Z., la pistola gli serve solo “per farsi ascoltare”; come si diceva, è un ‘ultimo’ e gli ultimi non hanno voce e per rompere la sordina che il sistema gli appioppa possono solo affidarsi a qualcosa di eclatante, alla sensazionalità di un gesto col quale gridare al mondo: “Esisto!” (e “Z”, come c’insegna l’omonimo romanzo di Vassilis Vassilikos, in greco vuol dire proprio “è vivo”, esiste).
Eppure il suo gesto, per quanto ispirato ad una purezza istintuale con cui contrapporsi al sistema, proprio dal sistema non può che essere percepito come eversivo, come atto anarchico e ribelle di un facinoroso, pericoloso per la società verso la quale ha esploso cinque colpi all’impazzata ferendo accidentalmente anche chi semplicemente si trovava di lì a passare.
Ma nel suo serrato argomentare, il suo gesto si svuota di qualsivoglia intento doloso e assurge ad atto fortemente simbolico, che nella sua rappresentazione troverà contrappunto, quando non addirittura ostacolo in altrettanti “simboli” incarnati in scena, che vanno dalla sua donna (Giulia Pica) – che non lo comprende, che da lui si separa e che sembra incarnare la volontà di disimpegno, l’intento conveniente di voler girare la testa dall’altra parte – al commissario inquirente interpretato da Salvatore D’Onofrio, che in un sovratono costante connota la protervia del potere e l’intransigenza dell’ordine costituito, per finire col compagno di prigionia (Marco Di Prima), delatore al servizio del potere, che rappresenta la connivenza col potere stesso. Tutto ciò è funzionale ad imperniare su figure tipologiche i concetti cardine su cui s’incentra la vicenda; quattro figure per quattro polarità significative, che attraversano una scena pressoché nuda, illuminata in maniera essenziale, come  a trasmettere un senso di cupezza al limite della claustrofobia, condita da inserti musicali dal vivo eseguiti in una nicchia a fondo scena dalla tromba di Ciro Ricciardi. 
L’estemporanea violenza del gesto di cui è accusato Giuseppe contrasta con la pacata mitezza delle sue argomentazioni, con il semplice articolarsi del suo pensiero, che si esprime compiutamente in botta e risposta incalzanti e ficcanti, vòlti ad evidenziare l’incongruenza dei sistemi di potere, la loro inadeguatezza intrinseca a fornire risposte alle istanze provenienti dal basso, dagli umili, da chi è in coda alla piramide sociale e che cerca con un atto estremo di ribellione di reclamare attenzione.
La messinscena si fa apprezzare per la capacità recitativa degli attori, Mazzotta in testa, e la drammaturgia regge nella sua costruzione; ma, nel trattare (ed inscenare) il rapporto Uomo/Sistema si finisce giocoforza per scontare il ridondare di qualcosa di già visto e già sentito, che ben difficilmente può aggiungere visioni illuminanti (o spiazzanti) applicate alla realtà, benché inscenato con la freschezza di una valida riscrittura.
Buono spettacolo, che piace ma non imprime traccia profonda di sé negli spettatori, chiamati ad essere partecipi come si diceva all’inizio, ma che tornano, un attimo dopo gli applausi, al vocio allegro che ne aveva accompagnato l’ingresso in sala.
 

 

 

 

Giuseppe Z.
testo e regia Peppino Mazzotta
con Marco Di Prima, Salvatore D’Onofrio, Peppino Mazzotta, Giulia Pica
scene Grazia Iannino
disegno luci Cesare Accetta
musiche eseguite dal vivo da Ciro Ricciardi
aiuto regia Angela Carrano
direttore di scena e macchinista Nicola Grimaudo
elettricista Carmine Pierri
sarta Annalisa Riviercio
foto di scena Marco Ghidelli
scene a cura di Cattedra di Scenografia – prof. Luigi Ferrigno dell’Accademia di Bele Arti di Napoli
realizzazione scene Alovisi Attrezzeria
realizzazione costumi Sartoria Teatrale Di Domenico Fortuna
materiale elettrico e fonico Emmedue
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
lingua italiano
durata 1h 15’
Napoli, Ridotto del Teatro Mercadante, 17 marzo 2017
in scena dal 14 al 19 marzo 2017

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