“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 26 April 2017 00:00

La Storia siamo noi

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Since then, at an uncertain hour,
that agony returns:
and till my ghastly tale is told
this heart within me burns
(Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner)



“Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole”, scriveva Primo Levi nella poesia simbolo della Shoah Se questo è un uomo. Sarebbe bello poter dire, all’alba degli eventi degli ultimi giorni, che le nuove generazioni abbiano dimenticato, ma così non è. In Cecenia, una delle ottanta entità federali da cui la Federazione Russa è composta, la storia si sta ripetendo. “Uomini dall'orientamento sessuale non tradizionale o sospetto" vengono picchiati e torturati, anche con scosse elettriche sui genitali, affinché denuncino altri omosessuali. Se escono dalla struttura, la cui ubicazione è segretata e nella quale sembrano siano già morti individui, è solo per essere rinviati alle famiglie che si impegnano ad ucciderli.

La nuove generazioni ricordano e dal passato hanno imparato, ma forse hanno imparato nel verso sbagliato, valutando l’efficacia di un metodo e la possibilità di rimetterlo in atto. Ciò che sta accadendo è la prova di quanto il passato insegni: la nostra colpa è di esserci convinti, oggi, di vivere in un’umanità migliore di quella che eravamo decisi a lasciarci ufficialmente alle spalle. A permettere quello che ad oggi si configura come il massacro più grande della storia, il piano di sterminio nazista, non fu, se non in minima parte, l'ordine di un potente a cui prestare cieca fedeltà e doverosa obbedienza, ma piuttosto furono la cecità, il desiderio di guadagno, la stupidità e l'ignoranza volontarie.
A farla da padrone fu senza dubbio la viltà, diventata quasi un tratto distintivo della cultura dell'epoca, quasi una norma di buon costume compenetrata nella vita quotidiana: ai testimoni, fossero anch'essi interni alle alte sfere nel regime, spesso non rimaneva altro che la deportazione in luoghi impervi. Si veda, ad esempio, il caso di Stangl e di coloro che, dopo aver servito con diligenza cieca il Reich a Treblinka, furono abbandonati ad un destino infausto.
Leggendo I sommersi ed i salvati (1986) di Primo Levi, un saggio di analisi della tragedia prodotta dai campi di concentramento e sterminio nazisti, accomunato a Se questo è un uomo (1947) e a La tregua (1963) dall’urgenza di tramandare memoria di quanto accaduto, è chiaro sin da subito l’obiettivo ultimo dell’opera: oltrepassare la testimonianza, alla ricerca delle vere ragioni per cui le persecuzioni naziste furono possibili, e, soprattutto, garantire ai posteri una conoscenza quanto più possibile esente dal rischio di vedere la verità travisata o, peggio, negata. La memoria, di per sé, è uno strumento “meraviglioso, ma fallace”, perché inevitabilmente schiava degli eventi e dell’inconscio, il quale in molti casi (e per cose ben più lievi!) arriva a riscrivere quanto accaduto nella memoria di chi l’ha vissuto, dei “salvati”, al fine di contenerne gli effetti. Ciò che resta loro, spesso, è una memoria fittizia di quegli orrori, un ricordo censurato. “È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento”.
Il male nazista, come da celeberrima espressione di Hannah Arendt, era profondamente banale eppure talmente inusuale da apparire incredibile. Primo Levi descrive una realtà in cui il vincitore è padrone della verità, al punto da poterla manipolare e riscrivere, ma entrambe le parti, vittime ed oppressori, erano convinte che nessuno avrebbe mai prestato ascolto alle testimonianze, perché il velo dello stupore avrebbe negato alla verità di accedere alla psiche di chiunque avesse ascoltato.
Il mondo in cui ci si sentiva precipitati, stando alle parole di Levi, “era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il 'noi' perdeva i suoi confini”. Ma le cose, come sappiamo, smentirono questa consapevolezza. La storia dell’Olocausto fu scritta da coloro che non ne scandagliarono il fondo, riuscendo a sopravvivere e a mantenere una capacità di osservazione critica. La storia fu tramandata da chi non conobbe la realtà dell'orrore, la quale è morta nell'ignoranza di chi, vivendo e morendo nel lager, non ebbe in molti casi neanche la possibilità di comprendere dove fosse, per chi lavorasse, perché fosse lì, dove finisse chi spariva. In un altro braccio? All'altro mondo? Ciò che mancava era spesso la visione di insieme, necessaria a poter conoscere un fenomeno complesso come quello dei lager. “Per una conoscenza dei lager, i lager stessi non erano sempre un buon osservatorio”. Ci si dimentica spesso, per la legge dei grandi numeri o per ricordi di infantile istruzione, la varietà di casi umani che i lager accolsero.
Viene da chiedersi, infatti, leggendo il saggio di analisi di Levi, cosa avrebbe potuto mai scrivere un ebreo dei lager, in qualità di individuo deportato in virtù della sua confessione religiosa e non per motivazioni degne di essere definite come logiche. Sarebbe stato impensabile, soprattutto se si considera che fin troppo spesso a loro era preclusa la conoscenza della lingua tedesca, o di quel dialetto tedesco che veniva parlato dalle guardie, e quindi qualsiasi possibilità di relazionarsi con il mondo, in una sorta di annientamento totale anche del loro stesso pensiero, ancor prima della loro identità che veniva smembrata tra le piaghe di un numero sul braccio.
Un uomo che non può pensare, cos’è?
Ben diverso sarebbe il caso di un politico malvisto dal partito, categoria numerosa tra le mura del lager, capace di interpretare gli avvenimenti in virtù di uno sfondo culturale e, soprattutto, consapevole della forza delle parole. La testimonianza, in quanto tale, diventa di per sé lo strumento di lotta al fascismo ed al totalitarismo per eccellenza, ma gli unici a poter parlare furono coloro che non lo fecero o, se lo fecero, lasciarono solo lacunose testimonianze spesso prive di utilità. Eppure, viene difficile condannare con occhio critico l’intellettuale ebreo (e non) che non mise a disposizione delle future generazioni la sua penna: ciò che era rimasto di lui era nient’altro che un uomo che aveva visto cadere miserabilmente tutti i valori in cui aveva sempre creduto e in cui si era sempre rifugiato. Anche chi avesse avuto la capacità di parlare, non avrebbe trovato parole in quell’orrida condizione di ineffabile tragicità.
La realtà dei lager, se possibile ancor più cruda di quanto sia mai stato scoperto, giace ora con i “sommersi”, i veri testimoni, la chiave di volta ammassata in un luogo da cui la puzza non appestasse il naso degli aguzzini.
Giace nelle gole di quelli che Levi descrive come “i migliori”. A sopravvivere, infatti, “non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio, [ma] sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della zona grigia, le spie”.
I salvati altro non sono che una “minoranza anomala”, sfuggita alle misure naziste e al certosino lavoro di annientamento fisico e psicologico degli internati, la maggior parte dei qual ha abbandonato la propria moralità e/o integrità, al fine di essere considerati “utili" al funzionamento del campo ed aver salva la vita al punto tale da giungere all’essere complici dei loro stessi aguzzini: stiamo parlando dei Sonderkommandos, i prigionieri ebrei con il compito di gestire il funzionamento delle camere a gas.
Si legge tra le righe del terzo capitolo del saggio (La vergogna) quanto in fin dei conti preferibile sarebbe stato morire in quei lager. Cosa resta a chi è rimasto, se non il senso di colpa di non aver avuto “il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza” di salvare chi sarebbe potuto essere salvato? Una pena che molti, come lui, non seppero sopportare. Se erano salvi, non era certo per la solidarietà reciproca, quanto piuttosto perché nella lista dei mandati a morire vi era qualcun altro.
“La storia dà torto e dà ragione / La storia siamo noi” ha cantato De Gregori in una delle sue canzoni più celebri.
Tra i detenuti di quei lager ormai tristemente famosi, vi erano anche omosessuali, le cui divise da lavoro recavano un triangolo di colore rosa. Uomini e donne internati perché colti in atteggiamenti “perversi” o semplicemente perché sospettati di un crimine atroce quasi quanto l’essere di fede giudaica.

Non lontano dal confine tedesco, nell’Unione Sovietica di Stalin, in tutti i codici penali delle Repubbliche Sovietiche l’omosessualità venne nuovamente annoverata nell’indice dei reati. Era il 7 marzo 1934, un ventennio dopo la decriminalizzazione dell’omosessualità sotto il governo di Lenin, il quale permise anche ai gay di entrare nel Partito Comunista dell'Unione Sovietica. “Nella società sovietica con i suoi costumi sani, scriveva nel 1936 il commissario del popolo per la giustizia Nikolai Krylenko, l'omosessualismo è visto come una perversione sessuale ed è considerato vergognoso e criminale”. Esso non era visto come altro che “il prodotto di decadenza delle classi sfruttatrici”, ed “in una società democratica fondata sui sani principi” non vi era posto per individui perversi, caratterizzati da quelli che venivano descritti come sintomi di infantilismo psichico, difetti organici e disordini ormonali. La sola minaccia di smascherare l’orientamento omoerotico (vero o presunto) di dirigenti pubblici o del partito da parte del servizio segreto sovietico, il KGB, era un valido espediente di repressione di qualsiasi atto fosse malvisto ai vertici del potere.
Dal 1934 ai primi anni Ottanta vennero condannati ad una reclusione di cinque anni (con l’aggravante di altri otto, nel caso di “coercizione della vittima” o di rapporto con minori) circa cinquantamila maschi omosessuali, in base all’articolo 121 del codice criminale: nella maggior parte dei casi, nonostante la condanna fosse molto breve, lo stato di prigionia veniva tramutato in condanna ai lavori forzati presso uno dei molti gulag dell’URSS o impiegati in opere, come la realizzazione del il canale nel Mar Baltico o Mar Bianco o il disboscamento di zone siberiane.
Quando non morivano di fame e freddo in zone le cui temperature invernali raggiungono abitualmente i quaranta gradi sotto zero, ad ucciderli erano le malattie ed i pestaggi degli altri condannati.
A partire dai primi anni Novanta, con lo sgretolamento della dittatura comunista nell’Unione Sovietica, il numero di arresti diminuì notevolmente, ma nella politica sovietica non vi fu alcuna apertura sull’argomento.
A Argun, in Cecenia, la storia si sta ripetendo. In Cecenia non ci sono campi di concentramento, perché non ci sono omosessuali in Cecenia, il portavoce del presidente ceceno Ramzan Kadyrov lo ha messo ben in chiaro, ergo nessuno da internarvici. Se ci fossero, “non sarebbe necessario arrestarli, dato che i loro stessi familiari li invierebbero in posti da cui non potrebbero fare ritorno".
Ed esseri umani ce ne sono?
Dopo la disgregazione dell’URSS, la Lituania, la Lettonia, l'Estonia e l'Ucraina furono le prime ad abolire l’articolo 121, ma nell’ormai ex-Unione Sovietica la situazione dell’omosessualità non smise di essere vista come una forma di perversione ed il rapporto sessuale tra due soggetti adulti (anche se legale) come una forma di “coercizione autorizzata" (articolo 144). Nonostante il desiderio di entrare nel Consiglio d'Europa, il governo russo non riuscì a scendere a patti con la questione, al punto che il presidente Boris Nikolaevič El'cin ed il Consiglio della Federazione respinsero nel 1995 qualsiasi tentativo di riforma proposto dalla Duma, l’attuale camera bassa (ed elettiva) del Parlamento russo, sulla scia dell’articolo 132 del 1993, intitolato "omosessualità o soddisfazione di passione sessuale in altre forme pervertite".
Un accordo ci fu, certo. Ma in che termini?
Un popolo che si batte, ciecamente, in "difesa della famiglia tradizionale russa", è un popolo schiavo, che si rifiuta di riconoscere la necessità di una legislazione speciale che sia anti-discriminatoria ed in cui è bene nascondere la propria omosessualità, per la sicurezza personale, anche nel caso in cui si decida di arruolarsi e quindi, per il proprio Paese, rischiare di morirci. Non sembra esserci via di uscita a questo labirinto di contraddizioni legislative (ancor prima che umane) che permettono dal 1997 alle persone transessuali di cambiare legalmente il loro genere, dopo adeguate procedure mediche, e l’adozione di bambini russi da parte di persone singole omosessuali residenti in Russia o (nel caso di stranieri) solo cittadini di quei Paesi che non riconoscono il matrimonio omosessuale, ma che vedono illegale dal 3 luglio 2013 l’adozione di bambini russi da parte di coppie dello stesso sesso che vivono in Paesi stranieri che non riconoscono il matrimonio omosessuale.
Stando a quanto affermato da molti studi in materia di psicologia sociale, a giustificare la mancata reazione di una folla ad un evento drammatico (omicidi, incidenti, stupri...) è il cosiddetto “effetto spettatore”, un processo psicologico che induce l’individuo a non intervenire nella situazione, in una sorta di effetto domino che comporta la “divisione della responsabilità” che tuttavia non produce effettivo movimento.
Ciò che salverebbe è l’informazione. E la voglia di essere informati: non bastano, purtroppo, Tilda Swinton, Lady Gaga, Obama e concerti annullati. Non c’è foto profilo ed articolo condiviso che tenga. Questo male non è  banale. Questo male non è nuovo, ma violenza reiterata commessa da mani macchiate da sangue solo ormai secco a cui se ne aggiunge del nuovo.
In un Paese conservatore come quello russo, l’indice di sostegno pubblico alle unioni gay è fermo al di sotto del 20%, ma i dati non stupiscono: nonostante in molti, dall’estero si siano schierati a favore delle comunità LGBT russe, un Paese in cui anche introdurre qualsiasi argomento attinente all'omosessualità e ai diritti per le persone LGBT rappresenta un reato perché visto come una "propaganda", è un Paese senza speranza di redenzione perché costretto all'ignoranza.
"The gay community has, in our history, been attacked in every way you can attack a group. There’s nothing that the human race has thought of to tear down other people that hasn’t been used on us”, affermò Harvey Fierstein, attivista, durante un’intervista del 15 agosto 2013 al All In With Chris Hayes sul canale americano MSNBC: “We’re just human beings, we are your family, we’re not a strange group from somewhere else. We belong in your family, we’re teachers, parents, children”.
Egli fu il primo, durante il dibattito sull'eventuale boicottaggio delle Olimpiadi invernali di Sochi (2014), a paragonare la Russia di Vladimir Putin alla Germania di Adolf Hitler. L'attivista russa Lyudmila Alexeyeva ha definito la situazione attuale “un nuovo Medioevo”: mi secca controbattere che in tal epoca storica, e per la precisione fino al regno di Pietro il Grande, i rapporti omoerotici non erano osteggiati.
Le nuove generazione ricordano eccome le azioni dei loro padri, o per lo meno di quelle che sono giunte loro. Ed hanno imparato dall’efficacia delle loro nefandezze.
“La Storia siamo noi / nessuno si senta offeso”.

 





Primo Levi
I sommersi e i salvati
Torino, Einaudi, 1991 [1986]
pp. 181

                                  

Francesco De Gregori
La storia siamo noi

album Scacchi e tarocchi
data di uscita 1985

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