“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 03 April 2017 00:00

Parole cantate fra giochi di ombre

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L’inizio del libro IV dell’Eneide ci presenta Didone, la regina di Cartagine, mentre, colpita dall’amore per Enea, in preda all’agitazione “nutre una ferita nelle vene e un cieco fuoco la divora”. Nella Didone abbandonata (1724) di Metastasio, invece, Didone fa un ingresso solenne in un contesto scenico ispirato a un rigore quasi geometrico, mentre già in scena si trovano Enea, Osmida (confidente di Didone) e Selene (Anna, sorella della regina, così rinominata dal poeta).

Il melodramma metastasiano, con musica di Leonardo Vinci, è stato messo in scena lo scorso 26 marzo al Teatro Verdi di Pisa, con la regia di Deda Cristina Colonna nell’allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, sotto la sapiente direzione del Maestro Carlo Ipata (la prima rappresentazione dello spettacolo, che è anche la prima rappresentazione moderna della Didone con musica di Vinci, è andata in scena al Teatro Goldoni di Firenze l’8 gennaio 2017).
Il melodramma ha visto la sua prima assoluta a Napoli nel 1724, con musica di Domenico Sarro. Prima e dopo Vinci, numerosi musicisti si sono cimentati con il libretto metastasiano, fra i quali si possono ricordare Albinoni, Porpora, Hasse, Piccinni, Paisiello, Mercadante. La prima rappresentazione musicata da Vinci si ha nel 1726 a Roma al Teatro Aliberti, chiamato anche “delle Dame”.
La mise en scéne pisana si ispira, in modo libero e innovativo, direttamente alle didascalie del poeta romano. La scena prima si ambienta in un “luogo magnifico destinato per le pubbliche udienze con trono da un lato; veduta in prospetto della città di Cartagine che sta in atto edificandosi”. Lo sfondo, infatti, è costituito da un suggestivo gioco di ombre allestito dalla Compagnia Altretracce (i bravi Fabio Bellitti, Mario Sebastiano Di Bella, Massimo Arbarello), che mostrano la silhouette di monumenti e palazzi antichi, di una nave, di personaggi che portano una gabbia con una tigre, di mercanti che si muovono verso il porto. Queste ultime figure sono invece ispirate dalla didascalia che apre la scena quinta del primo atto che vede l’ingresso in scena di Iarba, il re dei Mori, sotto il finto nome di Arbace, e del suo confidente Araspe: “Iarba sotto nome di Arbace, Araspe con séguito de’ Mori, Comparse, che conducono tigri, leoni e portano altri doni da presentare alla Regina, e detti”. Successivamente, nel momento della partenza di Enea, viene proiettata la silhouette di una nave per mezzo di un modellino utilizzato come una specie di lanterna magica. L’immagine, fluttuante e danzante, rimanda al macrotema del viaggio e all’erranza dell’eroe troiano. Sul palco, da una parte vediamo una scala ai piedi della quale si trova la statua di una sfinge, dall’altra una struttura metallica che servirà agli attori della Compagnia Altretracce per avvolgere e spiegare un telone sul quale vengono proiettati altri suggestivi giochi di ombre.
Metastasio, per la stesura del suo testo poetico, trae ispirazione, in primis, da Virgilio ma anche dal terzo libro dei Fasti di Ovidio. Numerose, poi, prima di quella metastasiana, sono le opere ispirate alla figura di Didone: basti ricordare la Didone di Giovan Francesco Busenello, del 1641, o la Didone delirante di Antonio Franceschi, del 1686. Bisogna ricordare anche la celebre Dido and Aeneas di Henry Purcell su libretto di Nahum Tate, del 1689. Alla base della fortuna ‘moderna’ del mito sta poi la Didone di Ludovico Dolce, del 1547.1 I personaggi di matrice classica vengono ‘riadattati’ da Metastasio al milieu melodrammatico settecentesco: di Enea, rispetto al personaggio virgiliano, viene accentuato il carattere dubbioso, carattere che sarà tipico di molti altri personaggi metastasiani (pensiamo solo ad Achille, protagonista dell’Achille in Sciro, rappresentato a Vienna nel 1736, in cui Achille, nascosto a Sciro en travesti, appare diviso fra l’amore per Deidamia e l’impeto guerresco che lo spinge a partire per Troia). L’eroe appare infatti preda del dubbio se partire e seguire le prescrizioni del Fato o se restare al fianco di Didone. Quest’ultima, poi, è contemporaneamente “regina” e “amante”. L’amore distruttivo e lacerante che dominava l’eroina virgiliana si stempera in un sentimento più languido, più delicato che trasforma la regina cartaginese quasi in una dama dell’alta società del primo Settecento. L’intreccio erotico che si instaura tra i personaggi li conduce inoltre verso l’orizzonte della commedia musicale piuttosto che della tragedia eroica. Non è un caso, infatti, che la Didone abbandonata sarà particolarmente apprezzata da Carlo Goldoni, al quale interesserà soprattutto la dimensione ‘quotidiana’ della vicenda.2 Diversi critici metastasiani hanno rilevato nella Didone alcuni elementi di comicità,3 elementi che sono stati sicuramente accentuati in una parodia ottocentesca in romanesco della quale rimane soltanto l’Avviso.4
Enea e Didone si amano, ma anche Selene, sorella di Didone, è segretamente innamorata dell’eroe troiano; Araspe, confidente di Iarba, è sinceramente innamorato di Selene mentre il re dei Mori sembra unicamente intento a conseguire un matrimonio di interesse con Didone. Fra indecisioni, tradimenti, cospirazioni, finti duelli, alla fine, dopo la partenza di Enea, in modo prettamente melodrammatico, Didone si getterà nel fuoco appiccato per vendetta da Iarba, fuoco che sta divorando l’intera Cartagine.
La parola che si trasforma in sinuoso canto è indubbiamente l’indiscussa protagonista dello spettacolo: come è stato osservato, i personaggi metastasiani vivono proprio in virtù della parola, “la loro esistenza teatrale è legata alla possibilità di parlare. Sulla scena, chi non parla, non è”.5 Tale parola-canto vitale è stata magistralmente intonata sulle scene del Teatro Verdi da bravissimi interpreti: Roberta Mameli nella parte di Didone, Carlo Allemano in quella di Enea, Gabriella Costa in quella di Selene, Raffaele Pé in quella di Iarba e, en travesti, Marta Pluda e Giada Frasconi rispettivamente nelle parti di Araspe e di Osmida. Le stesse ‘colorature’ musicali della composizione di Vinci, come scrive Carlo Ipata in alcuni Appunti per una lettura musicale pubblicati nel libro di sala, “sono sempre utilizzate per dare maggiore enfasi alla parola e mai in senso puramente virtuosistico, nella continua ricerca di un canto declamato sostenuto da un accompagnamento strumentale perfettamente equilibrato”.6 Lo stesso allestimento scenico – si potrebbe aggiungere – sembra costruito per sottolineare la parola che esalta la caratterizzazione dei personaggi. Ad esempio, mentre Enea, rivolgendosi a Iarba, intona l’aria Quando saprai chi sono / sì fiero non sarai, vediamo scorrere sullo sfondo il profilo stilizzato di un guerriero; invece, quando Iarba-Arbace canta Son quel fiume che gonfio d’umori, gli attori e danzatori di Altretracce stendono sul palco un drappo bianco per mezzo del quale mimano l’impetuosità di un fiume. La figura di Didone, nell’allestimento pisano, sembra connotata da una maggiore impronta ‘eroica’ rispetto al testo originale: l’interpretazione di Roberta Mameli conferisce al personaggio una maestosità regale che rende Didone meno dama settecentesca e più regina. Gli stessi gesti della cantante, i suoi movimenti decisi, contribuiscono a creare una Didone più solennemente ‘tragica’. Inoltre, a coadiuvare l’interprete in questa sua peculiare rappresentazione di Didone è la scenografia: la scala, ai cui piedi si trova la statua di una sfinge, è fatta per essere solcata dalla regina in un atteggiamento maestoso e imperioso, mentre intona l’aria Son regina e sono amante. La sua parola si staglia sulla scena e sembra essa stessa l’indiscussa signora e regina di un dramma che, lentamente, si srotola verso l’estrema dimostrazione del suo coraggio che durerà fino alla fine, quando lo sfondo, gradatamente, diventa rosso fuoco a voler rappresentare, appunto, l’incendio che sta devastando Cartagine, lugubre apocalisse che invade la scena (“Oh dio, cresce l’orrore! / Ovunque io miro / mi vien la morte e lo spavento in faccia: / trema la reggia e di cader minaccia”). L’“orrore”, la “morte”, lo “spavento” sono affrontati da una Didone che, per mezzo di una parola cantata, rilancia solennemente la propria vitalità e la propria maestosa esistenza.




1) Cfr. A. Beniscelli, Felicità sognate. Il teatro di Metastasio, Il Melangolo, Genova, 2000, n. 33, p. 29. Per la fortuna del mito di Didone dall’antichità al Novecento si veda P. Bono, M. Tessitore, Il mito di Didone. Avventure di una regina tra secoli e culture, Bruno Mondadori, Milano, 1998.
2) Cfr. ivi, p. 36.
3) Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, Einaudi, Torino, 1996, p. 727; C. Varese, Saggio sul Metastasio, La Nuova Italia, Firenze, 1950, p. 59 e sgg.; W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio, La Nuova Italia, Firenze, 1963, p. 326 e sgg.
4) Così suona l’Avviso in questione: Avviso strasordinario de una cummedia de tre atti che se chiama gnente de mene che La Didona der Matastazzio, gran poveta romano. A pensà che sto gran Omo ha stirato le cianche da un pezzo te viè proprio da piagne. Dunque la Cummedia che c’ho ditto è straportata in de la lingua romana de Tristevere, e se farà drento al Teatro Palaccorda in der Carnovale de sto anno che curre 1838”, citato in P. Bono, M. Tessitore, Il mito di Didone, cit., p. 318.
5) E. Sala Di Felice, Metastasio, in Forme del melodrammatico. Parole e Musica (1700-1800). Contributi per la storia di un genere, a cura di B. Gallo, Guerini e Associati, Milano, 1988, p. 112.
6) C. Ipata, Appunti per una lettura musicale della Didone di Leonardo Vinci, in L. Vinci, Didone abbandonata, libro di sala, Stagione Lirica 2016-2017, Teatro di Pisa, Pacini, Pisa, 2017, p. 16.


 

 

Didone abbandonata
libretto di Pietro Metastasio
musiche Leonardo Vinci
edizione critica Carlo Ipata
trascrizione a cura di Gioele Gusberti, Alessio Bacci
direttore Carlo Ipata
regia Deda Cristina Colonna
con Roberta Mameli, Carlo Allemano, Gabriella Costa, Raffaele Pé, Marta Pluda, Giada Frasconi
scene Gabriele Vanzini 
costumi Monica Iacuzzo
disegno luci Vincenzo Raponi
impianto d'ombre Compagnia Altretracce
e con Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino: Alessandra Artifoni (clavicembalo), Giovanni Bellini (tiorba), Michele Tazzari (violoncello)
foto di scena Simone Donati
allestimento Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
coproduzione Teatro dell'Opera di Firenze, Teatro di Pisa
in collaborazione con Auser Musici
lingua italiano
durata 2h 55'
Pisa, Teatro Verdi, 26 marzo 2017
in scena 26 marzo 2017 (data unica)

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