“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 04 March 2017 00:00

Genio e follia: livido ritratto a tutto tondo

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A sipario chiuso il buio della sala è percorso da clangori metallici, come di cardini che stridono, porte che si aprono o si chiudono. All’apertura della tela una livida luce illumina fredda una complessa struttura metallica semicircolare: è una cancellata con delle sbarre che contiene al suo interno una struttura più piccola, cilindrica, nella quale si vede sospeso un tavolaccio, a mezz’aria, sul quale dondola adagiato un corpo, apparentemente esanime. Sulla destra si vede un carretto che funge da altare devozionale, coperto di lampade e candele e ospitante una statuetta della Madonna dell’Annunziata.

Nonostante le fiammelle delle luci l’atmosfera è tetra, verrebbe da dire che questa luce, fredda e impietosa, sia la cifra stilistica della messa in scena realizzata da Claudio Di Palma a partire dal romanzo di Wanda Marasco, Il genio dell’abbandono, dedicato allo scultore napoletano Vincenzo Gemito.
Grigio e bianco sono i colori che dominano: grigio il metallo delle sbarre, grigi gli abiti, grigi i volti, oppure bianchi, ma di un bianco insano, più simile al pallore cadaverico che al nitore della neve. Talvolta compare qualche altro colore, l’azzurro delle vesti di Mathilde Duffaud, amante e musa dello scultore o di Peppinella, la figlia, il rosso del viso e della carne di Gemito, quando è scosso dai tremori o preso dal delirio. Eppure la luce livida, che si riscalda solo di rado, illuminando con un tono più morbido cose e persone in scena, domina tutto, scolpisce i singoli personaggi, i singoli oggetti, li mostra e li nasconde con taglio netto, affilato, come se fossero congelati nell’istante della loro ostensione, raggelati nella posa estrema, della morte appunto. La scena si apre e si chiude sul corpo esanime dello scultore, come se tutto ciò che è mostrato in scena non sia altro che una rievocazione a posteriori, la riesumazione di una vicenda, la scultura in marmo che commemora chi fu, piuttosto che figura in creta di chi eternamente vive.
L’atmosfera in cui è immersa la vicenda è onirica e surreale: la narrazione segue piani e registri diversi, mescolando sapientemente il comico e il tragico, il pathos drammatico e il lazzo da vaudeville, la rievocazione storica della Napoli artistica del XIX secolo e le tirate della madre adottiva, Giuseppina Baratta, che procedono barocche per accumulazione di immagini, suoni, evocazioni. Il risultato è uno spettacolo complesso, ricco di spunti, punti di vista, sollecitazioni. Il rischio della rievocazione biografica, di ogni rievocazione biografica, è l’appiattimento del personaggio narrato in una prospettiva monodimensionale, funzione del punto di vista dello scrittore/regista, che fissa il soggetto nella posa scelta per il ritratto. La scultura è diversa: rappresenta la realtà a tutto tondo, può essere osservata da differenti punti di vista, potenzialmente infiniti, quanti sono gli osservatori. Così il ritratto proposto da Claudio Di Palma, complesso, molteplice, stratificato, contraddittorio.
La madre adottiva, ieratica e al tempo stesso carnale, rievoca la sua infanzia, il suo essere stato abbandonato alla ruota degli esposti, presso il complesso dell’Annunziata. “Madonna dell’Annunziata, gonfialo di latte”. Cinque figure ammantate di nero la attorniano, come in processione, come in orazione, come in veglia funebre: “Ora pro nobis” (con l’accento sull’ultima sillaba di nobis), “Madonna chiatta, ora pro nobis”. La madre lo ama, pur conoscendone tutte le asprezze del carattere, lo giustifica, lo protegge, non lo abbandonerà mai, nemmeno da morta: “Da questa casa i morti non se ne vanno”. O forse, in realtà sono tutti morti, appunto, sono spettri che vengono evocati in palcoscenico per raccontare la loro storia, o meglio, per sbozzare in maniera sempre più precisa la figura dell’unico personaggio che domina la scena, Gemito, l’unico il cui volto si colora del sangue della vita, seppure solo negli accessi di rabbia e commozione, l’unico nel quale viene insufflato il soffio vitale, mentre gli altri spettri tremolano accanto e attorno a lui, come le fiammelle delle candele. Vincenzo Gemito è l’unico di cui sembra indubitabile la consistenza umana, l’esistenza hic et nunc: gli altri, seppur presenti, sembrano tutti prodotti della sua mente, figure immaginarie, oppure immaginate, oppure rievocate. Ricordi che prendono la forma di persone, agiscono, interagiscono, ma non si riesce mai a comprendere se e quanto di ciò che vediamo sotto i nostri fallaci occhi sia reale e quanto il prodotto della mente del protagonista.
Brevemente ripercorriamo gli anni della sua formazione artistica, sotto la severe sferza del maestro Emanuele Caggiano, che lo voleva assoggettare alle leggi dell’arte del disegno, prima di passare alla scultura; l’incontro con la Francia; l’amore per Mathilde Dussaud e la sua morte; il matrimonio con la modella Nannina Cutolo; l’amicizia con il pittore Antonio Mancini, Totonno; la reclusione nella casa di cura/manicomio; la violenza domestica; la gelosia possessiva nei confronti della moglie; il lavoro disperato e allucinato; la morte.
La figura di Gemito/Claudio Di Palma giganteggia su tutti: il corpo si piega ad ogni richiesta, passando dalla fissità bolsa dello sguardo, al torpore delle membra, al gonfiore delle vene del collo tese nello sforzo rabbioso. Le mani sanno essere tremule, oppure ferme in quella rigidità stolida dei corpi imbottiti di psicofarmaci, privi di impulso motorio; la schiena si curva e poi si tende, lo sguardo è smorto, ma poi sagace, fiero, allucinato. Accanto a lui campeggia la figura della madre, Giuseppina Baratta/Angela Pagano, quasi deuteragonista dello scultore, quasi ascende alla dimensione di personaggio, depositaria del segreto del suo nome: Genito, tramutato in Gemito per errore di trascrizione da parte della monaca dell’Annunziata, come se in quell’errore, in quella consonante sbagliata, si condensasse tutto il senso di una nascita (Genito come genitus, nato) che si porta appresso il marchio indelebile del dolore, evocato dal quel gemito che l’uomo si porta appresso come cognome. Antonio Mancini/Alfonso Postiglione incarna lo spirito comico, a lui è affidato il lazzo e il guizzo, la parlata napoletana antica, le movenze e le cadenze da teatro di Petito: a lui è affidata la risata che scioglie la tensione e prepara al pathos successivo. Colpisce la varietà di accenti affidata a Peppinella/Francesca De Nicolais, che entra in scena insieme alla madre, su un carretto, sorgendo dalle sottane di lei come bambola, muovendosi a scatti come un pupazzo, come un manichino, in una sorta di balletto allucinato che evoca la follia della violenza domestica dello scultore, per passare nel finale ad una carica naturalistica altrettanto convincente.
I cambi di prospettiva si susseguono come lampi, come sfaccettature diverse di un cristallo: Claudio Di Palma non si ferma alla facile agiografia dettata dal pietismo, il bambino abbandonato, maltrattato dal severo maestro che vuole trarre profitto dal suo talento senza insegnargli nulla, la reclusione in manicomio. No. In scena vediamo l’uomo fragile, provato dalla vita, dai farmaci, dal dolore; ma vediamo anche l’uomo egoista, rabbioso, posseduto solo dal suo genio, dalla sua arte, dalla sua necessità di tradurre la vita in immagine, anche la moglie morente; l’uomo che non sa vedere oltre se stesso, o meglio oltre quella parte di se stesso che è la propria urgenza di espressione artistica e che utilizza le persone attorno, ne incrocia il destino senza mai davvero incontrarle empaticamente.
Il finale torna circolarmente sull’immagine iniziale: la madre, le grate delle sbarre, il corpo oscillante sul tavolaccio sospeso. Lo sguardo si chiude incantato sul sipario, sospeso, stupefatto, chiedendosi se ha visto dei fantasmi evocati o dei personaggi in carne ed ossa, se una storia si è svolta o se tutto, dopo tutto, non sia stato altro che l’elucubrazione di una mente sconvolta dalla sifilide, che rievoca e fantastica e si avvolge, una volta ancora, su se stessa, prima di trovare pace.

 




Il genio dell’abbandono
di
Wanda Marasco
collaborazione alla drammaturgia Claudio Di Palma
regia Claudio Di Palma
con Angela Pagano (Giuseppina Baratta), Claudio Di Palma (Vincenzo Gemito), Cinzia Cordella (Mathilde Duffaud), Paolo Cresta (Dott. Virnicchi), Francesca De Nicolais (Peppinella Gemito), Giacinto Palmarini (Emanuele Caggiano), Alfonso Postiglione (Antonio Mancini), Lucia Rocco (Nannina Cutolo), Gabriele Sauro (Masto Ciccio)
scene Luigi Ferrigno
costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Paolo Vivaldi
aiuto regia Paolo Cresta
assistente alle scene Fabio Marroncelli
direttore di scena Teresa Cibelli
capomacchinista Enzo Palmieri
macchinista Luigi Sabatino
attrezzista Marco Di Napoli
capoelettricista Antonio Gatto
fonico Daniele Piscicelli
sarta Daniela Guida
foto di scena Marco Ghidelli
edizioni musicali Flipper Music
realizzazione scene Alovisi Attrezzeria
realizzazione costumi Farani Sartoria Teatrale
calzature Pompei
materiale elettrico e fonico Emmedue
trasporti Autotrasporti Criscuolo
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
lingua napoletano, italiano
durata 1h 40'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 28 febbraio 2017
in scena dal 22 febbraio al 5 marzo 2017

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