“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 01 February 2017 00:00

Un delirio pirandelliano

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Il Camelot
“Non sono nato a Messina. La prima volta che ho sentito parlare dell'(ex) ospedale psichiatrico Mandalari è stato a causa dell'Opera dei pupi. Stavo aiutando Venerando Gargano, l'ultimo puparo della città, a registrare un cunto in cui ripercorreva il curriculum centenario della sua famiglia e venni a sapere che Rosario, suo padre, proprio nel periodo di massima indifferenza della città verso i suoi gloriosi paladini, fece laboratori ai pacci di Mandalari” – ai pazzi del Mandalari.

Così comincia un articolo di Pier Paolo Zampieri, sociologo e docente universitario, intitolato Inconsci urbani e pubblicato su O.O.A. (Osservatorio Outsider Art), rivista dell'Università di Palermo. Zampieri racconta del Camelot – il Centro Diurno che della cittadella della salute 'Lorenzo Mandalari' fa parte – e ne racconta in particolare il momento nel quale le pareti, pur restando in piedi, ferme nella loro composizione muraria, hanno ceduto sfrangiandosi per mezzo dell'arte, determinando un'apertura, la possibilità di relazione tra il Centro e Messina, alimentando l'interesse sopito e la reciprocità dello sguardo, la fine dell'isolamento, dell'imbarazzo e del silenzio. “C'è un'occasione, si voleva ridipingere la sala mensa; c'è un caso, un ausiliario che dice: perché non facciamo un grande murale? E, non appena viene accettata l'idea, si sceglie l'immagine della mietitura con la sua potente simbologia di morte e di rinascita”. “Questa visione irradia il personale prima e i pazienti dopo, fino a trasformare l'intera atmosfera del Centro. Quella potente immagine” – scrive infatti Zampieri – “diventa luogo di negoziazione sociale”: “esprimere un'opinione sul colore del grano, porgere un pennello o prenderlo in mano e apporre un segno sul muro, che verrà a sua volta commentato dagli altri, scatena una dinamica relazionale impensabile solo fino a pochi giorni prima”: viene meno la rassegnazione quotidiana del personale; viene meno la propensione autistica dei pazienti. Così il muro, “da simbolo di chiusura e di separazione verso l'esterno” riacquista, “grazie al potere aperto dell'arte”, la dimensione di “diaframma sensibile e manipolabile posto tra paziente, medico, amministrazione e città”. Da allora al Camelot – resistendo anche allo smantellamento impostogli e al trasloco che ne deriva – non ci si ferma più: “tutto il Centro viene investito da questo metodo e non c'è più un solo oggetto che non venga radicalmente trasformato”: “i buchi nei muri diventano occhi di delfini, le crepe si trasformano in nuvole, i vecchi tavolini grigi diventano strazianti tele orizzontali” mentre “i materiali di risulta si trasformano in sentieri e giardini”.
Si agisce, al Camelot, perché il Centro diventi “uno spazio altro” attraverso “una partecipazione collettiva alla creazione” perché sia scritta una storia differente, narrata con “un linguaggio altamente simbolico”. Presto alla pittura s'affiancano la musica e il teatro e il “risultato di questo processo è che la famosa apertura al territorio, che ogni ex ospedale psichiatrico invoca come un mantra, è diventata bidirezionale: non solo da lì si può uscire” (nel 2015, ad esempio, pazienti e personale mettono in scena uno spettacolo presso la Badiazza, un monastero poco distante e posto sul colle omonimo) “ma, grazie a quel potente magnete” che è la Bellezza, lì si può entrare per cercare di “realizzare iniziative e produzioni culturali”. Al Camelot trovano ospitalità i pupi della famiglia Gargano e le opere di Giovanni Cammarata; va in scena Conferenza Tragico-Effimera di Carullo/Minasi; al Camelot si scopre l'esistenza di un artista – Gaetano Chiarenza. “Diagnosticato come affetto da grave schizofrenia disorganizzata e paziente da molti anni”, Gaetano “non era mai entrato in contatto con l'arte prima dell'anno zero”, l'anno del murale; “contagiato dallo spirito nuovo” che si respira al Centro “rivela subito un'attitudine notevole”: il disegno, la scultura, la pittura.
Chiarenza ogni giorno si dedica all'Arte: mezzi busti e statue intere solenni, totemiche, contraddistinte dal geometrismo degli angoli e delle linee rette; figure a sfondo religioso o mitologico; un lenzuolo che funge da tela e sul quale disegna l'Inferno o un Nettuno affiancato da sirene (Scilla e Cariddi, forse) tra le cui gambe il sesso diventa una ferita. La partecipazione a una mostra collettiva; la vendita delle prime opere; l'interesse della critica e, in particolare, di Lucio Barbera, colpito dalla “solitudine estrema” espressa “da quelle forme piatte incollate sul fondo: individui in un bagno di colore, destini immersi nel brodo della vita”.



Il Camelot, in teatro

In Delirio bizzarro innanzitutto c'è il Camelot. C'è perché Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi vi hanno trascorso mesi osservando, discutendo, annotando, entrando in relazione pre-creativa con i pazienti e il personale; c'è il Camelot in Delirio bizzarro perché il “dottor Allone” che chiama o viene chiamato al telefono durante la messinscena non è il frutto di un'improvvisazione attorale o la conseguenza di un'invenzione drammaturgica: è il rimando a Matteo Allone che il Camelot lo dirige ed al quale si deve la trasformazione. Ci sono i colori del Camelot, metaforizzati nelle cartelline e nei fogli variopinti che si vedono nello spettacolo; ci sono i pazienti e il personale nelle creature che vengono mostrate in assito – “Mimmuzzo è lui” racconta ad esempio la Minasi al pubblico, in un incontro successivo alla messinscena: “sì, Mimmuzzo è lui, ci dissero subito i pazienti identificando immediatamente nel possibile personaggio dello spettacolo uno dei degenti” –; c'è il Camelot nel nome di una medicina effettivamente esistente (“Psicoben”, un antipsicotico), in una domanda fuori contesto che viene più volte ripetuta (“Ma tu la conosci Mariangela Buonanno?”), nel riferimento alla riduzione di personale o in certi dialoghi al cellulare – “Lei dov'è? Dall'assessore? Me ne occupavo io, con le mie competenze manageriali” – che richiamano gli impegni di rappresentanza, gli obblighi burocratici, le relazioni istituzionali, la divisione interna del lavoro.
C'è il Camelot quando Sofia/Cristiana Minasi accenna al 115, il pullman che porta a “viale Giostra” poiché è proprio nel quartiere Giostra – A Giustra – che si trova il Camelot: zona in cui la bellezza della Villa De Gregorio, che ospitò Goethe durante il viaggio in Italia, o l'imponenza delle chiese e del Seminario Arcivescovile cede il passo al degrado (l'odore dei cassonetti bruciati, gli spartitraffico pieni di rifiuti, le buche del fondo stradale, le corse clandestine di auto o di cavalli, i cartelli bucati dai proiettili) e c'è a tal punto che Sofia, dicendone, afferma che “a viale Giostra non c'è niente di bello: solo il mercato, solo bancarelle” alludendo probabilmente al mercatino rionale che sorge al cospetto della chiesa di Sant'Orsola, detta proprio “la chiesa davanti al mercato”.
C'è il Camelot nel gioco che Mimmo/Giuseppe Carullo compie più volte con la scarpa, infilata sulla mano come un pupazzo, giacché ne richiama la sala grande ovvero il Salone dei Cavalieri, decorato dai pannelli coi paladini dell'Opera dei pupi; gesto scenico che si rifà anche alla tradizione messinese in quest'arte, testimoniata proprio da viale Giostra, così chiamato perché antica sede di tornei cavallereschi, funzione richiamata dalla presenza dei teatri di marionette (quello aperto da Venerando Gargano nel rione San Matteo).
C'è – ancora – nella scenografia: perché le alte pareti che fungono da fondale e che sono la rappresentazione teatrale delle mura che cingono all'interno i pazienti, separandoli dal contesto cittadino, sono l'installazione artistica con cui Cinzia Muscolino, che ne è l'autrice, mi sembra renda insieme la chiusura e l'apertura del Camelot, le sue mura sfrangiate e disfatte dalla creatività umana di chi lo abita, ma sono anche un richiamo a un quartiere contraddistinto – cito l'articolo di Zampieri – da un'edilizia popolare “modernista” e futurista: mura incomplete, traversabili (d'altronde è la soglia la sede della poetica di Carullo/Minasi) e che, nella loro costituzione zigzagata, paiono influenzate proprio dal futurismo. 



Luigi e la pazzia di Antonietta

Fa parte dellla cultura teatrale di Carullo/Minasi un autore che non è stato ancora messo in scena, non in modo diretto almeno. Agisce in segreto, quest'autore, come una sensazione sottocutanea, influenzando la scrittura drammaturgica, il pensiero registico, la genesi degli spettacoli e dei personaggi. Citiamo, di volta in volta, Platone, Kantor e Leopardi parlando o scrivendo del teatro di questa compagnia, e Virginia Woolf o Samuel Beckett, tacendo un punto di riferimento imprescindibile: Luigi Pirandello. Il suo nome appare in qualche intervista o diventa breve argomento nei dibattiti con gli studenti che – talora – Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi tengono dopo aver recitato. Suona il termine “Pirandello”, però viene dimenticato in fretta anche se è fonte, prospettiva, materia continua di studio. Ebbene, a me sembra che Delirio bizzarro, pur non citandolo mai espressamente, sia (fino ad ora) lo spettacolo più pirandelliano di Carullo/Minasi.
D'altronde, lo sappiamo, Pirandello conosce la pazzia: ne conosce i malanni, le aggressività, gli incubi e il loro ossessivo ritorno; il sollievo apparente e le ricadute improvvise, il senso d'ira, di solitudine, di diversità e di disfatta che produce.
Ha conosciuto la disperazione ammattita che viene dal dissesto economico (l'allagamento della zolfara paterna), certo, e si è confrontato con quell'altra forma di assurdità che è la guerra, capace di portargli via un figlio per mesi. Ma, soprattutto, Pirandello conosce la follia che alberga nei pensieri reconditi e che poi si manifesta nei gesti plateali e violenti di chi gli sta accanto: Antonietta Portulano, sua moglie.
Sposata dopo sessanta ore di fidanzamento – Luigi vede Antonietta per due ore al giorno, per un mese in totale, sempre in compagnia della madre (di lei) e della sorella (di lui) come testimoni e guardiane – e senza dunque conoscerla davvero (“il tuo cuore è per me ancora un'urna chiusa” le scrive quando mancano venti giorni alle nozze), Antonietta aggiunge a una latente malattia di nervi – dovuta a un temperamento già irritabile e fragile – una gelosia senza controllo: gelosa delle allieve di Pirandello, quand'egli esercita come insegnante; delle attrici che osserva o incontra a teatro; infine della figlia al punto da accusare – marito e prole – di volerla avvelenare (la costringe ad assaggiare per prima i piatti che vengono cucinati) e di avere consumato rapporti incestuosi. Ne viene la disperazione in casa: le urla notturne; gli insulti; la giacca strappata durante un litigio; gli arredi distrutti; il lettuccio messo in corridoio o nella camera degli ospiti, dove Pirandello è costretto a coricarsi; la fuga e il tentato suicidio della figlia, fallito perché la pistola s'inceppa. Affetta “da delirio paranoide” che la rende “pericolosa per sé e per gli altri”, come dichiara la cartella medica, Antonietta finisce in una clinica psichiatrica, a Roma, nel 1919: lì morirà quarant'anni dopo.
Questa paranoia, incontrollabile quanto lo sono i dolori o gli imprevisti della vita, trova forma ripetutamente nelle opere di Pirandello: novelle (tra le altre: Il soffio, La verità, La signora Frola e il signor Ponza suo genero, Il treno ha fischiato), romanzi (Uno, nessuno e centomila, ad esempio), opere teatrali: Così è (se vi pare), Enrico IV, Il berretto a sonagli, ancora più sconvolgente e feroce nella versione in dialetto: 'A birritta cu 'i ciancianeddi. La sofferenza è tale che Pirandello scrive della pazzia anche nelle lettere indirizzate al figlio Stefano e in quelle inviate a Marta Abba e – d'altronde – non è forse “manicomio!”, mi viene da aggiungere, che gli urlano gli spettatori del Valle alla fine della prima dei Sei personaggi?
Che si tratti di (dolorosa) vita vivente cui Pirandello cerca di sottrarsi dandogli forma artistica lo dimostra, ad esempio, la novella Personaggi, in cui anime in cerca di uno scrittore chiedono di essere salvate dal flusso ininterrotto dell'esistenza diventando fisse creature di un libro; lo conferma Sei personaggi in cerca d'autore, che Pirandello pensa prima come romanzo – “romanzo da fare” si legge negli appunti – salvo comprendere che solo il teatro può mostrare il “dramma terribile”, questa “ossessione che non passa” e che gli scortica l'anima; lo dichiara una lettera a Ojetti in cui il titolo di un'opera teatrale serve a descrive la disperazione privata:
“Ho una moglie, caro Ugo, da cinque anni pazza.” – scrive – “E la pazzia di mia moglie sono io, il che ti dimostra senz'altro che è una pazzia vera. Io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, esclusivamente, e per il mio lavoro, esiliato da tutto il consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto d'adombrarsi. Ma non è giovato a nulla, purtroppo; perché nulla può giovare!”. Poi aggiunge: “Intenderai facilmente, non c'è denaro che basti: tutto quello che entra è subito ingoiato, divorato dal disordine che regna in casa da sovrano assoluto e con in capo il berretto a sonagli della follia”.
Comporre per il teatro non è dunque, come scrive Matteo Collura, solo “un potente anestetico e uno sfiatatoio indispensabile per l'accumulo di ansie, rabbie, impotenze” ma diventa qualcosa di più: scrivere è il mezzo – presa coscienza che il dramma della vita continua e che non si interrompe – per sottrarsi a questo dramma al pari di una vittima che ha già subito troppo e che ora cerca di mettersi in salvo: per quanto possibile. La vita si vive o si scrive, afferma d'altro canto Pirandello: dopo averla vissuta egli decide di scriverla, cioè di fissarla sulla pagina e in scena, così provando a liberarsi dall'obbligo di doverla vivere ancora.
Basta un dato per comprendere l'urgenza di questo processo: se, come nota Giovanni Macchia, le parole “vita” e “vivere” in Così è (se mi pare) – 1917 – vengono usate quindici volte, in Sei personaggi in cerca d'autore (1921) le occasioni sono cinquantasei mentre sono centonove i “vita” o “vivere” contenuti in Trovarsi (1932). Si scorge in questo, per dirla ancora con Macchia, una crescente “autobiografia della disperazione” espressa attraverso trame e personaggi e che porta dall'impatto quotidiano col dolore – ormai insopportabile – alla creazione di una guaina teatrale protettiva: “un falso io”, frutto di “un'esasperata coscienza di sé e degli altri che confina le figure che nelle opere ne sono affette nel quadro di una psicopatologia esistenziale”.
Ebbene: è proprio ciò che mi sembra capiti con Sofia e Mimmo, i protagonisti di Delirio bizzarro.



Sofia e Mimmo
Mimmo vive bloccato in un eterno presente come dimostrano la coniugazione del passato all'adesso (la nonna è morta da un anno ma lui ne parla come fosse ancora viva), la continua ripetizione di gesti, frasi, posture, bisogni (il caffè, le sigarette, il pranzo), la smodata passione per il teatro giacché – lo sappiamo – è il presente il tempo del teatro.
Simile a certe figure pirandelliane costrette all'assedio del giudizio degli altri, Mimmo è colui che ha già vissuto e, dunque, ora non può che limitarsi a raccontare la vita: per questo il suo desiderio costante di parlare (è lui che dà inizio quasi sempre al dialogo), il suo insistente “facciamo la recita?”, l'importanza che dà alla possibilità d'essere in scena: unico modo per dire dicendosi e dunque per esistere di nuovo, nell'alveo tuttavia protettivo costituito da una storia ('U stidduzzu ovvero 'U 'ncantatu ri stiddi, cunto calabrese che parla di un giovane incantato dalle stelle al punto da lasciare la casa materna e da perdersi) e limitato dalla perimetratura rassicurante della scenografia. Pazzo che il consorzio sociale definisce arbitrariamente pazzo, performer in attesa fremente di replicare la sua performance, cosciente ormai cronico del valore distorto e afflittivo della burocrazia dalla quale è stato valutato e rinchiuso, Mimmo mi ricorda Vitaliano Moscarda quando in Uno, nessuno e centomila s'incammina in campagna e cioè lontano ed altrove dal “mondo costruito” della città – “case, vie, chiese, piazze” – e s'incammina  per confondersi con il verde, per “non aver più coscienza – come una pietra, come una pianta – ”del proprio nome, della propria vita, dei propri dolori: “Sdraiati qui, sull'erba, con le mani incrociate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole” dice Vitangelo. Per usare le parole di Giancarlo Mazzacurati: è la “riscoperta dell'essenza creaturale” che coglie certe figure di Pirandello le quali – “uscite, per una via tangente che agli altri appare follia,” dalla storia e dal tempo degli uomini – si confondono con le proprie chimere naturali, assolute, fantastiche.
Così in Delirio bizzarro Mimmo finirà, non a caso, sdraiato come Vitangelo Moscarda, simile a un cristo in croce, immerso nell'amato blu del cielo notturno: in questo somigliante per certi versi alle figure dipinte al Camelot da Gaetano Chiarenza: espressione, dunque, di “una solitudine estrema”; forma piatta “incollata sul fondo”; individuo “in un bagno di colore”, destino “immerso nel brodo della vita” ormai trascorsa e lontana.
Se Mimmo appare subito come il matto che la presunta sanità sociale bolla come matto è invece una figura liminare − a lei è consentito il dietro le quinte che a Mimmo è negato − la Sofia interpretata da Cristiana Minasi che scivola, nel corso dello spettacolo, dal ruolo di assistente professionista a quella di paziente. Il completo viola e verde, i due cellulari (il “333” e il “338”, uno per la “famiglia” e uno per il “lavoro”), le continue telefonate e le cartelline, i fogli divisi in precise colonne verticali tracciate a penna, l'elenco degli ammalati di cui prendersi cura: “Francesco, Vittoria, Ada, Geremia, Sofia, Mimmo”. Non sfugge: l'ultimo nome è quello di chi le sta accanto; il penultimo è il suo. Altro particolare: entrando e prendendo posto alla scrivania posizionata al centro del palco vi appoggia un cigno fatto con la tecnica degli origami: cioè realizzato durante una delle attività offerte ai pazienti. Questo sembra dirmi che – per quanto il personaggio sia stato definito con l'ambiguità scenica necessaria (è davvero un'assistente del dottor Allone? ci si chiede ancora a metà dello spettacolo) – in realtà fin dal primo istante di Delirio bizzarro siamo al cospetto di una donna che si è progressivamente costruita ed imposta un'immagine di sé fino ad ammalarsene per cui il suo abbigliamento si fa costume, le telefonate sono prassi ripetuta, la sua identità diventa una sembianza. Insomma: anche Sofia si è irrigidita in una forma e, dunque, adesso la recita. Perché?
Il motivo mi sembra tradizionalmente pirandelliano: Sofia fugge in questo modo alle norme stringenti costituite dai patti sociali, dagli obblighi che le sono imposti dalla famiglia in cui è nata, dalla propria condizione economica e dalle aspettative altrui cui deve fare fronte: il fidanzamento, il matrimonio, l'alto voto di laurea, il concorso al Ministero, uno stipendio adeguato, il lavoro nello studio di papà. In questo senso le telefonate alla madre – una circostanza di ritorno: Sofia ripete ora ciò che ha detto alla mamma in passato – assumono il valore della confessione: è in questo scambio ossessivo e nonsense la verità della sua vita, alla quale si è sottratta per interpretarne una diversa, desiderata e plausibile e la cui falsità viene smascherata nel momento in cui anche a lei tocca dire dicendosi ovvero leggere la sua cartella clinica: “Non sa chi è”, “è rossa tinta”, “soffre di alopecia” ovvero soffre di tricomania: un bisogno compulsivo di tirarsi o strapparsi i capelli. Finirà, nella penombra laterale di Delirio bizzarro, come una mater dolente, anch'ella simile a una figura di Chiarenza: libera per metà dal suo costume di scena; gridando “Mimmo, Mimmo bello, torna a casa”; stringendo ciocche di capelli tra le dita.



Tutti noi

Sofia viene dall'alta borghesia cittadina, appartiene a una famiglia di professionisti, ha compiuto un eccellente percorso di studi, ha un futuro professionale garantito purché si mantenga nel solco tracciatole dal padre. Mimmo è stato un operatore ecologico, vagamente scansafatiche, ha avuto accesso alla pensione d'invalidità grazie alla nonna, che lo ha preparato per la visita di controllo della commissione.
Ebbene.
La caratterizzazione opposta delle due figure serve a dirci che non c'è cognome, contesto di nascita, condizione economica, livello culturale che ti salvi a prescindere – direbbe quel comico pazzo di Totò – dalla possibilità di ritrovarti nel Castello di Delirio bizzarro, nella clinica in cui fu ricoverata Antonietta Portulano, al Centro Diurno il Camelot.
Generando figure che sono l'una il contrario dell'altra per provenienza, censo, formazione, abitudini, prospettive di guadagno e lessico usato Carullo e Minasi ci ricordano che tutti noi, nessuno escluso, siamo potenziali degenti; di più: come avviene in Pirandello, i pazzi dell'opera finiscono, col proprio travaglio personale, per dire della pazzia della società intera: dei suoi meccanismi collettivi, delle storture che finiscono per agire sull'individuo. Come ogni figura di Pirandello che si arrovella nei ragionamenti, apparendo agli altri ammattito, Mimmo e Sofia svelano quanto sia malata la quotidianità di cui facciamo parte: l'eccesso burocratico, l'imposizione di tappe, traguardi e trionfi, l'omologazione compulsiva, il consumismo sfrenato, la dipendenza crescente dalla tecnologia, l'uso di maschere estetiche e comportamentali finalizzate non alla nostra salute – alla nostra felicità – ma a garantirci accettazione e approvazione dagli altri. La loro follia, pertanto, è una fuga dall'altra follia: quella di cui facciamo parte, cui ci adeguiamo senza volerlo, che recitiamo con l'atto stesso di comunicare. L'uomo che esce di casa con una valigetta di pelle, vuota, simulando a se stesso e ai vicini che ha ancora un lavoro mentre passerà l'intera mattina nell'auto a leggere un giornale. Questa mania di ricontrollare, dopo solo un minuto, il nostro profilo su Facebook. La risata, fatta a una battuta squallida, per compiacere il professore da cui dipende la carriera accademica. La parola “lavoro”, usata nonostante dal nostro impegno non ricaviamo alcuno stipendio.



Un attore, un'attrice

“Con Pirandello” – scrive Giuseppe Bonafacino in Allegorie malinconiche – “la follia è metafora del linguaggio doppio dell'arte”; di più: “la follia è proiezione metaforica dello sguardo, della sintassi visiva articolata nella camera della mente dell'artista”. C'è, insomma, l'espressione della coscienza artistica nella pazzia dei personaggi di Pirandello: la capacità di cogliere e analizzare l'ombra o il dettaglio delle cose, la deformazione percettiva e ricreativa, la totale aderenza alle immagini prodotte dalla mente, lo smascheramento della recita sociale attraverso la propria recita personale, la propensione all'a-parte, al soliloquio o al monologo e la condizione intima di disagio, l'offerta sacrificale di sé, la separazione tra me che parlo, spiego, ragiono, vi espongo e voi che mi osservate, ascoltate, applaudite o fischiate. C'è del teatro, dunque, in questa follia come dimostra la propensione pirandelliana a svelare – ad un punto – la situazione artigianale, scenografica e drammaturgica di cui il personaggio fa parte: l'attrice di Trovarsi, il palco in prova che accoglie i Sei personaggi, la stanza arredata da Enrico IV, al quale la vita sfugge dalla manica del costume di scena come sfugge da un cespuglio una serpe. Vale anche per Delirio bizzaro?
Una trama di frammenti dialogici, che si autocita e gioca con l'assurdo e con il fraintendimento e che, nel suo darsi, mostra un accorto uso critico della parodia, decomponendo la natura dei personaggi e ribaltando senso e valore dei modelli che sono oggetto di irrisione. Ancora: il cambio degli arredi a vista (la panca si divide in due sedie), il fondale traversato come una quinta, la reiterazione di scene e relative battute; il teatrino compiuto con la scarpa, l'innaturalezza di alcune pose, l'uso del fermo-immagine, la frontalità data al pubblico, l'uscita di scena annunciata e che (beckettianamente) non porta ad alcun abbandono del palco: Mimmo non può lasciare questo luogo; i dialoghi instaurati per interrompere il silenzio e continuare ad esistere al cospetto del pubblico, la dipendenza reciproca delle due figure, la dichiarata circostanza (meta)teatrale esposta dalla trama: uno spazio ad un tempo chiuso ed aperto, una recita da fare, il “cunto da cuntare e che quando lo cunto cunta”.
Delirio bizzarro dice dunque anche di un'altra pazzia: quella degli attori e delle attrici, mostrandone per allusione la condizione periferica o isolata nel dibattito pubblico, la clausura spaziale, la fragilità emotiva, certe fissazioni improvvise, i paradossi e le assurdità del mestiere e le difficoltà professionali, la gratuità della prestazione (“da volontaria sto facendo un'esperienza straordinaria”) e la fame, la miseria materiale delle condizioni di recita, la frammentarietà dell'impegno lavorativo, la dipendenza da una burocrazia insana che legifera sul teatro e i teatranti senza conoscere davvero né l'uno né gli altri. Ecco perciò il riferimento al “rito”, ecco le indicazioni registiche interne (“lo devi fare una sola volta”), l'importanza della memoria e delle prove ("hai visto che a forza di ripeterlo ci siamo quasi riusciti?"), le casualità attorali (“hai sputato”, “mi dispiace”), la citazione da repertorio (“anche la follia vuole i suoi applausi” di Alda Merini), la dichiarazione della propria poetica (“sto lavorando sulla lentezza”), la cura della posizione in assito (“non sono al centro della scena”) e le rassicurazioni date da chi dirige a chi interpreta (“sei il protagonista, lo capiscono” con rimando agli spettatori), la dichiarazione del teatro come luogo ed occasione d'incontro (“noi lavoriamo sulle relazioni, le relazioni mi cambiano”) e di riflessione catartica (“mi permette d'identificarmi con l'altro”). Finanche la vocazione al suicidio, che contraddistingue entrambi (“chissà se a domani ci arrivo”, “tanto domani mi ammazzo”) è interpretabile − oltre che come drammatico istinto all'annullamento di sé e come lacerto pirandelliano − in termini teatrali: non muore forse ogni sera, a fine replica, il personaggio che è appena vissuto nello spettacolo?
Il teatro, dunque.
“Questo è un posto speciale” dice Sofia/Cristiana Minasi, “è il posto più bello che c'è”, questo “è un lavoro bellissimo” insiste e “non resta che farlo al meglio” ed ancora: “io qui voglio stare” ovvero voglio stare qui dove ho scelto di provare ad esistere vivendo la mia vita recitando quella degli altri, qui dove – rifiutando ciò che da me si aspettavano mio padre e mia madre, ciò che imponeva il mio percorso di studi e che mi suggerivano le mie tasche – insisto ancora a rimanere: qui dove, fingendo un dolore, ad un tempo condivido con gli altri i dolori che sento e tento di salvare me stessa, almeno in parte, dai tormenti che provo.
Difficile non vedere, ad esempio, in Sofia anche un portato autobiografico di Cristiana Minasi, laureata in Legge che sta dedicando la sua vita al palcoscenico; difficile non scorgere in Delirio bizzarro anche la terza fase di un racconto fatto in teatro e capace di parlare del teatro: raccontava Due passi sono del coraggio che necessita ogni principio; denunciava De Revolutionibus l'amoralità che guasta dall'interno la teatralità italiana; dice Delirio bizzarro della pazzia vocazionale degli attori, controbilanciata dalla pazzia del sistema burocratico (ministeriale e locale) che gli attori li offende, li discrimina, li dimentica.

 



Le immagini delle opere di Gaetano Chiarenza, poste a corredo del'articolo, sono tratte da: www.lalleru.it


Delirio bizzarro
di e con
Giusepe Carullo, Cristiana Minasi
scene e costumi Cinzia Muscolino
scenotecnica Pierino Botto
disegno luci Roberto Bonaventura
aiuto regia Veronica Zito, Eleonora Bovo
collaborazione artistica Ivana Parisi, Simone Carullo, Giovanna La Maestra
e con la collaborazione di Centro Diurno di Salute Mentale “Il Camelot”, Teatro Vittorio Emanuele di Messina, “Casa del Con”
produzione Carullo-Minasi, La Corte Ospitale
foto di scena Gianmarco Vetrano
durata 1h 10'
lingua italiano
Napoli, TAN – Teatro Area Nord, 22 gennaio 2016
in scena 21 e 22 gennaio 2016

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