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Thursday, 02 February 2017 00:00

Amore, matrimonio, morte

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“Finalmente qualcosa di nuovo”, viene da dire andando a vedere Il lavoro di vivere al Teatro Nuovo: essenzialmente perché il testo è stato scritto da un autore israeliano, Hanoch Levin, considerato il maggior drammaturgo del suo Paese e conosciuto in Francia e negli Stati Uniti ma che, in Italia, circolava solo nelle rappresentazioni della comunità ebraica romana, in qualche sala minore, mentre giaceva ignorato dal teatro ufficiale, dedito alla replicabilità del proprio repertorio classico. La direttrice del teatro Franco Parenti di Milano, Andrée Ruth Shammah, ha tradotto il testo insieme a Claudia Della Seta e sotto la sua regia Carlo Cecchi lo ha proposto in un questa prima uscita nazionale. Carlo Cecchi ricostruisce questi passaggi nell’intervista rilasciata al Il Mattino a Luciano Giannini, ricordando anche che il titolo originario − Il mestiere di vivere − ricordava troppo Cesare Pavese; quindi la scelta di utilizzare un sinonimo per evidenziare l’assoluta novità di questo autore. 

La scenografia presenta una camera da letto il cui pavimento scivola verso la platea, è leggermente inclinato ad offrirsi verso un pubblico voyeur, coinvolto spesso nei cosiddetti a parte nei monologhi dei due protagonisti, entrambi di mezza età: il marito Yona Popoch e la moglie Leviva. Il letto non campeggia al centro scena, ma è posto quasi di lato, sghembo, in mezzo a due pilastri che ne fanno da cornice insieme ad abiti poggiati sull’“uomo morto” e ai pesanti tendaggi sullo sfondo che prima dell’inizio dello spettacolo vengono chiusi da una comparsa.
Tel Aviv, interno notte. Yona è sveglio, irrequieto, sente tutto il peso di una vita matrimoniale trentennale che si è spenta e con essa anche la voglia di andare avanti. Le sue prime battute sono: “Com’è successo, che ero bambino, tutto il mondo apparecchiato per me, e come ha fatto tutto quanto a sgretolarsi fra le dita. Domande consumate per risposte consumate. Solo il mio dolore non vuole saperne di consumarsi”. Una dichiarazione di sconfitta che Yona usa come incipit-grimaldello per scardinare la porta della sua prigione matrimoniale. Fuori c’è una vita ancora da vivere, forse non è tardi per riprendere le file di un’esistenza che abbia un senso. Echi pirandelliani riecheggiano nel monologo dell’uomo e nell’analisi lucida e spietata della sua sterile situazione esistenziale.
Anche per Levin, il matrimonio come completezza di una storia di amore è visto invece come suo epilogo, finendo per diventare la metafora di quell’esistenza borghese che Pirandello chiamava “trappola”. La conclusione dei ragionamenti di Yona non può non essere che andare via da quella casa verso un futuro che già visualizza. Mentre sta preparando la valigia, la moglie si sveglia, forse fingeva di dormire, ed inizia a interrogare il marito su quello che sta accadendo. Lo scontro verbale tra i due è simile al confronto tra due pugili sul ring: si “picchiano” con le parole più brutte e offensive che riescono a trovare. La sconfitta non è solo dell’uomo, parimenti sconfitto è − per Leviva − il matrimonio stesso, anche se lei risulta più propositiva e più tenace nella scelta di rimanervi, tenendolo in vita: a nulla valgono le soluzioni, le idee, i tentativi di seduzione, le minacce di suicidio della donna. Yona è risoluto ad andar via senza mostrare alcuna pietà.
All’improvviso, però, compare un vicino di casa che bussa al campanello per lamentarsi di vari disturbi e chiedere soccorso, con la scusa di aver visto la luce accesa. Gunkel è un personaggio bizzarro, insiste per avere ospitalità, è così palesemente invadente da cesellare il ritratto dell’ebreo impiccione visto in tanti film di Woody Allen. La sua insistenza nel mendicare un po’ di compagnia, di poter condividere anche solo per un attimo il calore di una vita coniugale è esilarante, ma drammatica nella decisione che ha preso Yona. Gunkel lo scapolo lo dice chiaramente che è meglio bisticciare come due cani piuttosto che “abbaiare da soli contro il soffitto”, che la paura di trovarsi solo nel cuore della notte, la paura di morire può essere sopportata solo con un’altra persona. Il matrimonio non ha niente a che fare con l’amore, è solo un espediente per sopravvivere alla paura di rimanere soli. Così Yona, andato via l’ingombrante ospite notturno, torna sui suoi passi a malincuore, rassegnato a trascinare ancora la sua vita accanto a Leviva che è ben felice di “lavorare” alla vita anche al posto dell’impotente Yona. Una fatica di vivere così pesante da schiacciare per sempre il cuore dell’uomo, mentre si fa giorno, il lavoro di costruire l’esistenza ricomincia e la comparsa iniziale ritorna sulla scena ad aprire le tende su Tel Aviv, interno giorno.
Echi dei migliori drammaturghi novecenteschi sono presenti nel resto di Levin: oltre al già citato Pirandello, ci si legge Pinter e Beckett e la recitazione strascicata, ironicamente annoiata di Carlo Cecchi non fa altro che risaltarne l’originalità tradizionale − mi si passi l’ossimoro − di questo testo. Perfettamente incastonati sulla scena Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto che, con la sua piccola apparizione, rende un irresistibile Gunkel. 

 

 


Il lavoro di vivere
di Hanoch Levin
traduzione e adattamento Claudia Della Seta, Andrée Ruth Shammah
regia Andrée Ruth Shammah
con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
scene Gianmaurizio Fercioni
luci Gigi Saccomandi
costumi Simona Dondoni
musiche Michele Tadini
produzione Teatro Franco Parenti, Marche Teatro
foto di scena Fabio Artese
lingua italiano
durata 1h 15’
Napoli, Teatro Nuovo, 25 gennaio 2017
in scena dal 25 al 29 gennaio 2017

 

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