“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 16 January 2017 00:00

Riflessioni sul cinema italiano

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Nel nuovo numero dell'Almanacco dello Straniero (dic. 2016 / feb. 2017, Contrasto edizioni) si parla di cinema italiano in un contributo di Paolo Mereghetti dal titolo emblematico: La stessa pappa. L'autore si chiede in apertura di pezzo se esista ancora un cinema italiano dotato di identità, coerenza e coesione. Se si analizzano i dati offerti dal Ministero dello Spettacolo relativi al 2015 il cinema italiano sembrerebbe godere di una discreta vitalità dal punto di vista produttivo, decisamente meno lusinghieri sono i dati relativi agli incassi nelle sale, basti dire che soltanto tre lungometraggi italiani (non certo di qualità) nel corso del 2015 hanno superato il milione di spettatori: Si accettano miracoli di Alessandro Siani ha avuto poco più di due milioni di spettatori mentre Natale col boss di Volfango De Biasi e Vacanze ai Caraibi di Neri Parenti hanno a malapena superato il milione di biglietti staccati.

Certo, come afferma Mereghetti, una cinematografia nazionale “prevedrebbe un pubblico nazionale, una cultura nazionale, un’ambizione nazionale, tutte cose che in Italia sembrano se non sparite almeno introvabili. Non esiste una lingua comune con cui declinare argomenti diversi, così come non esiste un orizzonte condiviso verso cui tendere (parliamo del minimo: un’idea di cinema che abbia almeno l’orgoglio della propria specificità stilistica, un’ipotesi di pubblico non solo beceramente schiavo di barzellette e smorfie, un’ambizione d’autore che voglia andare oltre i limiti della propria autogratificazione)” (p. 39).
Evitando di cadere nel piagnisteo giustificatorio ed autoassolutorio che individua le cause della crisi oggettiva in cui versa la cinematografia nazionale di volta in volta nella produzione, nella distribuzione, negli esercenti e nella critica, Mereghetti confronta impietosamente i dati nazionali con quelli di altri Paesi europei ed invita a ragionare, piuttosto, sul tipo di prodotto cinematografico offerto dall'Italia.
Nel nostro Paese, sostiene lo studioso, sembra proprio che “tutti si intestardiscono a offrire sempre il medesimo prodotto, incapaci di imparare quello che la televisione, persino quella italiana, ha finito per capire sulla propria pelle, e cioè che il pubblico vuole variare il menù, stanco di trovarsi davanti sempre le stesse facce e le stesse storie. Al cinema invece, la produzione mainstream sembra incapace di rinnovarsi e ripete all’infinito lo stesso canovaccio, quello di una commedia di costume che non ha più niente del 'costume' ma nemmeno della commedia, per rifugiarsi nella riproposizione delle prevedibili macchiette e delle scontate battute che dovrebbero identificare questo o quel protagonista” (p. 40).
Il cinema italiano, sostiene Mereghetti, sembra davvero incapace di fuoriuscire dalla commedia sguaiata ed approssimativa, riproponendo attraverso essa ruoli e volti che si ritrovano costantemente al cinema ed in televisione, tanto che ogniqualvolta ci si trova di fronte ad un prodotto che si distanzi un po' dalle solite commedie si è particolarmente benevoli nei suoi confronti e si è tentati a vedere in esso un possibile spiraglio per una rinascita di un cinema nazionale dignitoso.
L'alternativa al “cinepanettone” non è per forza di cose una produzione di nicchia sostanzialmente autoreferenziale; lo studioso auspica piuttosto un cinema italiano capace di collegare il mondo poetico degli autori a quello magari più prosaico dello spettatore. Serve un dialogo tra questi due estremi, non certo un “proclama” od un “comizio” di un autore nei confronti del pubblico: “Non penso che basti fare un 'documentario' per essere riusciti a entrare in rapporto con il mondo reale né che sia sufficiente evitare le trappole del 'mercato' per appiccicarsi una medaglietta al petto. Troppo spesso queste due strade, che si congiungono in un’autoassoluzione che sa molto di gratificazione, trovano il loro collante nel rifiuto tout court dell’esistente, senza però trovare un sincero rigore morale a sostenerle e tantomeno uno sbocco alternativo credibile e percorribile [...]. Terminato il tempo in cui i film funzionavano da filtro e catalizzatore insieme per la cultura dello spettatore, capaci di sintetizzare in due ore di spettacolo un’idea e un approccio del mondo, mi sembra che – sommariamente e sbrigativamente – restino due strade oggi percorribili: quella di chi si impegna per ritrovare (ancora) una funzione 'pedagogica' nella forza delle immagini e delle storie che possono raccontare, ricollegandosi magari a strade percorse maggiormente in passato, e tenti di fare del cinema uno 'strumento' di scavo e di analisi e quella di chi, sorretto da una forte e innovativa scelta di stile, cerca di individuare nuovi percorsi di comunicazione e di riflessione, capaci di affrontare terreni magari ancora inesplorati” (pp. 40-41).
A proposito di produzione cinematografica nazionale, vale assolutamente la pena di segnalare la recente uscita in libreria dell'atteso terzo volume di Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita (Mimesis edizioni) a completamento della monumentale opera in tre volumi curata da Roberto De Gaetano. I tre saggi, usciti con cadenza annuale tra il 2014 ed il 2016, analizzano il cinema italiano in maniera del tutto originale rispetto alle storie della cinematografia nazionale pubblicate fino ad ora da altri autori.
I tre volumi passano in rassegna ventuno voci indagando come queste sono state affrontate dal cinema nazionale nel corso della sua storia.
Volume I (2014): Amore (Roberto De Gaetano), Bambino (Emiliano Morreale), Colore (Luca Venzi), Denaro (Marcello Walter Bruno), Emigrazione (Massimiliano Coviello), Fatica (Federica Villa), Geografia (Francesco Zucconi).
Volume II (2015): Habitus (Giacomo Manzoli), Identità (Roberto De Gaetano), Lingua (Fabio Rossi), Maschera (Bruno Roberti), Nemico (Daniele Dottorini), Opera (Francesco Ceraolo), Potere (Gianni Canova).
Volume III (2016): Quotidiano (Carmelo Marabello), Religione (Alessio Scarlato), Storia (Christian Uva), Tradizione (Luca Malavasi), Ultimi (Alessia Cervini), Vacanza (Ruggero Eugeni), Zapping (Alessandro Canadè).
Ogni studioso, nell'affrontare il proprio lemma, a partire dall'analisi di un film recente, passa in rassegna la storia della cinematografia nazionale affrontando venticinque opere in totale.
Ai fini di una riflessione generale sulle specificità della cinematografia nazionale, così come si è sviluppata dai suoi esordi ad oggi, risultano di particolare interesse l'introduzione di Roberto De Gaetano, collocata in apertura del Primo volume, e la postfazione di Francesco Casetti in chiusura del terzo volume.
Secondo De Gaetano quello italiano è un cinema che è stato “sempre vicino alla vita sentita e pensata oltre le forme della società civile, dello Stato, della nazione e della storia” (Vol. I, p. 11), un cinema che ha saputo raccontare, nel corso della sua storia, quella “nascita mai avvenuta di una nazione” e lo ha saputo fare proprio grazie al suo essere profondamente radicato nella realtà.
Francesco Casetti sostiene che “ciò che caratterizza il cinema nazionale non è uno stile, né una storia ricorrente, né un canone [quanto piuttosto] una sorta di abbandono al flusso dell’esistenza, un’allergia a delle regole condivise, un’unità che si costruisce come difficile ricomposizione di singolarità, una diffidenza nei confronti delle istituzioni, una capacità di risposta che nasce dalla situazione concreta [...] il cinema italiano preferisce il rischio di stare attaccato alle cose piuttosto che il piacere di una formula espressiva condivisa e stabile; in esso il flusso della vita vale più delle forme che dovrebbero catturarlo. Ciò gli consente una straordinaria apertura 'all’esteriorità del mondo e all’incompiutezza che lo definisce'” (Vol. III, p. 474).
Il cinema italiano sembra dunque evitare una vera e propria formalizzazione e ciò ha permesso al sentimento della vita di emergere, la “maniera” italiana “non fornisce una collezione di formule fatte e finite; semplicemente testimonia il desiderio di formalizzare un’espressione che altrimenti sarebbe informe. È una 'maniera' che appunto abita i piani bassi del cinema e che subito emigra altrove, una maniera 'dislocata'. È spesso anche una maniera che funziona da 'abbozzo', da riprendere e da rilavorare, con nuovi accenti e nuove prospettive. È una maniera che si presta a improvvise rifondazioni e a successive ricodificazioni, una maniera 'liquida'” (Vol. III, p. 481).
Il comprensibile, quanto giustificato, sfogo di Paolo Mereghetti sulle pagine dell'Almanacco dello Straniero deve forse essere collocato all'interno di questa storia nazionale, una storia che ha saputo coniugare qualità e grande pubblico, specificità nazionali e capacità di ottenere un riconoscimento internazionale. Certo, il tutto deve essere collocato all'interno delle grandi trasformazioni produttive, distributive, tecnologiche e di immaginario che fanno del cinema di oggi un qualcosa di decisamente diverso rispetto a ciò che è stato nel corso della sua storia.

 

 

 

 

Almanacco dello Straniero
Arte, Cultura, Scienze, Società
Interventi, Saggi, Proposte, Poesie, Racconti, Disegni
Rivista diretta da Goffredo Fofi

Anno XX n. 198/199/200 dic. 2016 / feb. 2017
Edizioni Contrasto, Roma
pp. 292


Roberto De Gaetano (a cura di)
Lessico del cinema italiano
Forme di rappresentazione e forme di vita

Mimesis edizioni, Milano-Udine
Volume I, 2014, pp. 554
Volume II, 2015, pp. 556
Volume III, 2016, pp. 532

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