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Sunday, 15 January 2017 00:00

Peperoni pirandelliani

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Insomma, lo volete fare anche voi, sì o no, questo
esperimento con me, una buona volta? Dico, di
penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla
pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di
quelle che vi paiono le più consuete e normali, e
sotto la quieta apparenza della così detta realtà
delle cose.
(Luigi Pirandello, Uno nessuno e centomila)

 

Col naso che pende a destra
“Che fai?” chiede la moglie a Vitangelo Moscarda; “Niente, mi guardo qua, dentro il naso, in questa radice” –  risponde lui – “Premendo avverto un certo dolorino”. La moglie sorride poi passa oltre dicendo: “Credevo ti guardassi da che parte ti pende”. “Mi pende? A me? Il naso?”.

Per ventotto anni, cioè per tutta la vita fino ad allora vissuta, Vitangelo Moscarda ha creduto d'avere il naso diritto. Non s'era cioè mai guardato come gli altri lo hanno guardato; di più: non s'era mai guardato come adesso la moglie costringe a guardarlo inducendolo a rivedere le convinzioni riguardanti il suo naso, il suo volto, il suo corpo, l'immagine che produce di sé e quella che di sé egli ha. “Che fai?”. “Credevo che”. Nella relazione tra queste due frasi della moglie il punto di partenza del romanzo di Pirandello: una circostanza inattesa porta a una presa di conoscenza progressiva. Il caso dunque incrina lo sguardo di Vitangelo, costringendolo ad osservarsi da una prospettiva diversa ed è così che muta lo spettacolo ch'egli vede: “Le sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi”, “le orecchie erano attaccate male” e – ancora – difetti “nelle mani, al dito mignolo” e nelle gambe poiché la destra gli si mostra “un pochino più arcuata dell'altra: verso il ginocchio”. Vitangelo scopre in questo modo di non essere uno ma centomila e perciò nessuno.
In Peperoni difficili tre uomini non hanno moglie ovvero: non hanno qualcuno che gli faccia notare i propri difetti, le proprie mancanze o diversità ("se io potessi guardarmi da fuori..." sento dire ad un punto, non a caso).
Filippo ha perso Mariangela e se ne culla nel culto, ipotizzando un ritorno di fiamma impossibile: fragile sino alla debolezza infantile – le mani gli tremano, la testa è inclinata costantemente verso il basso, la fronte è sudata, il volto arrossato – Filippo vive una costante dipendenza rispetto al giudizio degli altri ma il giudizio degli altri è ipocrita, pietoso, bonario: nessuno gli dice che non sa suonare la chitarra né comporre canzoni decenti; nessuno lo pone al cospetto del suo fallimento sportivo (aspirava a diventare un calciatore di serie A, allena invece una squadretta amatoriale che vivacchia a metà classifica); soprattutto nessuno gli conferma che Mariangela sta con un altro, che non lo ama più e che non ci sono possibilità che la vita di ieri coincida con l'esistenza di domani. Così Filippo è come Vitangelo Moscarda prima del “Che fai?” di sua moglie e perciò continua a pensare d'avere il naso diritto: le schitarrate in chiesa durante l'omelia, il torneo parrocchiale, quest'anello portato ancora al dito e che lui carica di speranza (futura) mentre non è che un segno di sconfitta (passata).
Crede d'avere il naso diritto anche Giovanni. Prete da paesello ordinario, punto di riferimento della microcomunità che gli è stata assegnata, Giovanni esercita la sua missione senza accorgersi che è diventata oramai un insieme di abitudini: l'oratorio al mattino, la messa detta alle venti vecchiette del paese, la confessione di Filippo ogni giorno e a ogni ora, l'estrema unzione – costantemente rimandata – alla signora Maria Antonietta, che si ostina a sopravvivere. Quest'impegni non sono che la forma esteriore di una propensione interiore alla consuetudine placida, oziosa, più comoda: la fede di Giovanni si è tramutata nel tempo in un cumulo di citazioni automatiche e che non hanno più peso, sostanza e valore; così la Bibbia non è che un libro tra i libri, la stola è associabile a una sciarpa calcistica, il pigiama sostituisce l'abito talare, il dolcetto alla mandorla dimostra l'esistenza di Dio e un sacramento può essere esercitato nel soggiorno-cucina, tra il tavolo tondo marrone e la sedia pittata di bianco. La Fede si è sbiadita nell'ufficio quotidiano, il prete ora è associabile al dirigente comunale, all'uomo delle Poste, al dipendente dello sportello bancario: lo dimostra la borsa porta-documenti con cui s'accompagna. Così i suoi atti non incidono più sul reale e nessuno crede davvero a ciò ch'egli professa: non ci crede Filippo, non ci crede Pietro, non ci crede neanche lui stesso.
Ho nominato Pietro. Prima studente di successo poi analista finanziario in carriera, Pietro è ricco e spiritoso, brillante, abile nel dialogo, furbo nel corteggiamento; guida un'auto di grossa cilindrata – ne percepiamo il rombo del motore –, veste in maniera appropriata, conosce i luoghi del paese che vanno frequentati: il Corso principale, la ruota panoramica, il ristorante stellato. Anche Pietro, tuttavia, ha il naso che gli pende. Più precisamente: il ginocchio sinistro gli si piega all'interno, gli indici delle mani sono fissi diritti, la testa è inclinata verso la spalla destra, le labbra producono una smorfia costante mentre le parole gli si trascinano al pari dei passi. Pietro non riesce a tagliare il pane – perché è un'intellettuale, dunque è disabituato ai lavori manuali gli dicono –; Pietro fa cadere la teglia col cibo – “perché troppo calda”, sostiene lui; Pietro quando brinda rovescia il contenuto del calice e non riesce a battere le mani a tempo di musica. Pietro è spastico ma nessuno gli dice che è spastico. In casa non ha specchi – non può dunque riflettersi, cioè non può guardarsi e pensarsi davvero – e accanto non ha una moglie che gli domandi “Che fai?”. Così la sua malattia – questa enorme fatica che fa nel salire le scale, questo peso che sente nella mano quando deve alzare un bicchiere – non è una malattia mentre è una malattia il raffreddore: “Si vede che sono malato” dice a Giovanni, prima di aggiungere: “Sono raffreddatissimo”.
Peperoni difficili presenta dunque una condizione di partenza basata sull'equilibrio relazionale e sociale: ogni personaggio serba di sé un'immagine in soggettiva, protetta dalla delazione degli altri. Non c'è, per dirla con Angelo Pupino, “la dissonanza”; il cielo di carta – per citare Il fu Mattia Pascal – è per ognuno ancora intatto (Pietro, Giovanni e Filippo non hanno cioè fatto ancora esperienza della tragedia moderna, costituita dal dramma della consapevolezza); non si è ancora manifestato quel sentimento del contrario che è alla base della produzione letteraria e teatrale pirandelliana e di cui Giovanni potrebbe prendere coscienza se non si addormentasse, puntualmente, durante la lettura di “quel saggio di Pirandello” – presuppongo L'umorismo – che ha cominciato ma che non riesce a proseguire.
Perché ci sia dissonanza, perché si manifesti il sentimento del contrario, perché il cielo di carta subisca lo strappo occorre dunque Maria.


Maria, ovvero il disturbante e l'umorista
Per Maria “un delitto è un delitto, l'amore è l'amore, la verità è la verità, una malattia è una malattia e un handicap è un handicap: non è una diversa abilità”. Per Maria il bidello si chiama “bidello” e non “collaboratore scolastico”, “se il cibo si è rovinato si è rovinato” e “se una cosa è rotta è rotta” e, dunque, Giovanni (suo fratello) da piccolo rubava le caramelle alla coca-cola, la canzone cantata da Filippo è “statica”, “ripetitiva”, “banale” e “mediocre” mentre Pietro è “meraviglioso”, certo, ma è “malato” e la sua deformazione fisica impedisce ch'ella provi “attrazione sessuale” nei suoi riguardi.
Maria torna inaspettatamente dall'Africa – dov'è stata in missione – chiedendo ospitalità a Giovanni e qui si porta ancora addosso l'odore cattivo che produce l'esperienza reale del mondo: la fame, la sete, le lacrime, la fatica, le pance gonfie dei bambini e la guerra col sibilo dei proiettili, il calore delle fiamme, la violenza degli stupri, le braccia mutilate, le gole scannate dei compagni di missione. “Il male esiste” afferma Maria in contrapposizione a Giovanni, per il quale non è “che assenza di bene”, e per lei non c'è dunque parola che possa edulcorare la percezione del reale e del male; non c'è frase – dialogo, confessione, conversazione, parabola, citazione letteraria o religiosa – che funga da ovatta, che protegga o ristori: “Non bisogna avere paura della verità” dice infatti, “la verità è tutto” ripete.
Maria – in Peperoni difficili – opera perciò come elemento straniante: giunta dall'esterno abita l'interno della situazione minandone il patto tacito; fa da specchio rivelatore, fa da contraltare confessionale, fa da elemento di chiarificazione, fa da portatrice di consapevolezza e, dunque, di tragedia. Abituata a riflettersi, cioè a guardarsi (nello specchio) ed a pensarsi di continuo – fino a scorticarsi l'anima col senso del peccato che le deriva dalla morte mancata e dalla sacralità conseguente – Maria opera da agente rivelatore: impone la dissonanza; strappa il cielo di carta; rivela a Giovanni, Pietro e Filippo che il loro naso pende a destra. Opera nei confronti degli altri personaggi da disturbante. E d'altronde aggiungo: mentre Pietro, Giovani e Filippo si danno una forma per sottrarsi e salvarsi all'informe andamento de “la vita vivente”, per usare un'espressione cara a Stefano Pirandello, invece Maria è l'opposto: vive il cruccio della forma mancata – la santità sacrificale (di cui la preparazione del piatto africano che dà il titolo allo spettacolo è una diminutio) – per cui è in continua balia dell'esistenza.
Ma c'è di più.
Io vedo una vecchia signora – scrive Pirandello ne L'umorismo, il saggio che Giovanni ha a scaffale – ; la vecchia ha i capelli tinti, è “goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili” ed il primo moto che provo è riderne poiché “ella è il contrario” di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. Ecco il comico – che è la forma che qualcuno potrebbe erroneamente associare a Peperoni difficili, poiché durante lo spettacolo si sorride. Ma poi “interviene in me la riflessione” continua Pirandello e così comprendo che “quella vecchia signora non prova nessun piacere a pararsi come un pappagallo”, che ne soffre e che si concia in quel modo per “trattenere a sé l'amore del marito” o che si inganna sull'età nascondendo a se stessa “le rughe e la canizie” ed allora io smetto di ridere e, preso dal sentimento del contrario, capisco quanto strazio alberghi in quel petto, quale situazione dolorosa stia vivendo la signora. Se all'interno di Peperoni difficili Maria è il disturbante, provocando consapevolezza negli altri personaggi, nei confronti degli spettatori invece svolge proprio la funzione di umorista: partecipa all'ilarità dell'opera permettendoci di capirne le ragioni tragiche, le radici dolorose e più nascoste. La solitudine vissuta da Filippo, l'incapacità di accettare la propria deformità di Pietro, il senso crescente di inutilità provato da Giovanni.
Portato oltrescena. Quel signore anziano, che vediamo parato come un personaggio beckettiano, e che sta mascherando agli altri la povertà col belletto della decenza. L'uomo che stamattina esce di casa con la valigetta, nonostante abbia perso il lavoro. Ognuno di noi quando cela, innanzitutto a sé stesso, la propria incapacità, un fallimento, una debolezza, questa paura che non riesco neanche a nominare e che non mi fa dormire la notte. Ecco, a mio parere, Peperoni difficili; ecco in cosa consiste la sua natura pirandelliana.


La stanza della tortura, il palco dei pensieri e degli incubi
C'è un altro aspetto che mi fa scrivere di Peperoni difficili in termini pirandelliani tuttavia: l'ambiente nel quale l'opera avviene. Pareti sulla destra, la sinistra e sul fondo, lì dove s'apre un balcone che dà su uno scorcio da terrazzo. Una porta a sinistra, un'uscita sulla destra che idealmente funge da corridoio e conduce alle altre stanze della casa. Siamo al cospetto di un luogo chiuso – la quarta parete è innalzata – ovvero siamo nella stanza della tortura teorizzata da Giovanni Macchia: siamo, per fare un esempio, nel salone in cui vengono interrogati crudelmente la signora Frola e il signor Ponza. Ambiente di rappresentanza della medio/bassa borghesia, luogo dalla compresenza inquisitoria, camera del confronto, il salotto/cucina di Peperoni difficili assume in apparenza la stessa funzione che ha l'ambiente in Così è (se vi pare): funge cioè, per dirla proprio con Giovanni Macchia, da “struttura naturalistica” ed è “rappresentazione credibile di un mondo certo, a tre dimensioni”: è, insomma, “il mondo che si conosce o che noi crediamo di conoscere”. Per questo il divano, il tavolo con le quattro sedie, la cucina sul fondo; il tavolino a parete e lo specchio, la pentola sui fornelli, il citofono a muro; il mobiletto coi quattro cassetti e il tagliere di legno, il coltello seghettato, la teglia di metallo, le due fette di pancarré per il toast, la brocca e il bicchiere in porcellana, la bottiglia di liquore, il pallone di cuoio, il vassoio coi pasticcini.
Ma il rapporto di Pirandello col naturalismo, lo sappiamo, fu complicato: c'è, nel reale ch'egli rimonta sulla scena, sempre un lembo di teatralità che fuoriesce all'improvviso – come la serpe dalla manica di Enrico IV: emerge così la falsità della costruzione, si rivela la fattura menzognera dell'impalcatura, diventa chiaro che le pareti non sono che pannelli di legno o di cartapesta. Così, in Peperoni difficili, le foglie e le rose del terrazzo sono di plastica e di stoffa, la televisione in cui guardare la partita non esiste, i peperoni cucinati da Maria sono finti. Ciò che pensavamo reale è una finzione, quello in cui credevamo era una bugia, truccavamo la realtà con l'illusione ma la realtà trova comunque modo di manifestarsi denunciando l'illusione: la teatralità cui Rosario Lisma dà vita registicamente – il sonoro oltrepalco, la musica di sottofondo, i cambi di scena a vista, la relazione con elementi invisibili, i giochi di luce, il faro che taglia lo spazio in orizzontale, l'uso del fermo-immagine o la preparazione di un momento che sta per essere recitato – è dunque la coniugazione scenografica e attorale del contenuto dell'opera: come abbiamo personaggi abituati a mentirsi, finché la verità non gli s'impone, così abbiamo una scenografia realistica che, agli orli, mostra la propria fattura teatrale. La stanza è un palcoscenico, la nostra esistenza è una recita, non siamo che gli attori (in)consapevoli delle storie che viviamo. Per usare le parole che Giancarlo Mazzacurati dedica a Uno nessuno centomila: alla creazione “minuziosa” segue “lo smontaggio aggressivo dell'illusione, come di un bambino che sventri i congegni del suo bambolotto per mostrarne l'artificialità”.
In Pirandello – nei romanzi prima, nelle opere teatrali poi – questo squarcio si traduce da un lato nel crollo d'ogni ipocrisia (è la rivolta anti-borghese operata dall'autore borghese) e, dall'altro, permette l'a-parte, il monologo o il soliloquio, la rappresentazione del flusso di pensieri: così in Peperoni difficili Rosario Lisma consente a Filippo di denunciare la propria inettitudine (con l'incapacità di andare “a puttane”) e a se stesso nella parte di Giovanni di vivere un incubo – le luci rosse dominano la stanza, due vecchi confessori dalla maschera mostruosa improvvisano un balletto, inducendolo poi alla confessione dei sentimenti fino ad allora sopiti – mentre Pietro, per un momento, ha voce ferma e il corpo che agisce in condizioni ottimali: vediamo cioè com'egli si crede e vede (non spastico) nel momento in cui pensa, riflette, pondera sui sentimenti che prova per Maria. Così il dramma smaschera il dramma e queste persone – “campioni di umanità borghese, quotidiana” ora “trasudanti lacrime, sgomento e raccapriccio” per dirla ancora con Macchia – si svelano personaggi di una farsa che ha coinciso con la vita che fino ad allora hanno vissuto: è  “il momento dell'esasperata coscienza”, è “l'eccesso di percezione e ragionamento”, è “la manifestazione dell'orrore”.
Da ciò dipende – in Peperoni difficili – l'insieme costituito da pseudo-realismo e dal suo contrario, cioè l'onirico; da questo dipende la coesistenza tra il tempo dell'orologio (un minuto sulla scena corrisponde a un minuto trascorso in platea) e la cronometria compressa e inverosimile che è propria d'ogni spettacolo teatrale.



Infine

La conseguenza della consapevolezza pirandelliana è la follia, la "corda pazza" per tornare all'Enrico IV: la propensione al rovello continuo, il filosofeggiare logico ma incomprensibile a tutti gli altri, il distacco dalla comunità, il disequilibrio percettivo ed emotivo, il cambio di prospettive che pone il soggetto fuori dall'ordinario, oltre il mondo, al di là delle consuetudini collettive. E in Peperoni difficili? Il finale è aperto e, dunque, non lo so. Ho tuttavia la sensazione che Giovanni, Filippo e Pietro rimangano al di qua, non varchino definitivamente la soglia, non assumano su di sé il peso della verità: non fino in fondo, almeno. Dopo averle dato uno sguardo – dopo aver percepito cioè l'abisso del burrone indicato loro da Maria – è come se tornassero indietro, riadattandosi per quanto possibile al patto pre-esistente. E d'altronde: anche in Pirandello non c'è catarsi e, se non si manifesta la pazzia, per le sue creature c'è la condanna d'essere, di restare o diventare solo oggetto di riso e di commiserazione. “In nome di quello che siamo stati l'uno per l'altro” – chiede Pietro a Giovanni – “da fuori si vede che sono malato?”; “No, non si vede” gli risponde il prete, mentendogli. Prendetelo come un atto d'umana debolezza; prendetelo come un gesto di amicizia o di pietà; prendetelo come segno del trionfo dell'ipocrisia sociale e relazionale (questo cumulo di menzogne più o meno innocenti che ci permette ogni giorno di continuare a salutare, stringere la mano e sorridere a chi ci viene incontro). Prendetelo come l'unico modo possibile che abbiamo per sopravviverci e per sopportarci: ci illudiamo che la ferita sia scomparsa e, per quanto laceri dentro ricordando ad ogni fitta il dolore che abbiamo provato, fingiamo che non ne esista traccia. Così andiamo avanti.
In ultimo.
Il volto stropicciato dal sonno di Giovanni; la mano di Filippo che stringe la tuta che ha indosso, gesto che ne rivela il nervosismo e l'insicurezza; il trascinarsi verbale di Pietro; la maniera in cui Maria beve l'acqua, si allaccia le scarpe, siede sul dorso del divano, si estranea per un attimo dal gruppo cedendo ai propri pensieri più nascosti. Una pacca sulla spalla, il segno della croce ripetuto ed interrotto, il silenzio che segue alla domanda “Non ci siamo sempre detti la verità noi due?”. Se Peperoni difficili riesce a stabilire una relazione diretta – a tratti sinceramente affettiva – col suo pubblico lo deve anche a quattro attori  capaci di rendere i personaggi che interpretano creature verosimili, vere parvenze di vita. Sembrano al punto quasi d'essere. Così il pubblico progressivamente entra in sintonia con lo spettacolo: trattiene il respiro, sorride, si lascia andare a una reazione di sorpresa, attende che la trama si sviluppi, torna a sorridere, sospira con tristezza, a qualche spettatore viene forse una lacrima, si percepisce una commozione latente, rotta infine dagli applausi meritati. Questa dinamica ha un solo momento d'interruzione, costituito dal breve intervallo – motivato con un “cambio di scena” di cui non si percepiscono gli effetti reali in palcoscenico – che interrompe l'adesione emotiva, questo vincolo che drammaturgia, regia e interpretazione sono stati in grado di generare. Sono un peccato questi pochi minuti in cui torniamo bruscamente ad essere astanti al cospetto di un sipario chiuso: sono un richiamo alla realtà − alla verità − di cui, per due ore, non abbiamo percepito alcun bisogno.
Ed è esattamente ciò che capita ai personaggi di cui siamo stati spettatori.

 

 

immagine di copertina all'articolo: ©Fabio Artese

 


Peperoni difficili. La verità chiede di essere conosciuta
di
Rosario Lisma
regia Rosario Lisma
con Anna Della Rosa, Ugo Giacomazzi, Rosario Lisma, Andrea Narsi
scene e costumi Eleonora Rossi
luci Paola Tintinelli, Luigi Biondi
musiche Gipo Gurrado
assistente alla regia Sofia Sironi
assistente scene e costumi Chiara Luna Mauri
produzione Teatro Franco Parenti
in collaborazione con Jacovacci e Busacca
foto di scena Fabio Artese
lingua
italiano
durata 2h 10'
Napoli, Piccolo Bellini, 12 gennaio 2017
in scena dal 9 al 14 gennaio 2017

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