“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 14 January 2017 00:00

La scaltra fine del mondo di Xavier Dolan

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Ha un bel talento, Xavier Dolan, il regista canadese ventisettenne che si è rivelato al grande pubblico cinematografico con il lungometraggio Mommy, del 2014, e che è stato insignito del Premio della Giuria a Cannes.
Ha vinto di nuovo il Premio della Giuria a Cannes, questa volta con il film, una produzione franco-canadese, dove gli attori sono guarda caso tutti d’Oltralpe, e quasi tutti ben noti: Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye e il protagonista, Gaspard Uillel.
Giovane e ardimentoso, manieristico e sfidante, furbo e talentuoso, in una parola: dandy, in senso contemporaneo, quindi meno estetizzante, ma anche meno realmente intellettuale, più effimero, insomma.

Se Mommy aveva stupito e disorientato per l’utilizzo della camera 1:1 e le sue immagini strette, quadrate, claustrofobiche, e per la fatica tecnica e visiva (e psicologica) di tenere due personaggi insieme in un’unica inquadratura, È solo la fine del mondo inonda lo spettatore di molteplici primissimi piani, quasi ad invocare, tentare di provocare ed evocare, una commozione partecipante fuori norma, assoluta, tanto sono durevoli e ripetuti i visi e gli sguardi giganteschi, tristi, persi, interrogativi, degli attori sulla retina dello spettatore.
Escamotage stilistici a parte, la storia di Louis, scrittore gay che, in punto di morte, decide di tornare a casa dopo dodici anni di assenza, per dare alla famiglia la tragica notizia, non convince. Nonostante la bravura degli attori, e l’ostentazione emotiva riportata dalle inquadrature, il film non racconta in maniera matura e completa il divenire interiore e soggettivo, né lo scambio emotivo, tra i protagonisti.
La storia si svolge nell’arco di una mezza giornata, dall’arrivo del giovane ad ora di pranzo alla casa di famiglia, fino a quando comunica che deve andare via, alle 18.
In realtà c’è una sorta di antefatto di pochi minuti situato al mattino, quando il giovane Louis arriva in aereo in terra (regione?) natia, e che vede il protagonista pensare ad alta voce ed anticipare il motivo della sua visita: la comunicazione della sua morte imminente.
Il film si snoda intorno alle fasi e portate del pranzo succulento preparato dalla madre del giovane. Il ragazzo, divenuto famoso – altrove, lontano – per il suo lavoro, viene accolto con entusiasmo dalla sorellina minore e dalla madre, con distanza e sarcasmo dall’altro fratello, con dolce educazione dalla moglie di lui. Il tentativo di riportare caratteri, debolezze, sofferenze e moti dei personaggi attraverso dialoghi e battibecchi è poco riuscito: il protagonista, al di là dei suoi splendidi occhi sbattutici in faccia da una telecamera fin troppo ingombrante, sembra un essere passivo e indifferente, mai partecipe della vita dei familiari, non si empatizza con lui, niente da fare. Non mostra né interesse, né entusiasmo, né partecipazione per nessuno dei componenti familiari, non fa che rispondere con al massimo tre parole alle domande postegli. Il fatto è che questo atteggiamento remissivo e il suo essere così laconico potrebbero essere comprensibili e indurre compartecipazione non stucchevole, di superficie, se fossero correlati al suo stato d’animo distrutto dalla consapevolezza delle prossima dipartita, ma la costruzione del personaggio attraverso le parole dei familiari, i suoi modi, le sue spesso tacite ammissioni, sono indizi chiari che inducono invece a comunicarci che egli è sempre stato così, indifferente, appunto, poco sensibile alle altrui sorti, sensibile, sì, ma di una sensibilità divenuta presto impermeabile. Disinteressarsi per dodici anni delle sorti e dei vissuti della famiglia, oltretutto, è già di suo oggettivamente esplicativo, come piuttosto egoistico sembra anche, in fondo, il tornare per condividere la sofferenza, e darla, senza possibile rimedio alcuno, ai familiari.
Il film non decolla anche perché non crea pàthos: il rimandare continuo, di ora in ora, della “confessione” non impressiona, non provoca partecipazione. È facile quasi subito intuire che la confessione – il dolore più grande, che solo forse, in un quadro familiare di emotività infantile, incompiuta, a strappi, potrebbe ricucire i sentimenti e portare con armonia i conflitti in superficie per farli evaporare definitivamente – non avverrà mai. Perché il protagonista non è un coraggioso che ha lottato per affermare se stesso e il suo talento, ma è un pavido che ha rifuggito coinvolgimenti familiari sia sentimentali che pratici e materiali: sempre dalle parole della bizzarra madre sembra di capire che il padre sia morto quando i figli maschi erano ragazzini – la piccola ha una quindicina d’anni in meno di Louis, che è pure il secondogenito. Il dialogo del film che pare più convincente e “vero”, nel senso di credibile e di verosimile, avviene quando i due fratelli vanno a fare un giro in automobile, perché Louis ha capito che la sorella è troppo emotivamente fragile (si sente orfana, come avesse perso un padre, a sei anni, invece di un fratello, e vorrebbe solo attenzioni da lui, fare parte della sua vita, quindi Louis proprio non riuscirebbe a darle un dolore del genere, dopo l’illusione per lei color miele del suo ritorno), la madre da un lato è persa nel suo mondo di leggerezza e sogno, dall’altro è così felice di riabbracciare il figlio e certa che tale “venuta” significhi un nuovo inizio, una nuova fase, che anche con lei non se la sente, nonostante l’occasione di dirglielo a tu per tu. E pensa allora di comunicare la sua malattia al fratello, meno emotivamente coinvolto, più forte. Bene: in questo dialogo il fratello, che per tutto il film appare come un gretto, un violento, un personaggio maschilista e poco sensibile, si rivela più umano del fratello pensatore e scrittore, il quale fonda la sua vita, il suo modo di relazionarsi agli altri, su invenzioni fiabesche o questioni trascurabili, quando c’è la realtà di una famiglia allo sbando a cui pensare, da provare a rimettere insieme, dopo averla ignorata per anni e anni. Inoltre, non traspare neanche un filo di genialità dalle poche riflessioni che Louis fa: sembra una persona comune, e questo forse è l’errore “concettuale” più grave, probabilmente dettato dall’inesperienza o solo dall’anagrafe, che Dolan commette. Non appare l’estro artistico che potrebbe portare all’assoluzione di una persona dalla personalità così impalpabile.
Neanche l’epilogo convince: prima Louis invita fratello e sorella ad andare a trovarlo, a trascorrere del tempo con lui, illudendoli, e immediatamente dopo dice: “La verità è... la verità è... che ora devo andare via”. Una doccia fredda, una svolta che assume i toni della violenza emotiva, che scatena il putiferio, ma il capro espiatorio (e non si capisce bene stavolta perché) è individuato da tutti in Antoine, il fratello maggiore. E il film finisce così, con la famiglia che scompare progressivamente dall’inquadratura e Louis che resta solo al centro dell’atrio della casa, mentre il sole si avvia verso il crepuscolo e un uccellino vola come imprigionato e pazzo tra le stanze della casa, sbattendo infine contro un muro, cadendo sul pavimento e morendo stecchito giusto davanti al giovane. Una metafora vaga e semplicistica per un film che avrebbe potuto incarnare in modo valevole ciò che di più tragico e affascinate si possa raccontare: i sentimenti all’interno di una famiglia.
Dolan avrà tempo di crescere, artisticamente, visto che ha indubbie qualità. Stupisce un po’ il riconoscimento che riceve ora, in Francia soprattutto, visto che il suo essere dandy per il momento non si sostanzia in originalità che unisca forma e sostanza, come il dandy più famoso di ogni tempo, Oscar Wilde, a suo modo suggeriva: “Il pensiero e il linguaggio sono per l'artista gli strumenti della sua arte”. Nel giovane cineasta canadese il linguaggio è consapevole e imponente, ma il pensiero difetta, in parte latita, anche perciò il secondo prende il sopravvento in maniera sì marcata e sovrabbondante sul primo. Invece è proprio il pensiero la base del linguaggio: lo genera e lo forgia, dandogli la giusta cornice, il necessario equilibrio. Si attendono sviluppi, e se fossero davvero dandy, ci sarebbe senz’altro da gioire.

 

 


N.B.: su È solo la fine del mondo si veda anche:
Michele Di Donato, Incomunicabilità in dissolvenza (Il Pickwick – 11 gennaio 2017)



 

È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde)
regia Xavier Dolan
soggetto Jean-Luc Lagarce
sceneggiatura Xavier Dolan
con Nathalie Baye, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Léa Seydoux, Marion Cotillard, Antoine Desrochers
fotografia André Turpin
musiche Gabriel Yared
produzione Sons of Manual, MK2 Productions, Téléfilm Canada
distribuzione Lucky Red
paese Canada, Francia
lingua originale francese
colore a colori
anno 2016
durata 97 min.

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