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Thursday, 12 January 2017 00:00

Il fascino perverso dell'onestà

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Correva l’anno 1917 quando fu scritto e rappresentato per la prima volta Il piacere dell’onestà.La versione proposta da Antonio Calenda è la stessa di cento anni fa, anche se i tre atti sono condensati di un due, di lunghezza disuguale, scanditi da cambi di luce e dal risuonare di languide note di tango contemporaneo. Le tematiche sono quelle canoniche dell’autore: il decoro vuoto, già allora, della società borghese, regolamentata dalle ipocrisie e dalle forme convenzionali; la differenza tra l’essere e l’apparire; tra la maschera e ciò che si è veramente; il contrasto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere; la maternità come valore e condizione assoluta della donna, che fagocita qualsiasi altro ruolo o aspettativa della donna.

Come cento anni fa l’azione sembra fare perno e reggersi sul protagonista, mentre la recitazione dei comprimari, classica e impostata nella dizione e nei movimenti, li limita al ruolo di strumenti dell’azione, un po’ statici quando non sono direttamente impegnati nel dialogo. La “difficoltà” ragionante del teatro pirandelliano, avvertita così acutamente allora, sembra persistere anche qui, nonostante l’inserimento nel canone del teatro regolare, borghese, nei discorsi rivolti verso la platea, senza tuttavia l’emergere di una condizione straniante di metateatralità. Qua e là, tuttavia, le scelte registiche fanno trapelare volutamente la finzione teatrale, con i personaggi che si vedono entrare in scena, attraverso il tulle nero, trasparente, illuminato da dietro. Lo stesso espediente è impiegato alla fine del primo atto, nel dialogo tra Colli e Baldovino, origliato da Agata, che vediamo in posa meditativa dietro la parete nera, che ascolta non vista, ma come percepita dallo stesso Baldovino, che sembra sperare, come dirà nel finale, in un suo intervento.
La gestualità dei personaggi ne caratterizza il carattere: rigida, impettita, nervosa, la signora Maddalena, la madre di Agata, si muove a scatti, torcendosi nella pena di aver contribuito, con il suo non voler vedere, alla “perdizione della figlia”; Agata è rigida e statuaria, dalla voce forse troppo caricatamente stentorea, come una bambola priva di carne e sangue agita dalle circostanze; il parroco è untuoso, gioviale, si frega ipocrita le mani, arretra timidamente, da seduto, quando Baldovino si oppone al battesimo in casa; Maurizio Setti, il cugino di Fabio Colli, è disinvolto uomo di mondo, piacente, brillante, siede spavaldo, a suo agio in quella casa; Fabio Colli è cinico e in fondo volgare, siede sciatto e scomposto, privo di alcun tipo di fascino, così in contrasto con Angelo Baldovino, che giunge sommesso, timido e siede compunto, con le ginocchia e le punte dei piedi unite.
Ciò che colpisce visivamente in questo raffinato adattamento sono i netti contrasti di colore: bianco e nero, nero e rosso. Nere le tre pareti della scena, che si aprono su altrettante porte, bianche di quel bianco antico della vernice shabby chic che va tanto per la maggiore. Il proscenio è nudo, se si esclude la presenza di due panche/divanetto coperte di cuscini, bianche anch’esse, come le modanature che definiscono lo spazio, il salotto di casa Renni, in cui si svolgono i tre atti di questo dramma alto-borghese, chiuso e soffocante, quasi claustrofobico, nonostante l’ampiezza e la mancanza di altri arredi scenici, così come la rete di convenzioni, doveri, apparenze da salvare, che danno l’avvio al dramma e determinano le azioni dei comprimari. Unica eccezione i due protagonisti, Angelo Baldovino e Agata Renni, che si scopriranno mutamente innamorati alla fine, di un amore casto e astratto, “il piacere dei Santi negli affreschi delle chiese”. Il quadro finale, prima del calare sulla tela, sembra proprio evocare la Sacra Famiglia, con la donna/Madonna, mai toccata dal suo legittimo sposo, che ostende il bambino allo sposo/San Giuseppe, marito e padre senza essere passato per il grado erotico di amante. Essi sono gli unici che, partendo dall’accettazione dell’assunto iniziale, il matrimonio di facciata che salvi la dignità della giovane e il decoro delle convenzioni, fanno assurgere la forma a sostanza, improntando ad essa la propria condotta. Quella forma che aveva il solo scopo di contenere in modo fittizio la bestialità dell’essere umano (tema ricorrente in Pirandello), si fa sostanza di una sorta di imperativo categorico, che inchioda ciascuno, volente o nolente, a quel dovere morale che impone di volere ciò che si deve. Forse non a caso mentre gli altri, i comprimari, sono invariabilmente illuminati da una luce livida e fredda, che ne rende cerei i volti, come si addice a chi, in fondo, non indossa altro che la maschera imposta dal proprio ruolo in società, loro, i protagonisti, si mostrano anche sotto una luce più calda, umana, che sembra alludere alla presenza di qualcosa di più sotto la maschera.
Ancora qualche nota sul carattere fortemente visuale e coloristico della rappresentazione proposta. Gli accessori sono ridotti al minimo, non orpelli, ma piuttosto attrezzi scenici, che caratterizzano i personaggi o singoli momenti dell’azione: il bastone del Marchese Maurizio Setti, che lo qualifica quale esponente dell’alta borghesia; il cappello nero di Angelo Baldovino, che campeggia su una delle panche/divanetto, quasi magrittiano, mentre il suo proprietario siede sull’altra, ragionando con Fabio Colli; il nero taccuino di pelle sul quale il protagonista ha annotato tutte le cifre relative alla società anonima che avrebbe dovuto rappresentare l’espediente per cacciarlo con ignominia da casa Renni; ancora una volta il cappello nero che, insieme alla nera borsa di pelle, viene lasciato cadere di colpo a terra prima della confessione della pulsione della sua carne, del suo bisogno di essere umano e non solo lume per gli altri, soggetto ragionante che svela le estreme conseguenze di ciascuna azione. Grigi, bianchi, neri, gli abiti degli attori, tranne quello di Agata, nel secondo atto, di un velluto cremisi guarnito in grigio e nero, così come rossi, baciati dal fuoco, sono i suoi ramati capelli. Proprio gli abiti di Agata sembrano scandire i diversi stadi della sua condizione femminile e umana: il bianco virginale del primo atto (seppur colpevolmente gravida, per la società lei è pur sempre una signorina, una fanciulla dal fiore non colto...), cede il posto al rosso del secondo, emblema del sangue della vita che ha generato, passando dalla condizione di Kore, fanciulla appunto, a quella di sposa e, soprattutto, madre, solo madre, per sempre madre; per tornare nuovamente al bianco nel terzo atto, forse perché la scoperta dell’amore la rende, in qualche modo, di nuovo fanciulla, le dona una sorta di verginità spirituale che le permetterà di cominciare, davvero, la sua vita con Angelo Baldovino, che da regista della finzione dell’onestà si trasforma in uomo, finalmente, ai suoi occhi, spogliato della funzione, quasi divina, di deus ex machina dell’azione e incarnato nei panni di un uomo che con vergogna solleva gli occhi sulla sua donna, ma può affrontare risoluto il mondo fuori, forte di una nuova certezza, di un punto saldo, non fittizio, sul quale costruire una vita reale.
Risuonano le note della musica, cala la tela, scrosciano gli applausi, convinti, ad un buon vecchio teatro, lontano dalla catarsi aristotelica, carico degli spunti di riflessione universali tracciati dall’autori, ma socialmente innocuo, che lascia il pubblico soddisfatto e intatto, in senso etimologico, non toccato da quanto ha visto patire da altri confinati ad un altro tempo, un’altra epoca, un’altra etica e moralità.

 

 

 

 

Il piacere dell’onestà
di
Luigi Pirandello
regia Antonio Calenda
con Pippo Pattavina, Debora Bernardi, Valentina Capone, Fulvio D’Angelo, Francesco Benedetto, Marco Grossi, Santo Pennisi, Giulia Modica
scene e costumi Domenico Franchi
musiche Germano Mazzocchetti
disegno luci Salvo Orlando
foto di scena Antonio Parrinello
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale; Teatro Stabile di Catania
lingua italiano
durata 1h 45’
Napoli, Teatro Mercadante, 10 gennaio 2017
in scena dal 4 al 15 gennaio 2017

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